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  • Venerdì 25 ottobre 2024

Il Commonwealth serve ancora, nonostante la monarchia britannica conti sempre meno

L'associazione che riunisce i paesi dell'ex impero (ma non solo) si è trasformata, trovando nuova utilità

Re Carlo III visita il parco nazionale di Le Pupu-Pue, alle isole Samoa, il 24 ottobre
Re Carlo III visita il parco nazionale di Le Pupu-Pue, alle isole Samoa, il 24 ottobre (Victoria Jones/Getty Images)

Venerdì (giovedì sera in Italia) alle isole Samoa, in Oceania, è iniziata la riunione tra i capi di governo del Commonwealth delle nazioni, che si tiene ogni due anni. Il Commonwealth è l’associazione internazionale di cui fanno parte 56 paesi, quasi tutti dell’ex impero coloniale britannico, e la riunione è tra i capi di governo anche perché il capo di stato di 15 di questi paesi è formalmente re Carlo III, il sovrano del Regno Unito. Re Carlo ha 75 anni ed è coetaneo del Commonwealth, che fu fondato nella sua forma moderna nel 1949 (l’organizzazione che lo aveva preceduto, ai tempi dell’impero, si chiamava Commonwealth britannico).

Per ragioni storiche il Regno Unito è ancora molto influente nell’associazione, anche se oggi lo è meno che in passato.

Nel corso dei decenni, man mano che i paesi membri sono diventati indipendenti, il Commonwealth si è evoluto diventando un’organizzazione di cooperazione internazionale: non è più lo strumento con cui il Regno Unito cerca di tenere legate a sé le ex colonie. Il dibattito sul futuro, o sul declino, del Commonwealth si era intensificato nel 2022, alla morte della regina Elisabetta, che in 70 anni di regno fece più di 200 visite ai paesi del gruppo (un terzo di quelle totali).

Anche per via dell’impegno della regina, periodicamente i media si sono chiesti se l’associazione sarebbe sopravvissuta a lungo dopo la sua morte.

Questo dibattito è tornato attuale con la riunione alle isole Samoa. Da un lato perché i capi di stato di due dei paesi più importanti – il primo ministro indiano Narendra Modi e il presidente sudafricano Cyril Ramaphosa – l’hanno saltata per andare invece all’incontro dei paesi BRICS, ospitato dalla Russia di Vladimir Putin. Dall’altro perché i governi di numerosi stati membri stanno insistendo per citare nel documento conclusivo della riunione la responsabilità del Regno Unito per secoli di schiavismo, e la possibilità di risarcimenti.

Il primo ministro britannico Keir Starmer, e dietro di lui quello australiano Anthony Albanese, alla riunione dei capi di governo dei paesi del Commonwealth, il 24 ottobre

Il primo ministro britannico Keir Starmer, e dietro di lui quello australiano Anthony Albanese, alla riunione dei capi di governo dei paesi del Commonwealth, il 24 ottobre (Fiona Goodall/Getty Images)

Il primo ministro britannico, Keir Starmer, ha escluso di avallare questa possibilità. Starmer ha detto che la riunione dovrebbe concentrarsi sul «guardare avanti» e non sulle «discussioni senza fine sulle riparazioni per il passato». È stato cauto anche perché gli eventuali risarcimenti, a seconda delle stime, vengono calcolati tra i 200 miliardi e i 18mila miliardi di sterline (rispettivamente 240 miliardi e 22mila miliardi di euro) e perché l’opposizione di destra al suo governo lo ha molto attaccato per la recente cessione delle isole Chagos a Mauritius.

Il tema sta a cuore soprattutto ai 15 governi del Caricom, un gruppo di paesi dei Caraibi, che tra l’altro tra due anni dovrebbero ospitare la prossima riunione del Commonwealth (potrebbe essere dedicata ai risarcimenti, qualora in questa non fossero discussi). Tutti e tre i candidati alla carica di segretario generale del Commonwealth, che verrà eletto sabato, hanno già detto che non rinunceranno alla questione. Il segretario generale ha un ruolo operativo, invece il capo del Commonwealth è re Carlo. Prima di lui, lo sono stati re Giorgio VI (morto nel 1952) ed Elisabetta II: la carica, esclusivamente cerimoniale, non è ereditaria e viene assegnata dai capi di stato e di governo (nel caso di Carlo, fu stabilito nel 2018).

Negli anni un solo paese è uscito dal Commonwealth senza tornare ad aderirvi in seguito: l’Irlanda nel 1949. Nel 1992, quando diventò un repubblica, Mauritius decise di restare nel gruppo, e lo stesso fece Barbados nel 2021. Negli anni sono entrati anche paesi che non furono colonie britanniche: Gabon e Togo sono stati gli ultimi, nel 2022, mentre in precedenza lo avevano fatto anche Mozambico (1995) e Ruanda (2009).

Per i suoi membri, insomma, fare parte del Commonwealth è vantaggioso nonostante l’eredità storica problematica della monarchia britannica, che pure stanno provando ad affrontare.

Lo è soprattutto per ragioni di cooperazione economica e politica: il gruppo infatti promuove la riduzione dei dazi doganali tra i suoi membri e farne parte significa avere un canale di comunicazione diretto con il governo del Regno Unito, un paese che fa parte del G7, cioè il gruppo che ogni anno raduna i capi di stato e di governo delle 7 più influenti democrazie occidentali. Dal 2022, tra l’altro, il Regno Unito non è più la più grande economia del gruppo: è stato superato dall’India, che è diventata la quinta economia del mondo dietro a Stati Uniti, Cina, Germania e Giappone.

Questi motivi sono importanti soprattutto per i 33 microstati del Commonwealth (su 42 totali al mondo), cioè paesi con una popolazione inferiore al milione e mezzo. Complessivamente, nei paesi del Commonwealth vivono 2,7 miliardi di persone, circa un terzo della popolazione globale.

Ritratti di Carlo III e della regina Camilla esposti in una scuola a Apia, alle Samoa, il 20 ottobre

Ritratti di Carlo III e della regina Camilla esposti in una scuola a Apia, alle Samoa, il 20 ottobre (AP Photo/Rick Rycroft)

Fare parte del Commonwealth, inoltre, non comporta particolari obblighi. A parte sospendere o espellere i suoi membri, l’associazione non ha veri poteri per fare pressione sui paesi che, per esempio, hanno governi autoritari, prendono provvedimenti repressivi o violano i diritti umani (come alcuni dei 21 stati africani che ne fanno parte, in diversi dei quali l’omosessualità è un reato, tra le altre cose). Al tempo stesso storicamente i suoi osservatori sono stati – e sono tuttora – molto importanti per monitorare le irregolarità alle elezioni in questi stessi paesi.

Nel 2012 il gruppo adottò un documento che impegna i paesi a promuovere alcuni valori fondamentali, tra i quali la democrazia, l’uguaglianza, la pace e lo sviluppo sostenibile.

È probabile che gli stati nei quali si discute di indire referendum per passare a una forma di governo repubblicana, e dunque rimuovere re Carlo III come capo di stato, resteranno nel Commonwealth. Tra questi c’è l’Australia, dove re Carlo III è stato in visita negli scorsi giorni, venendo contestato da una senatrice indigena. L’attuale primo ministro australiano, Anthony Albanese, aveva promesso un nuovo referendum (dopo quello del 1999 perso dai repubblicani per circa 5 punti percentuali), ma l’ha rimandato spiegando che non è urgente. Il primo ministro neozelandese ha fatto la stessa cosa – invece il governo della Giamaica ha detto che farà un referendum entro il 2025.

La famiglia reale britannica, nel processo di decolonizzazione successivo alla Seconda guerra mondiale, non si è opposta pubblicamente all’indipendenza delle ex colonie, né all’uscita dalla monarchia di alcune di esse. Per esempio, quand’era principe, Carlo partecipò alla cerimonia con cui Barbados sostituì Elisabetta II con la prima presidente della sua storia. In una lettera resa nota dai media prima della sua visita in Australia, Carlo III ha ribadito la linea diplomatica ufficiale, e cioè che spetta al popolo australiano decidere la propria forma di governo.

Sono invece una storia a parte i Giochi del Commonwealth, la manifestazione sportiva che si tiene ogni quattro anni e include gli stati del gruppo (ma non solo loro). L’anno scorso lo stato australiano di Victoria, per i costi eccessivi, ha rinunciato a ospitare l’edizione del 2026, che si terrà a Glasgow, in Scozia. Ancora non si sa quale paese ospiterà i Giochi del 2030, dopo che la provincia canadese di Alberta ha ritirato la propria candidatura. 

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