L’austerità di Giorgia Meloni
Il governo è costretto a una legge di bilancio molto oculata, con tagli di spesa e misure impopolari che smentiscono anni di propaganda della destra
Il disegno di legge di Bilancio appena redatto dal governo esprime un approccio di politica economica estremamente prudente per i prossimi anni. È per molti aspetti una scelta obbligata: le condizioni negative del bilancio pubblico italiano e la necessità di rispettare le regole fiscali europee hanno imposto al ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti e alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni di scegliere con oculatezza come spendere i pochi soldi disponibili per il 2025. Ma per far tornare i conti il governo è stato costretto a rinunciare, e anzi in molti casi a contraddire nettamente, le promesse elettorali fatte dalla destra sovranista nel passato recente, e a predisporre delle misure esigenti che ricordano per certi versi i tempi del rigore di bilancio contro cui proprio Fratelli d’Italia e la Lega si erano a lungo battuti, guadagnando molti consensi.
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Non è una novità di quest’anno. Già nelle due precedenti manovre finanziarie fatte dal governo Meloni si era evidenziato un approccio molto cauto e responsabile, sul fronte della finanza pubblica, che non a caso era stato generalmente apprezzato dagli investitori internazionali. Quest’anno, per via anche dell’introduzione delle nuove norme del Patto di stabilità e crescita, questa tendenza si è consolidata ulteriormente.
La legge di bilancio di quest’anno conferma un notevole indebitamento e migliora solo in parte i saldi di finanza pubblica, e perciò non è del tutto corretto descriverla come una manovra finanziaria di austerity – o austerità in italiano, come si dice spesso in economia per indicare periodi in cui è necessario contenere molto le spese: è evidente però che molte delle misure contenute nel disegno di legge appena inviato alla Camera sono improntate proprio all’austerità. Non a caso anche i partiti di maggioranza, soprattutto Forza Italia e Lega, hanno annunciato che intendono proporre delle modifiche in senso meno restrittivo durante l’esame del provvedimento, che potrà essere leggermente modificato in parlamento nelle prossime settimane.
Le poche risorse disponibili sono state concentrate essenzialmente su una riforma dell’Irpef, cioè della tassa sulle persone fisiche, che avvantaggia i ceti medio-bassi. Sui 28,5 miliardi di euro complessivi di cui si avvale, la manovra ne destina quasi 18 all’accorpamento delle prime due aliquote dell’Irpef e al taglio del cuneo fiscale per chi guadagna meno di 35 mila euro all’anno (il cuneo fiscale è la differenza tra quanto pagato dal datore di lavoro e quello che il lavoratore percepisce come stipendio netto).
Queste misure erano già state inserite nella scorsa legge di bilancio, ma solo in via temporanea: ora vengono stabilizzate, e garantiranno fino a mille euro in meno di tasse per chi ha un reddito tra i 30 e i 35mila euro. Al contrario, per i redditi superiori, specie per quelli sopra i 75mila euro (e ancor più per quelli sopra i 100mila) vengono ridotte le agevolazioni fiscali (le cosiddette detrazioni). Si conferma dunque un atteggiamento che si era già visto negli scorsi anni: il governo di destra, pur mostrando uno scarso interesse verso le fasce della popolazione estremamente disagiate come i disoccupati e chi ha un reddito così basso da non dover pagare le tasse, mantiene come prioritario lo sforzo per dare un aiuto ai redditi medi e bassi, anche a costo di scontentare i ceti più ricchi e il settore imprenditoriale e industriale (per il quale in legge di bilancio c’è in effetti ben poco).
Il resto delle risorse viene destinato perlopiù a varie misure in sostegno delle famiglie e della natalità, al rinnovo dei contratti pubblici e alle spese ordinarie indifferibili, quelle cioè necessarie a garantire il funzionamento delle amministrazioni (come, per esempio, le missioni militari all’estero).
L’austerità di questa manovra però si rende evidente nel modo con cui il governo ha intenzione di reperire i 28,5 miliardi di euro necessari a finanziare la legge di bilancio. Nove miliardi sono in deficit, cioè aumenteranno il debito pubblico. È una scelta non scontata, visto che nel complesso il governo si impegna a ridurre il deficit di mezzo punto percentuale, portandolo dal 3,8 per cento del PIL del 2024 al 3,3 per cento del PIL nel 2025, con l’obiettivo ambizioso di arrivare già nel 2026 sotto la soglia del 3 per cento indicata dalle regole europee (solo mantenendo questo obiettivo l’Italia potrà uscire già nel 2026 dalla procedura per deficit eccessivo che la Commissione Europea ha aperto nei suoi confronti).
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Per reperire le risorse necessarie, Giorgetti e Meloni hanno disposto alcune significative riduzioni della spesa. Si spiega così la scelta di ridurre al 75 per cento il cosiddetto “turn over” nella pubblica amministrazione, impedendo cioè a tutti gli enti statali di assumere più di tre nuovi dipendenti per ogni quattro che vanno in pensione. Si tratta di un «sacrificio necessario», ha ammesso il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo al Messaggero di venerdì, e ricorda i momenti più complicati a livello economico del decennio scorso. In particolare il personale della scuola a partire dal 2025 subirà grosse riduzioni (che i ministri Zangrillo e Giuseppe Valditara dicono momentanee): 5.660 docenti e 2.174 tra bidelli, segretari e amministrativi (il cosiddetto “personale ATA”) in meno.
Forse però il settore su cui le scelte di bilancio si sentiranno di più è la sanità. Al Fondo sanitario nazionale vengono attribuiti 1,3 miliardi di euro in più, oltre agli 1,2 già precedentemente stanziati: grosso modo la metà dei 5 miliardi che il ministro Orazio Schillaci aveva promesso di voler ottenere. Si tratta di un aumento di risorse che servirà quasi integralmente a pagare l’aumento dei costi e il rinnovo dei contratti del personale: non permetterà quindi di fare né investimenti né interventi significativi per rafforzare il sistema sanitario. Nel complesso la spesa in sanità rispetto al PIL, che è l’indicatore internazionalmente preso come riferimento per valutare l’impegno effettivo di un paese nel settore, resta ferma al 6,2 per cento (o al 6,35 per cento, a seconda di quali spese vengono considerate), ben lontana dalle soglie di Francia e Germania, che spendono in sanità rispettivamente il 10,3 e il 10,9 per cento del PIL. Medici e infermieri non avranno aumenti di stipendio, salvo casi specifici a cui comunque andranno pochi euro in più al mese (a ciò vengono destinati, in tutto, 50 milioni per il 2025). Non a caso hanno già annunciato uno sciopero per il 20 novembre prossimo.
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Anche in questo caso per il governo è una scelta obbligata. Una volta individuato come prioritario l’intervento sulla riforma dell’Irpef, i soldi da destinare a ogni altra voce del bilancio sono pochi. Gli stessi membri del governo sono stati costretti a ridurre le spese dei propri ministeri, su imposizione del ministro dell’Economia: nel complesso, dovranno risparmiare 7,7 miliardi in 3 anni, e 2,6 miliardi nel solo 2025, con tagli consistenti all’Economia stessa (785 milioni in meno il prossimo anno), al ministero delle Imprese (366 milioni in meno, definanziando importanti programmi di sostegno alle imprese), ai Trasporti (293 milioni in meno), all’Università (246 milioni in meno). A esasperare la delusione del settore sanitario hanno però contribuito le promesse mancate fatte nei mesi scorsi dagli esponenti del governo, e le misure propagandistiche rivelatesi del tutto inconsistenti approvate in maniera trionfalistica dal Consiglio dei ministri a inizio giugno, pochi giorni prima delle elezioni europee.
L’altra categoria che ottiene molto meno di quanto le era stato promesso è quella dei pensionati. Il disegno di legge appena inviato alla Camera archivia ormai definitivamente i programmi irrealizzabili prospettati per anni dalla Lega (come quello di Quota 100 o Quota 41) che prevedono una spesa previdenziale del tutto insostenibile per il bilancio pubblico, e anzi recupera per vari aspetti alcune delle regole introdotte dalla cosiddetta legge Fornero del governo di Mario Monti, contro cui Matteo Salvini aveva condotto per anni una feroce campagna di demonizzazione (e che ancora oggi gli capita di criticare). Anche sulle pensioni minime il governo concede poco o nulla. L’assegno minimo mensile per i pensionati più poveri o per quelli che hanno maturato minori contributi sale di poco più di tre euro, da 614,7 a 617,9 euro. Per dare un’idea della distanza tra gli annunci e la realtà, un mese fa il vicepresidente del Consiglio Antonio Tajani aveva rilanciato una storica battaglia di Forza Italia dicendo che l’obiettivo era portare le pensioni minime a mille euro entro la fine della legislatura.
Analogamente, la Lega deve rinunciare in maniera clamorosa a un altro punto identitario del suo programma, e cioè l’abolizione del canone RAI. Al contrario, il canone torna ad aumentare: dopo la temporanea riduzione da 90 a 70 euro per il 2024, per il 2025 il contributo annuale alla tv di Stato salirà di nuovo a 90 euro. I deputati della Lega hanno già detto che presenteranno emendamenti per modificare questa norma. Il governo ha imposto limiti di spese alla RAI, con riduzioni specifiche sul costo del personale e dei consulenti. Significativamente il consiglio di amministrazione della RAI, che pure è espressione della stessa maggioranza politica del governo, ieri ha protestato con un comunicato ufficiale.
Del resto anche altre misure, dettate pure queste dall’esigenza di fare cassa, contraddicono le posizioni assunte dai partiti di destra negli ultimi tempi. Il governo, per esempio ha stabilito che i lavoratori autonomi potranno dedurre (cioè di fatto ottenere degli sgravi fiscali) solo le spese di rappresentanza (come i viaggi in taxi o le cene consumate in trasferta) fatte col POS: con l’obiettivo di ridurre l’evasione e aumentare il gettito di circa 430 milioni, il governo di Meloni incentiva i pagamenti elettronici che in passato aveva invece cercato di scoraggiare per assecondare le richieste dei commercianti, anche a costo di mettere a rischio l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR).
#Salvini: se qualcuno crede di salvare i bilanci dello Stato tassando le bibite zuccherate ha evidentemente dei problemi.
📺 #QuartaRepubblica @QRepubblica pic.twitter.com/y6aXrehClu— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) October 14, 2019
Lo stesso vale per la sugar tax, cioè una tassa sulle bevande analcoliche zuccherate contro cui la destra ha sempre espresso dure critiche. Introdotta nel dicembre del 2019 dal secondo governo di Giuseppe Conte, finora la sua applicazione è sempre stata rinviata con specifiche misure. Stavolta Giorgetti, che già lo scorso maggio aveva tentato la stessa soluzione innescando un mezzo parapiglia nel governo, non ha introdotto nessuna proroga, e dunque dal primo luglio del 2025 la tassa entrerebbe effettivamente in vigore, salvo nuovi interventi nel primo semestre del prossimo anno.