Il governo ha aumentato le tasse?

I ministri e la presidente del Consiglio dicono di no, l'opposizione dice di sì: trovare una risposta chiara è complicato

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il 21 ottobre del 2024 a Roma (Roberto Monaldo / LaPresse)
La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, il 21 ottobre del 2024 a Roma (Roberto Monaldo / LaPresse)
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Tra le discussioni intorno al disegno di legge di bilancio, cioè la legge annuale con cui si decidono alcune variazioni al bilancio dello Stato per l’anno successivo, ce n’è una che riguarda la pressione fiscale. La domanda è: il governo complessivamente aumenterà o ridurrà le tasse di cittadini e aziende? Le opposizioni lo accusano di aver previsto aumenti, mentre i membri del governo dicono di non averlo fatto, e anzi sostengono di riuscire a ridurle nonostante la situazione dei conti pubblici sia complicata.

In Italia la pressione fiscale è storicamente alta. Non è un bene o un male di per sé, dipende molto da come lo Stato impiega i soldi raccolti nell’erogazione dei suoi servizi. Il suo andamento è però indicativo di quali sono le priorità economiche dei governi in carica. Durante la campagna elettorale del 2022 i partiti attualmente al governo avevano detto più volte di voler ridurre il carico fiscale complessivo su persone e imprese, ma nel complesso le cose sembra stiano andando diversamente: dal 2023 la pressione fiscale risulta in aumento e, nonostante nei documenti ufficiali pubblicati di recente sia prevista costante per l’anno prossimo, nei fatti potrebbe ancora aumentare.

La discussione, che per la verità avviene praticamente ogni anno, è però a questo giro particolarmente difficile da verificare: il testo del disegno di legge di bilancio e le relazioni allegate non aiutano a chiarire bene la questione, e negli altri documenti ufficiali c’è una discrepanza che ha creato una certa confusione.

I valori da prendere in considerazione sono due: le entrate fiscali totali, cioè quanto lo Stato incassa complessivamente, e la pressione fiscale vera e propria, che si calcola prendendo in considerazione solo una parte di entrate, quelle su cui il governo può direttamente agire. Le entrate fiscali dunque mostrano quanto individui e imprese effettivamente pagano allo Stato ogni anno; la pressione fiscale misura a grandi linee in che direzione sta andando il governo sul fronte degli incassi, ed è dunque un indicatore dalla valenza più politica. In entrambi i casi si mettono in rapporto al PIL, cioè alla dimensione dell’economia.

La pressione fiscale si misura usando la somma di determinate imposte: quelle indirette (tra cui l’IVA sui consumi) e dirette (come l’IRPEF sui redditi), le imposte in conto capitale (come quelle sulla successione), i contributi sociali (come quelli che finanziano le pensioni e i congedi parentali). Dalla pressione fiscale sono escluse alcune voci residuali, come le cosiddette “altre entrate” e le “entrate in conto capitale non tributarie”: sommandole si ottiene il valore delle entrate totali.

Le entrate totali sono dunque sempre più alte della pressione fiscale, ma i due valori hanno sostanzialmente lo stesso andamento. Come si vede dal grafico, entrambi sono in aumento dal terzo trimestre del 2023.

I dati dell’ISTAT si fermano al secondo trimestre di quest’anno, ma per valutare le decisioni del governo bisogna guardare le sue previsioni dei saldi di finanza pubblica nel Documento Programmatico di Bilancio (DPB): è un riepilogo di cosa è contenuto nel disegno di legge di bilancio approvato la scorsa settimana dal Consiglio dei ministri, che serve alla Commissione Europea per valutare la coerenza della prossima legge di bilancio con il piano di risanamento dei conti concordato con la Commissione stessa.

Nel DPB il governo prevede che il prossimo anno le entrate fiscali aumenteranno di 0,4 punti percentuali, da 46,7 a 47,1; la pressione fiscale resterà invece costante, dopo che però era cresciuta dal 41,5 del 2023 al 42,3 di quest’anno. È strano che nelle previsioni per il 2025 una cresca e l’altra no, e negli ultimi anni non era mai successo che i valori andassero in due direzioni diverse: o erano entrambi aumentati, o erano entrambi diminuiti.

Non ci sono dettagli sul perché questo avvenga. Il DPB infatti indica solo quali sono i valori che vorrebbe raggiungere nelle diverse voci del bilancio dello Stato, e dà solo qualche indicazione di massima sugli interventi che il governo ha inserito nella legge di bilancio per farlo. Il testo del disegno di legge di bilancio e le relazioni allegate usano però classificazioni ancora diverse dei dati, dunque non chiariscono la questione. Probabilmente saranno di aiuto le audizioni degli istituti come Istat, Ufficio Parlamentare di Bilancio e Banca d’Italia, che inizieranno a partire dal 28 ottobre.

Per il momento risulta dunque difficile dire se davvero il governo ha aumentato o meno le tasse. Da una parte hanno ragione i suoi esponenti quando dicono che la pressione fiscale non aumenterà, mentre hanno torto quelli che dicono di averla ridotta. Nella maggior parte dei casi le loro dichiarazioni si basano sul fatto che il disegno di legge di bilancio prevede di rendere strutturali due importanti interventi, che hanno una forte valenza politica ma che alla fine riguardano solo delimitate categorie di contribuenti: la riduzione del cuneo fiscale – una misura che agisce sulle buste paga di più di 14 milioni di lavoratori dipendenti entro i 40mila euro di reddito – e dell’IRPEF, cioè l’imposta sui redditi delle persone fisiche che risulta confermata nella struttura a tre aliquote – le percentuali che si applicano sul reddito imponibile per calcolare quante imposte vanno pagate – con quella intermedia ridotta di due punti percentuali.

Allo stesso tempo hanno ragione anche coloro che sostengono che il governo abbia aumentato le tasse: il governo ha infatti detto di voler aumentare, tra le altre cose, certe accise, come alcune sugli alcolici e sui carburanti, e di voler aumentare le imposte sui profitti derivati dagli investimenti in criptovalute. Ha anche detto di voler agire sul sistema di deduzioni e detrazioni, quelle che in gergo si chiamano spese fiscali e che sono sostanzialmente agevolazioni fiscali: vuole rimodulare il sistema per i redditi più alti sulla base della dimensione del nucleo familiare, e ne toglierà alcune, il che farà inevitabilmente aumentare le imposte per certe categorie di cittadini. Aumenteranno, seppur momentaneamente e con una restituzione degli importi prevista dal 2026, anche le imposte per banche e assicurazioni.

I contribuenti che alla fine dell’anno devono fare la dichiarazione dei redditi o le imprese che devono fare i bilanci non fanno differenza tra pressione fiscale ed entrate totali: valutano cioè quanto pagheranno complessivamente, e quanto pagheranno complessivamente aumenterà, come dice l’andamento delle entrate fiscali complessive.

Questa discrepanza tra pressione fiscale ed entrate fiscali ha comunque generato curiosità tra gli economisti, che hanno cercato di capirne le cause. L’Osservatorio sui Conti Pubblici Italiani ha fatto notare che la differenza nell’andamento di entrate totali e pressione fiscale – di 0,4 punti percentuali di PIL, pari a circa 9 miliardi di euro – derivi interamente dall’aumento della voce “altre entrate” dal 3,7 al 4,1 per cento del PIL: è una voce residuale del bilancio, e la sua crescita non è peraltro neanche attribuibile a questa legge di bilancio, perché era già presente nei prospetti della cosiddetta “legislazione vigente”, cioè cosa succederebbe al bilancio dello Stato senza nuovi interventi. L’Osservatorio Conti Pubblici Italiani sostiene che dai documenti governativi è impossibile capire le cause di questo aumento, con una evidente e grave mancanza di trasparenza che da settimane denuncia gran parte degli osservatori.

Per l’Italia è stata aperta una procedura europea per deficit eccessivo, una sorta di procedura di infrazione che la obbliga a ridurre il deficit di almeno lo 0,5 per cento del PIL ogni anno. Il deficit è quel disavanzo tra le entrate e le uscite dello Stato che ogni anno contribuisce ad aumentare il debito pubblico. L’Osservatorio Conti Pubblici Italiani dice che per il 2025 il deficit migliora quasi interamente per via di quella voce “altre entrate” che ha uno 0,4 per cento in più: «è in un certo modo curioso che la riduzione del deficit prevista per il 2025 sia interamente legata a una voce che migliora per cause non chiarite», scrive l’Osservatorio.

L’economista Riccardo Trezzi ha poi richiamato la classificazione statistica di Eurostat, quella che il governo deve rispettare nel compilare il Documento Programmatico di Bilancio: prevede che dagli importi considerati per la pressione fiscale vada anche tolta la voce D.995, che secondo il glossario di Eurostat contiene entrate incerte e difficilmente incassabili, che vanno sottratte al computo totale per prudenza. È una voce che raramente ha un valore così elevato, dice Trezzi: anzi, solitamente avviene il contrario, che se ne sottostima il valore per dimostrare di contare su entrate più elevate a finanziare la spesa pubblica. Il sospetto di Trezzi è che siano state spostate su questa voce alcune somme in modo da tenere pari la pressione fiscale. Ma anche lui dice che bisognerà attendere dei chiarimenti.

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