L’investigatore privato più famoso d’Italia
Tom Ponzi fu un personaggio tanto pittoresco quanto discusso, e negli anni Settanta finì al centro di un grosso scandalo di intercettazioni illegali
Tommaso Ponzi non è il Ponzi a cui si deve il nome di una delle truffe più replicate di sempre, ma tra gli anni Cinquanta e Settanta il soprannome con cui era noto, “Tom”, veniva usato colloquialmente per indicare chiunque facesse il suo mestiere: l’investigatore privato. Come raccontò in un’intervista data a Enzo Biagi nel 1983, aveva iniziato «nel campo delle corna» e poi, «senza voler peccare di modestia», seguì numerosi casi di sabotaggio e controspionaggio industriale, scoprendo tra le altre cose giri di farmaci o Chanel N°5 contraffatti.
Erano gli anni del boom economico e Tom Ponzi era un personaggio pittoresco, spesso paragonato con toni romantici ai detective e alle spie che si cominciavano a vedere nel cinema e nella tv. Fu comunque assai controverso: fascista convinto, nei primi anni Settanta finì al centro di un grosso scandalo di intercettazioni illegali che di fatto mise fine alla sua carriera.
Nato il 25 settembre del 1921 a Pola, nell’attuale Croazia, Ponzi trascorse la giovinezza in Romagna. Nei primi anni Quaranta fu un funzionario della Repubblica Sociale Italiana, l’ultima incarnazione del regime fascista, e dopo la fine della Seconda guerra mondiale, non riuscendo a trovare lavoro, si mise a fare il poliziotto privato. D’altra parte da bambino era appassionato di gialli e quando marinava la scuola per andare al cinema capiva chi era l’assassino «in un quarto d’ora», raccontò sempre a Biagi.
Nel 1948 fondò la Mercurius Investigazioni, che poco dopo rinominò Tom Ponzi Investigazioni. Dagli appostamenti per verificare presunti tradimenti passò presto a indagini più intricate, facendosi notare dalle grosse aziende private e da personaggi molto noti, anche stranieri.
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Il suo primo incarico di rilievo fu per l’amministratore delegato della FIAT Vittorio Valletta, che gli affidò il compito di riscossione dei crediti; nel 1949 scoprì un giro di dadi Star contraffatti pedinando dei furgoni. Lavorò tra gli altri per la famiglia Agnelli e per l’Aga Khan III, la guida spirituale dei Nizariti (una setta sciita), che dubitava della fedeltà della sua quarta moglie, la modella francese Yvonne Blanche Labrousse, miss Francia nel 1930, nota come Begum Om Habibeh Aga Khan: dopo ventitré giorni di pedinamenti risultò che gli era fedele.
Ponzi finì su tutti i giornali perché il 10 ottobre del 1956 intervenne anche nel sequestro di un centinaio tra bambine e bambini e tre maestre a Terrazzano, nel comune di Rho, poco fuori Milano: due fratelli, Egidio e Arturo Santato, si erano introdotti nella scuola e li avevano presi in ostaggio chiedendo in cambio un riscatto. Dopo circa sei ore la polizia non era riuscita a risolvere la situazione: così per cercare di disarmare gli uomini Sante Zennaro, un operaio, entrò nella scuola con una scala a pioli, seguito da Ponzi, che raccontò di aver poi immobilizzato i sequestratori a pugni. Zennaro invece fu ucciso dalla polizia perché scambiato per uno dei due fratelli dietro a una porta socchiusa.
All’epoca non c’era nessuna regola che stabilisse i limiti del lavoro di investigatore privato. Nelle parole di Ponzi, per fare quel mestiere servivano «intuito, passione, pazienza e la massima, massima riservatezza», oltre a risorse e a una libertà di azione che, sempre a suo dire, gli agenti di polizia non avevano.
In media gli veniva presentata «ogni giorno una quarantina di nuovi casi, alcuni dei quali singolarissimi», scriveva nel 1965 Stampa Sera, l’edizione pomeridiana del noto quotidiano di Torino, chiusa nel 1992. La sua fama crebbe così tanto che nel 1967 la BBC raccontò il suo lavoro in un documentario; tre anni dopo invece interpretò un commissario nello sceneggiato televisivo I giovedì della signora Giulia, tratto da un libro di Piero Chiara. Nei periodi di maggiore attività aveva più di 200 collaboratori. Negli anni Settanta una squadra messa insieme dalla sua agenzia sorvegliava i box della scuderia Ferrari per evitare che ci fossero sabotaggi.
All’inizio del 1973 tuttavia Ponzi fu coinvolto in un grosso caso di intercettazioni non autorizzate ai danni dell’azienda Montedison, di almeno tre quotidiani (Il Messaggero, Avanti!, Paese Sera) e di vari esponenti politici di sinistra. In particolare fu accusato di aver organizzato assieme all’ex commissario della Criminalpol Walter Beneforti quello che i giornali definirono “l’affare dei telefoni-spia” o ancora “il Watergate italiano”, in riferimento allo scandalo che avrebbe portato alle dimissioni dell’allora presidente degli Stati Uniti Richard Nixon.
In un suo studio a Lugano, in Svizzera, furono sequestrate decine di scatoloni con bobine di registrazioni illegali. Venne arrestato mentre era ricoverato in una clinica di Arona, sul lago Maggiore, poi riuscì a rifugiarsi a Nizza con la famiglia: quando tornò in Italia, sei anni dopo, la condanna in primo grado a un anno e dieci mesi di carcere gli fu risparmiata da un’amnistia, ma la licenza investigativa gli venne tolta. Ancora oggi non è chiaro chi furono i mandanti delle intercettazioni: si parlò tra gli altri dei servizi segreti e, tempo dopo, della loggia massonica P2.
Negli anni successivi Ponzi sostenne di essere stato vittima di una persecuzione legata al suo mestiere. A proposito dello scandalo delle intercettazioni, in un’intervista data alla Stampa disse di essere stato «il capro espiatorio ideale» e di aver fatto lui stesso «la bonifica», cioè le attività per verificare la presenza di microspie, ai telefoni di Eugenio Cefis, il presidente di Montedison. Mostrò un certo risentimento anche per la vicenda di Terrazzano, per cui Zennaro aveva ottenuto la Medaglia d’oro al valor civile, mentre lui nessun riconoscimento: secondo il fratello Angelo forse per via delle sue simpatie fasciste, o forse perché aveva raccontato di come la polizia avesse cercato di incolpare i fratelli Santato per la morte dell’operaio.
Come scrisse qualche anno fa Il Corriere della Sera, Ponzi comunque non piacque mai alle questure e ai ministeri. Nell’intervista a Biagi rivendicò di aver subìto «dodici processi in dieci anni» e di essere sempre stato «assolto con formula piena». Nel 1984 disse al Corriere della Sera che non appena riavuta indietro la licenza avrebbe preparato «una trappola per il mostro di Firenze».
La licenza però non gli venne mai restituita. Ufficialmente era titolare di un’agenzia immobiliare, ma parlando sempre con Biagi disse che stava continuando a lavorare come consulente di servizi investigativi. “Il re dei detective privati”, come lo chiamò La Stampa in quell’occasione, morì il 9 maggio del 1997 a Busto Arsizio, in provincia di Varese, a causa di complicazioni legate al diabete, di cui soffriva da anni. Esistono ancora alcune agenzie investigative legate ai suoi eredi.
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