I risultati rivendicati dal governo Meloni che però ancora non lo sono
Un dossier diffuso per celebrare i due anni in carica dà per acquisiti obiettivi molto lontani, e ci sono anche dei conti che non tornano
Lunedì sera i responsabili della comunicazione della presidenza del Consiglio hanno pubblicato un dossier di 59 pagine per celebrare «risultati e traguardi» raggiunti dal governo di Giorgia Meloni, entrato formalmente in carica il 22 ottobre del 2022, nei suoi primi due anni. Come ogni documento propagandistico, anche questo tende a esaltare la prestazione del governo, dando grande risalto agli obiettivi conseguiti e tacendo o ridimensionando quelli mancati.
Il governo si attribuisce qua e là meriti per dinamiche economiche e sociali che hanno poco a che fare con l’azione del governo stesso (tipo la riduzione dell’inflazione), oppure sceglie di volta in volta quali dati utilizzare e quali ignorare: sul turismo per esempio si usano i dati lusinghieri del 2023, non quelli negativi del 2024; il saldo commerciale del 2023 è confrontato col solo dato del 2022, che era stato del tutto alterato dalla crisi energetica; sull’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza si parla delle misure realizzate, non della lentezza nello spendere le risorse ricevute dall’Unione Europea. L’obiettivo è che il bilancio finale risulti positivo. Non è comunque nulla di troppo clamoroso o diverso da ciò che fanno, con maggiore o minore disinvoltura, un po’ tutti i governi in queste occasioni.
Tra le varie forzature in questo senso, colpisce però in particolare una certa ricorrenza nel presentare come risultati raggiunti degli obiettivi molto parziali: riforme solo avviate, norme solo annunciate, misure per le quali sono state soltanto stanziate delle risorse o per le quali si è solo programmato di stanziarle, eccetera. È un espediente per presentare come compiuti dei progetti in realtà ancora in fase di realizzazione, o a uno stato appena embrionale.
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Da questo punto di vista, la slide più emblematica è forse quella del ministero dei Trasporti guidato da Matteo Salvini. Tra i risultati citati c’è infatti il ponte sullo Stretto, di cui si dice che il progetto è stato «riavviato». Analogamente, si rivendica che sono stati «programmati 44 miliardi per strade e autostrade»: una cifra al momento in buona parte virtuale. Qui il riferimento è infatti al Contratto di programma tra il ministero dei Trasporti e l’Anas (la società statale che gestisce buona parte di strade e autostrade italiane) per il periodo 2021-2025, approvato nel marzo scorso: ma la metà di quei 44 miliardi, al momento dell’approvazione, non era coperta da risorse, e dunque bisognerà attendere di capire se e come il governo riuscirà a finanziare i progetti messi in programma.
Il 22 ottobre di due anni fa si insediava il governo di centrodestra – scelto da milioni di italiani – che sta portando avanti con determinazione il programma elettorale della coalizione, raggiungendo storici traguardi come i 44 miliardi per strade e ferrovie, gli investimenti… pic.twitter.com/ttRtiqMxxg
— Matteo Salvini (@matteosalvinimi) October 22, 2024
Si fatica a considerare come davvero conseguiti anche i risultati connessi al Piano Mattei, l’ambizioso piano di cooperazione e di sostegno allo sviluppo dei paesi africani promosso dal governo di Meloni. Nel fascicolo distribuito dallo staff della presidente del Consiglio si parla di «oltre 30 progetti su base bilaterale e regionale», sostenuti da un finanziamento iniziale di 5,5 miliardi di euro in 4 anni. Al momento però la stragrande maggioranza di queste iniziative è in una fase poco più che iniziale.
Nella pagina dedicata alle «grandi riforme per l’Italia» le tre riforme indicate sono ben lontane dall’essere approvate definitivamente o dall’essere pronte per una effettiva attuazione. La riforma costituzionale del premierato, quella che introdurrebbe l’elezione diretta del presidente del Consiglio e ne rafforzerebbe i poteri, ha completato finora solo uno dei quattro passaggi parlamentari previsti dal complesso iter: il Senato la ha approvata nel giugno scorso in prima lettura, ora dovrà esprimersi la Camera, e poi entrambe le camere dovranno ribadire il loro voto favorevole. La sua approvazione in ogni caso non è affatto scontata. Lo stesso vale per la riforma della Giustizia, che è contenuta in un disegno di legge approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri nel maggio scorso e che deve ancora iniziare il suo percorso parlamentare. È normale che per riforme costituzionali così rilevanti ci siano tempi di approvazione lunghi, con dinamiche spesso complesse, e correttamente nel dossier del governo si parla semplicemente di un «iter avviato».
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Un po’ diverso è il discorso sulla terza «grande riforma» citata, quella sull’autonomia differenziata. In questo caso la riforma, che non modifica la Costituzione, è stata approvata in via definitiva dal parlamento: ma il lungo processo politico e amministrativo che dovrebbe portare all’effettivo trasferimento alle regioni di alcuni poteri finora gestiti dallo Stato centrale deve ancora essere avviato e il governo ha dimostrato di non volere procedere in tempi rapidi, anche perché su questo processo gravano grosse incognite economiche, con costi difficili da stimare e comunque alquanto proibitivi per il ministero dell’Economia.
Le slide curate dal ministero della Difesa, sotto il titolo «In prima linea nella difesa globale» vantano come «programmate» varie misure per l’ampliamento del personale militare, con 10mila unità in più per le forze armate. Anche in questo caso il rafforzamento è appunto «programmato», ancora in buona parte da completare, e peraltro non è stato disposto durante il governo di Meloni: la legge 119 del 2022 che lo prevede entrò infatti in vigore alla fine di agosto di quell’anno, dunque due mesi prima dell’entrata in carica del governo attuale, quando il presidente del Consiglio era Mario Draghi.
Non è del resto l’unico passaggio in cui il governo di Meloni rivendica dei risultati che sono perlopiù frutto di decisioni prese dal governo di Draghi. Vale anche per il capitolo sulla giustizia. La riduzione della durata media dei processi civile e penale, che nelle slide appena pubblicate figurano tra i traguardi raggiunti in questi due anni, è sostanzialmente la conseguenza delle riforme avviate dall’ex ministra della Giustizia Marta Cartabia per rispettare gli obiettivi fissati nel PNRR, che prevedono una riduzione complessiva della durata dei processi civili del 40 per cento e di quelli penali del 25 per cento.
Il dato forse più bizzarro contenuto nel dossier riguarda invece le nuove assunzioni. Il ministero dell’Interno rivendica infatti 29mila assunzioni in più tra le Forze di Polizia, accompagnate da 2.945 nuove assunzioni tra i Vigili del Fuoco. È un numero sorprendentemente elevato, se si pensa che il ritmo delle assunzioni approvate dal governo negli ultimi due anni è assai più basso. Nell’aprile del 2023 un decreto-legge consentì l’assunzione di 2.100 nuovi agenti; nel giugno scorso, un decreto del presidente del Consiglio ha consentito invece di programmare assunzioni fino a un massimo di mille unità.
Contattato per un chiarimento, il ministero dell’Interno non ha saputo fornire spiegazioni puntuali su quel dato. Informalmente, è stato spiegato che potrebbe trattarsi di un calcolo che tiene conto anche di assunzioni predisposte in altri settori della pubblica sicurezza, come la difesa; con ogni probabilità però non si tratterebbe di un aumento effettivo di personale, perché quei 29mila nuovi assunti andrebbero in parte a rimpiazzare agenti e funzionari che nel frattempo vanno in pensione. È stato anche detto che sicuramente si tratta di un programma di assunzioni pluriennale, dunque non del tutto completato. Su questo dato delle assunzioni non c’è tuttavia una spiegazione esaustiva e definitiva. Il segretario generale del sindacato di polizia SILP-CGIL, Pietro Colapietro, dice che si tratta di «un numero astronomico, senza alcun possibile riscontro effettivo con la realtà».