Giorgia Meloni pensa da tempo che si debba aggirare il diritto europeo

La questione dei centri per i migranti in Albania sta facendo riemergere una volontà diffusa nella destra sovranista: ma ci sono di mezzo la Costituzione e il presidente della Repubblica

L'Alto rappresentante per gli Affari esteri dell'Unione Europea, Josep Borrell, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dietro di loro Giorgia Meloni (AP Photo/Omar Havana)
L'Alto rappresentante per gli Affari esteri dell'Unione Europea, Josep Borrell, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e dietro di loro Giorgia Meloni (AP Photo/Omar Havana)
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La polemica intorno alla gestione dei centri per migranti in Albania sta facendo emergere di nuovo una volontà mai del tutto accantonata da parte di Fratelli d’Italia, e cioè quella di affermare il primato del diritto italiano su quello dell’Unione Europea. È una vecchia battaglia propagandistica portata avanti da Giorgia Meloni e da altri dirigenti del suo partito: stabilire cioè che le leggi italiane valgano di più di quelle europee, e che dunque il governo o il parlamento italiani possano contraddire o aggirare le norme dell’Unione.

Proprio il caso dei dodici migranti provenienti da Egitto e Bangladesh, trattenuti momentaneamente nei centri albanesi e poi riportati in Italia in seguito a una decisione del tribunale di Roma, ha riproposto la questione al centro del dibattito politico. Non convalidando il decreto di trattenimento dei 12 migranti, infatti, la Sezione per i diritti della persona e per l’immigrazione del tribunale di Roma si è adeguata a una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea, il principale tribunale dell’Unione.

La sentenza in questione è quella con cui il 4 ottobre scorso la Corte aveva stabilito che possano essere considerati «paesi d’origine sicuri» solo quelli in cui il rispetto dei diritti umani e della sicurezza di tutti gli individui sia riconosciuta «in maniera generale e uniforme» su tutto il territorio nazionale. In base a questa decisione quindi un paese non può essere considerato sicuro se anche solo in una sua parte o regione circoscritta vengono meno quei requisiti minimi, o anche solo nei confronti di una specifica categoria di persone.

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La questione è dirimente per quel che riguarda i centri in Albania. Secondo il protocollo tra Italia e Albania che disciplina il funzionamento di quelle strutture, le autorità italiane possono trasferire lì dei migranti seguendo una procedura accelerata, la cosiddetta procedura di frontiera o di rimpatrio, che prevede un esame semplificato e piuttosto rapido delle domande di asilo dei migranti che sbarcano in Italia. Ma questa procedura può essere applicata solo alle persone che arrivano, appunto, da «paesi sicuri», secondo un assunto generale per cui chi emigra da un territorio in cui non vengono negati i diritti fondamentali, in cui non ci sono guerre, rivolte o persecuzioni etniche e razziali, non ha motivo di vedersi riconosciuto il diritto d’asilo.

La motovedetta della Guardia Costiera che ha riportato in Italia i 12 migranti trattenuti momentaneamente in Albania arriva al porto di Bari, il 19 ottobre 2024 (Nino Ratiani/LaPresse)

Anche per questa ragione nel maggio scorso il Consiglio dei ministri aveva approvato un decreto-legge che ampliava l’elenco dei paesi sicuri che era contenuto in quel testo. I paesi considerati «sicuri» dal governo di Meloni erano così passati da 16 a 22, e tra i sei aggiunti a maggio c’erano appunto il Bangladesh e l’Egitto: due dei paesi da cui negli ultimi anni è stato maggiore l’afflusso di migranti verso l’Italia. Proprio la sentenza della Corte di Giustizia Europea, partendo da un caso specifico di un cittadino moldavo emigrato in Repubblica Ceca, di fatto contraddiceva questa decisione del governo italiano: il tribunale di Roma, pertanto, non ha potuto che prenderne atto, considerando l’Egitto e il Bangladesh come paesi che non rispettavano a pieno i requisiti europei di «paese sicuro», e dunque negando la convalida del trattenimento dei dodici migranti egiziani e bangladesi in Albania.

Vari esponenti del governo hanno contestato questa scelta. Meloni l’ha definita una «decisione pregiudiziale», e ha accusato i giudici che l’hanno presa di fare opposizione al governo contro gli interessi del paese. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha parlato di una «sentenza abnorme». Su iniziativa della stessa presidente del Consiglio, il governo ha subito annunciato la volontà di approvare un nuovo decreto-legge sul tema in tempi rapidi: dovrebbe essere approvato già nel Consiglio dei ministri in programma lunedì. L’obiettivo è ribadire la possibilità di trattenere nei centri albanesi tutti i migranti provenienti dai paesi inseriti nell’elenco dei «paesi sicuri», da sottoporre dunque alla procedura accelerata di frontiera.

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L’idea del governo è anzitutto quella di elevare il rango della norma, cioè in sostanza di renderla più importante. Non tutte le leggi, infatti, hanno lo stesso valore: c’è una sorta di gerarchia delle fonti per cui alcuni atti hanno preminenza su altri (la legge più importante è la Costituzione, poi vengono tutte le altre). L’elenco dei paesi sicuri aggiornato lo scorso maggio dal Consiglio dei ministri è contenuto in un decreto interministeriale. Trasferire questo elenco in un decreto-legge, dunque, renderebbe la disposizione un po’ più consistente. Non è chiaro però come il governo intenda rendere un decreto-legge prioritario rispetto a una norma europea: al momento è difficile fare qualsiasi ipotesi, visto che non è disponibile il testo del decreto. In ogni caso, non è detto che questa soluzione basti ad aggirare la sentenza della Corte di Giustizia Europea o a escluderne l’applicazione nel caso dei centri per migranti in Albania.

Al di là delle specifiche soluzioni che il governo deciderà di adottare, questa ipotesi di fare una nuova legge per aggirare una sentenza della Corte di Giustizia Europea è espressione di una tendenza radicata nella destra sovranista, e in particolare in Fratelli d’Italia: quella appunto di affermare la supremazia del diritto nazionale su quello dell’Unione Europea. È una proposta più clamorosa di quanto possa sembrare: l’intero funzionamento dell’Unione Europea ha infatti come presupposto il primato delle norme europee su quelle nazionali, proprio per garantire una sostanziale uniformità e un coordinamento effettivo sulle principali materie.

La stessa Costituzione italiana, del resto, contempla questo principio. L’articolo 11 stabilisce che l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»: dice quindi che il diritto nazionale può essere subordinato a quello di organismi sovranazionali a condizione che anche gli altri Stati che fanno parte di questi stessi organismi cedano allo stesso modo un pezzo della loro sovranità, che è appunto il principio che sta a fondamento dell’Unione Europea. Inoltre, l’articolo 117, modificato nel 2001, prevede che la «potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali»: per cui, in poche parole, le istituzioni nazionali non possono fare leggi che contraddicano norme e indicazioni dell’Unione Europea, siano esse derivanti da atti normativi o da sentenze, come appunto nel caso dei migranti di cui si discute in questi giorni.

Meloni ha contestato per anni questi articoli della Costituzione. Nel 2018, da semplice deputata di Fratelli d’Italia, depositò una proposta di riforma della Costituzione che mirava appunto a modificarli e, per certi versi, a ribaltarne il senso. Il testo della riforma prevedeva infatti che le norme europee fossero applicabili «solo in quanto compatibili con i principi di sovranità, democrazia e sussidiarietà, nonché con gli altri principi della Costituzione italiana»: cosa che avrebbe comportato che in caso di conflitto tra norme europee e norme italiane le seconde avrebbero avuto la priorità sulle prime.

Questa proposta ha alimentato a lungo la propaganda sovranista di Fratelli d’Italia tra il 2018 e il 2022, ma è riemersa anche dopo le elezioni politiche con cui Meloni è arrivata al governo e nonostante la conseguente attenuazione dei toni più antieuropeisti del suo partito. Francesco Lollobrigida, pochi giorni prima di diventare ministro dell’Agricoltura, ribadì l’intenzione di rivedere l’assunto del primato del diritto europeo, favorendo un dibattito per una riforma della Costituzione. La tesi non era affatto apprezzata dal presidente della Repubblica. Sergio Mattarella, in maniera informale o attraverso dei riferimenti indiretti, ha in più occasioni sostenuto la bontà di questo principio, e anche per questo Meloni e i suoi ministri hanno evitato di insistere sull’argomento con toni espliciti. Da tempo la presidente del Consiglio si limita a parlare della necessità di promuovere un principio di sussidiarietà dell’Unione Europea in contrapposizione a un approccio federale: è un modo molto attenuato e un po’ vago di ribadire lo stesso concetto, e cioè che su molte materie l’Unione Europea dovrebbe secondo Meloni lasciare che i singoli Stati membri possano legiferare come meglio credono.

La polemica sui migranti e sulla sentenza della Corte di Giustizia Europea ripropone a Meloni lo stesso problema. È un questione delicata, e non a caso i confronti tra i consiglieri giuridici di Palazzo Chigi in vista del Consiglio dei ministri sono piuttosto tesi, e devono tenere conto anche dei noti orientamenti del presidente della Repubblica sul tema, e del rischio che eventuali forzature normative possano essere considerate in conflitto con la Costituzione da parte del capo dello Stato.