Una sentenza importante per un grave caso di danno ambientale
La Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha dato ragione ai giudici italiani su una lunga e complessa vicenda che riguarda Brescia, Torviscosa e Colleferro
Brescia, Torviscosa (Udine) e Colleferro (Roma) sono parecchio distanti l’una dall’altra ma sono legate da un grave e intricato caso di inquinamento ambientale. La società al centro di questo caso è la SNIA. Per decenni gli stabilimenti della sua azienda controllata – la Caffaro, che ha fatto la storia industriale italiana nel settore dei prodotti chimici – sono stati attivi nei tre comuni: con le loro attività hanno contaminato terreni e acque con sostanze come i cancerogeni PCB (policlorobifenili), il cromo esavalente, il mercurio, le diossine e i metalli pesanti.
I tre stabilimenti, insieme a vaste aree circostanti anche in comuni diversi, fanno parte di tre siti di “interesse nazionale” (SIN), identificati così dallo Stato in base alle caratteristiche delle aree inquinate, alla pericolosità degli inquinanti e a quanto è rilevante il loro impatto sull’ambiente in termini di rischio sanitario ed ecologico. La competenza dei SIN è del ministero dell’Ambiente e finora i soldi per gli interventi conclusi o in corso per bonificare i SIN Brescia-Caffaro, Caffaro di Torviscosa e “bacino del fiume Sacco”, in cui rientra Colleferro, sono stati versati dallo Stato, o comunque da enti pubblici.
Adesso però una recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, emessa il 29 luglio ma resa nota pochi giorni fa, potrebbe cambiare le cose. Riguarda una controversia in cui ci sono da una parte i ministeri dell’Ambiente, dell’Economia e la presidenza del Consiglio dei ministri, e dall’altra una multinazionale, LivaNova. La sentenza è importante per diverse ragioni. Innanzitutto perché ribadisce il principio europeo secondo cui chi è responsabile dell’inquinamento deve pagare, indipendentemente da quanto tempo è passato dalle attività che hanno provocato il danno ambientale. E poi perché fissa un’interpretazione giuridica che dovrà essere seguita in procedimenti su casi analoghi in futuro.
La storia di questi gravi casi di inquinamento ambientale è intricata, anche perché riguarda complicati passaggi societari in uno schema che si potrebbe definire a “scatole cinesi”. La protagonista originaria è SNIA, una società fondata a Torino nel 1917 poi cresciuta fino a diventare un grande gruppo industriale che si occupava di chimica, fibre tessili e biomedicale. Un altro nome da tenere a mente è Caffaro, un’azienda fondata a Brescia nel 1906 con il nome di Società Elettrica ed Elettrochimica del Caffaro, inglobata successivamente da SNIA. Poi c’è Sorin, una società nata da una scissione operata da SNIA nel 2004, che divise il comparto delle tecnologie medicali (Sorin) e le attività chimiche (Caffaro, sempre nel gruppo SNIA). Infine, nel 2015 Sorin si fuse con l’americana Cyberonics, fondando la multinazionale LivaNova.
Nel 2021 la Corte d’appello di Milano condannò la multinazionale LivaNova a pagare 453 milioni di euro allo Stato per i danni ambientali causati negli stabilimenti Caffaro di Brescia, Torviscosa e Colleferro. Per capire perché bisogna però tornare ancora più indietro.
Quando SNIA scorporò Sorin trasferendo nella nuova società gran parte del suo patrimonio, cioè tutte le partecipazioni che deteneva nel biomedicale, le rimasero le attività legate alla produzione chimica, che però già da qualche tempo stavano andando male. Quando fallì nel 2009, la Caffaro-SNIA non aveva più fondi per ripagare i danni ambientali provocati a Brescia, Colleferro e Torviscosa e dal 2010 entrò in amministrazione straordinaria.
I ministeri dell’Ambiente, dell’Economia e la presidenza del Consiglio dei ministri chiesero comunque a SNIA 3,43 miliardi di euro di risarcimento per i danni nei tre siti, e contestualmente anche la condanna di Sorin per tutti i debiti rimasti alla SNIA dovuti agli oneri delle bonifiche e per i danni ambientali. Nel 2015 Sorin divenne LivaNova e nel 2016 le amministrazioni pubbliche persero la causa al tribunale di Milano. Fecero però ricorso e nel 2019 la Corte d’appello di Milano ribaltò la sentenza di primo grado, riconoscendo un nesso di causalità tra le attività di SNIA e delle sue controllate e l’inquinamento dei terreni dei tre SIN. I danni ambientali constatati in secondo grado erano cronologicamente anteriori al 13 maggio 2003, data dello scorporo da cui nacque Sorin. Pertanto, i giudici riconobbero che c’era una responsabilità «solidale» di Sorin, e dunque di LivaNova «entro i limiti dell’attivo trasferito».
Significa che secondo la Corte d’appello di Milano LivaNova era tenuta a risarcire lo Stato del danno ambientale provocato da Sorin-SNIA prima della scissione, dal momento che LivaNova aveva beneficiato del patrimonio attivo di Sorin senza farsi carico di quello passivo, cioè i costi del danno e delle bonifiche scaricati su SNIA.
I giudici italiani ordinarono di proseguire il procedimento per determinare l’esatta portata dell’inquinamento nei tre siti, le misure di riparazione ambientale necessarie e il costo degli interventi. La sentenza di appello fu completata così nel 2021. LivaNova fu condannata a rimborsare i costi della bonifica e i danni ambientali causati dalle attività controllate della SNIA nei tre SIN di Brescia, Torviscosa e Colleferro. La cifra calcolata sulla base delle considerazioni dei consulenti tecnici d’ufficio, che si avvalsero dei report di ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale), ARPA (Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente) di Lombardia, Friuli Venezia Giulia e Lazio, nonché del progetto di bonifica per il sito industriale di Brescia, fu di oltre 450 milioni di euro (453.587.327,48), che andavano ripartiti rispettivamente in circa 250 milioni di euro per Brescia, 117 milioni di euro per Torviscosa e 86 milioni di euro per Colleferro.
Prima di arrivare alla sentenza della Corte di Giustizia europea manca ancora un passaggio: dopo la condanna del 2021, LivaNova fece ricorso in Cassazione, l’ultimo grado di giudizio. Ciò che contestava LivaNova era una questione molto tecnica, l’interpretazione data dalla Corte d’appello di Milano a un articolo del codice civile, il 2506 bis. Per farla breve, LivaNova sosteneva che non si potessero includere nel patrimonio passivo di Sorin i costi di bonifica e danno ambientale, che al momento della scissione non erano ancora stati definiti.
Per risolvere la controversia la Cassazione decise quindi di sospendere il procedimento e sottoporre alla Corte di Giustizia europea una “questione pregiudiziale”: è una procedura che serve a stabilire se un’interpretazione data da un giudice nazionale è conforme al diritto dell’Unione Europea, e dunque può essere applicata.
E così si arriva al 29 luglio 2024, quando la Corte europea ha confermato l’interpretazione data dai giudici italiani nella sentenza del 2021: se una società ha tenuto un comportamento illecito (in questo caso, l’inquinamento del suolo) prima di una scissione, ne devono comunque rispondere sia la società scorporata sia la società beneficiaria, cioè LivaNova, su cui devono ricadere anche i costi di bonifica e per danni ambientali dei tre SIN.
A questo punto deve pronunciarsi la Corte di Cassazione, che dovrebbe attenersi per coerenza all’interpretazione giuridica espressa nella sentenza della Corte di Giustizia europea.
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In Italia non è inusuale che lo Stato debba farsi carico delle bonifiche di siti industriali privati, come testimonia il lungo elenco dei cosiddetti “siti orfani”, cioè quelli potenzialmente contaminati in cui però il responsabile dell’inquinamento non è stato individuato o non è in grado di provvedere al suo risanamento. Non a caso per la bonifica dei siti orfani sono stati previsti 500 milioni di euro del PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato con fondi europei. Nel caso di Sorin-SNIA tuttavia un responsabile è stato individuato, anche se è passato molto tempo.
Il caso di SNIA-Caffaro fa un po’ a sé, e parte da molto prima della sentenza europea di luglio. I primi procedimenti penali vennero aperti quando alcune delle produzioni chimiche più pericolose si erano già fermate. Nel caso del sito industriale di Brescia, per esempio, la vecchia Caffaro chimica smise di produrre i policlorobifenili (PCB), composti organici molto diffusi un tempo per produrre lubrificanti e isolanti termici, nel 1984, quando furono vietati per legge. La Caffaro li aveva prodotti però per quasi cinquant’anni in un sito industriale che fu costruito nel 1906 a meno di un chilometro dal centro città.
Per decenni la Caffaro chimica scaricò sostanze contaminanti e pericolose per la salute nei canali artificiali, detti rogge. Erano le stesse acque usate dai contadini per irrigare i campi a sud della fabbrica: in questo modo i PCB entrarono nella catena alimentare dei residenti, che per anni mangiarono prodotti coltivati in quei campi. Nel 2015 i PCB sono stati inseriti nell’elenco delle sostanze considerate cancerogene dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro.
Il primo procedimento penale contro la vecchia Caffaro venne aperto all’inizio degli anni Duemila e venne archiviato nel 2010 senza mai arrivare alla fase di dibattimento, quindi al processo. C’entrano varie ragioni, tra le quali il fatto che per alcuni reati era passato troppo tempo, per altri mancava la legislazione (il reato di disastro ambientale, per esempio, fu introdotto nel codice penale nel 2015) e non fu possibile stabilire un nesso causale diretto tra l’inquinamento prodotto dalla Caffaro e l’incidenza di morti per alcuni tipi tumore nella zona. Se dunque il procedimento penale all’epoca non portò a niente, oggi la sentenza europea dice che almeno un risarcimento nei confronti dello Stato deve esserci, perché la Corte d’appello di Milano ha individuato correttamente la responsabilità del danno nonostante le “scatole cinesi” dei passaggi societari. Questo risultato è stato possibile anche perché, rispetto all’inizio degli anni Duemila, nella giurisprudenza c’è oggi un orientamento più solido nei confronti dei casi di danno ambientale, frutto di una maggiore consapevolezza nella società.
Per gli attivisti e i comitati locali la sentenza europea è una conferma importante di lotte iniziate più di vent’anni fa. Marino Ruzzenenti è uno storico bresciano ed ex sindacalista, che al caso Caffaro ha dedicato buona parte della sua vita. È lui l’autore del libro uscito nel 2001 che fece emergere il problema dell’inquinamento della Caffaro a Brescia. Ruzzenenti, come portavoce del “Comitato popolare contro l’inquinamento della Caffaro”, fu tra i primi a denunciare il rischio che la Caffaro chimica restasse senza soldi per la bonifica quando si venne a sapere dell’operazione di scissione di SNIA. Anche a Torviscosa se ne accorsero e segnalarono pubblicamente il rischio.
«La Caffaro chimica era in perdita da alcuni anni, mentre il settore biomedicale andava molto bene. Scrivemmo quindi subito al sindaco di Brescia, che allora era Paolo Corsini, per sollecitare il comune a intervenire», dice Ruzzenenti. «Palesemente l’operazione avrebbe lasciato un buco alla città. Il comune di Brescia però non fece nulla». Fu il comitato a inviare alla CONSOB (Commissione nazionale per le società e la borsa) una serie di documenti che attestavano quanto già si sapeva sull’inquinamento della Caffaro. «Era fondamentale che si conoscesse la situazione dal momento che Sorin avrebbe dovuto essere quotata nuovamente in Borsa, dopo la scissione, e dunque essere valutata daccapo», spiega Ruzzenenti.
Se la Cassazione dovesse confermare la condanna di LivaNova, per Ruzzenenti le priorità su cui investire i 250 milioni di euro a Brescia sono tre: il perimetro del SIN, i terreni agricoli e i giardini privati. Del SIN Brescia-Caffaro fanno infatti parte anche cento ettari di aree agricole, per cui non è mai stato fatto un piano di bonifica. Il progetto di bonifica attuale riguarda solo il sito industriale: i primi interventi dovrebbero partire a gennaio 2025. In più, ci sono i terreni inquinati fuori dal SIN: nel 2014 l’ARPA di Brescia pubblicò i risultati di un’indagine che rivelarono la presenza di metalli pesanti e PCB riconducibili alla Caffaro, con valori superiori ai limiti di legge, in terreni fino a 20 chilometri di distanza dallo stabilimento. Le sostanze contaminanti erano state portate a sud dei canali artificiali usati per irrigare i campi, che la Caffaro aveva usato abitualmente in passato come acque di scarico per la sua produzione. Si parla di 359 ettari di terreni non inclusi nel SIN, ai quali tecnicamente non spetterebbero i soldi di LivaNova se fosse confermata la condanna in Cassazione.
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Martedì, commentando la sentenza, la sindaca di Brescia Laura Castelletti ha detto di sperare che parte dei 250 milioni di euro sia investita proprio nella bonifica dei terreni privati. Per Castelletti queste risorse «non devono restare al ministero, ma vanno reinvestite sul territorio, attraverso il Commissario Caffaro, per dare le risposte che i residenti delle zone inquinate aspettano da troppo tempo». È infatti molto probabile che il ministero dell’Ambiente trattenga parte dei soldi di LivaNova, nel caso di sentenza definitiva, perché ha già anticipato diversi milioni di euro per tutti e tre i SIN.