Zia Giuditta e i martiri di Gorla
«Nel 1944 Gorla è quello che oggi chiameremmo un quartiere residenziale, tranquillo. È un luogo di pace in mezzo a tanti punti di interesse bellico: la Breda, la Magneti Marelli, la Falck. La mattina del 20 ottobre gli Alleati si concentrano su quelle zone industriali, ma centrano in pieno due scuole: a Precotto non ci sono vittime, ma a Gorla la bomba si infila nella tromba delle scale e fa franare l'edificio. Le vittime sono duecento, di cui 184 bambini: “i Piccoli Martiri di Gorla”. Tutte le volte che la zia Giuditta ne parla cita il cielo di quella giornata particolarmente bella – “bella come il 20 ottobre”, dice e poi si rabbuia in viso. Ed è quello che colpisce di più delle testimonianze: tutte cominciano parlando del cielo, come se l’azzurro potesse sovrapporsi al nero della morte, anche nei ricordi»
Zia Giuditta non è di quelle zie che vedi solo a Natale.
Ci tiene a essere presente in tutti i momenti importanti della vita e non dimentica mai né compleanni né anniversari. Abbiamo confidenza, prossimità e abbiamo trascorso vacanze e feste insieme da sempre. Ha 86 anni, gli occhi chiari, i capelli bianchi ed è una delle cinque sopravvissute, viventi, della strage di Gorla di Milano del 20 ottobre del 1944.
Tutte le volte che la zia Giuditta ne parla cita il cielo di quella giornata particolarmente bella – «bella come il 20 ottobre», dice – e poi si rabbuia in viso. Ed è quello che colpisce di più delle testimonianze di questi 80 anni che ho letto o raccolto: tutte cominciano parlando del cielo, come se l’azzurro potesse sovrapporsi al nero della morte, anche nei ricordi.
«Non andavo a scuola da tanto tempo perché ero sfollata in Brianza, ma siccome tutti dicevano che la guerra ormai era finita il papà si decise a portarci a casa, a Milano, e ricominciare. Il lunedì mi hanno fatto le visite per vedere se avevo malattie infettive, e non le avevo. Quindi il martedì ho ricominciato a frequentare, tutta felice, non si sta bene senza la scuola da bambini, ed era così bello per me andarci. Purtroppo frequentai solo il martedì, il mercoledì e il giovedì, perché il venerdì è venuto giù tutto».
Quindi era venerdì.
La zia Giudi non è tra i sopravvissuti tirati fuori dalle macerie, né tra quelli che bigiarono, come si dice a Milano quando non si va a scuola di nascosto, e neppure tra quelli che quel giorno erano assenti perché malati o «per motivi familiari». La sua storia si snoda nelle nostre strade, sotto le finestre della casa dove abito ancora. Suo padre, il bisnonno Giovanni, non si fidava delle cantine, ha paura che crollino. È considerato un eccentrico, un originale, ex ciclista gregario di Girardengo, convinto socialista, diventato proprietario di un bel bar in viale Monza, “la Bottiglieria da Trentarossi Giovanni”, che oggi è diventato un parrucchiere dell’Est Europa specializzato nel trattamento alla cheratina. Pochi danno ascolto al bisnonno quando esprime i suoi timori riguardo ai rifugi, è un tipo troppo estroso, ma lui ha un vero terrore che qualcuno della sua famiglia faccia «la fine del topo», come diceva sempre. Per questo scrisse sul diario della bambina un messaggio per le maestre: all’allarme grande, quello del bombardamento imminente, le maestre avrebbero dovuto cacciare sua figlia fuori in strada, non portarla giù nel rifugio con loro e con gli altri bambini. Sarebbe venuto a prenderla lui a scuola, e se fosse rimasta fuori, se la sarebbe cavata in strada da sola, l’importante era che non scendesse giù coi maestri assolutamente. Che azzardo, penso oggi che ho dei figli e insegno in una scuola media.
Quando alle 11:14 del 20 ottobre l’allarme suona, le attività didattiche si interrompono e ci si avvia ai rifugi, i bambini in fila. A sei, sette anni camminano piano piano, hanno le mani piccole sui corrimano. La segretaria sbraita alla maestra di tornare su, al secondo piano, sembra un falso allarme, dice che non è nulla. Immagino che sia un po’ come oggi, una gran confusione nei corridoi e nessuno che sa cosa fare. La maestra della zia Giudi torna su con tutti i bambini e si affaccia alla finestra, ma un vigile in strada la vede: si sbraccia, le grida di correre subito in cantina con i bambini, che c’è il macello in arrivo. Adesso si scende davvero, di corsa, verso il rifugio. Sono le 11:24. Soltanto Giuditta, Graziella e Luisa, con le loro giustificazioni sul diario, vengono lasciate uscire al piano terra, e si avviano verso casa. Giuditta e Graziella prendono via Fratelli Pozzi, una via tortuosa e cupa che ha ancora gli edifici del tempo e un’umidità antica nell’aria, e mi riporta sempre a questo racconto quando la attraverso. Alle 11:27 viene giù tutto, tutto intorno a loro.
Nel 1944 Gorla è quello che oggi chiameremmo un quartiere residenziale, tranquillo. Non se lo fila nessuno, fino al 1923 non faceva neanche parte del comune di Milano. È un agglomerato di case e attività affacciato sul naviglio Martesana lungo la direttrice del viale Monza. Si fa il bagno nel Naviglio, si raccolgono erbe selvatiche, ci sono famiglie e piccole attività commerciali. È un luogo di pace, ma è in mezzo a tanti punti di interesse bellico: fabbriche come la Breda, la Magneti Marelli, la Falck, i quartieri di Niguarda e Greco, dove c’è la stazione. Per questo quella mattina gli Alleati eseguono un vasto bombardamento su Milano concentrandosi proprio sulle zone industriali, ma inspiegabilmente centrano in pieno due scuole: a Precotto non ci sono vittime, ma a Gorla la scuola elementare Francesco Crispi, accanto al vecchio ponte del Seicento che collega le due sponde del naviglio della Martesana, collassa. La bomba si infila nella tromba delle scale e la struttura frana su 184 bambini e su tutti gli adulti che li hanno in custodia mentre scendono ordinatamente nel rifugio sotterraneo. Le vittime sono duecento: “i Piccoli Martiri di Gorla”.
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Il racconto della zia è lungo, ma investe pochissimi minuti. I suoi ricordi sono quelli di una bambina, non c’è un giudizio razionale, da adulto, soltanto gli eventi e le emozioni, e ascoltandola si perde il senso del tempo. Oggi è seduta composta, con la permanente fresca, elegantissima per incontrare il presidente Mattarella, venuto in visita a celebrare “i piccoli martiri di Gorla”, i suoi compagni di scuola, ma quando parla della strage è ancora una bimba di sette anni che ha paura di non trovare per strada suo papà e di non trovare più la strada verso casa. Perché non mi viene incontro, pensa. Non sa che il bisnonno Giovanni in quel momento è in viale Monza, in cima al cumulo di macerie che è diventata la sua casa a cercare di tirar fuori con le mani la moglie e un’altra figlia dai resti del bar e del loro appartamento, crollati.
Non è il colore del sangue quello che è rimasto impresso nella memoria di mia zia, né quello del fumo o del fuoco, è un colore diverso, quello del blu dell’inchiostro. Non se lo perdona ancora oggi – si sente una cattiva bambina – di aver dovuto buttare il calamaio contro un muro, presa dal panico, perché una voce sconosciuta le ha gridato di coprirsi il volto e la testa con la cartella, con le mani, è in arrivo una tempesta dei vetri delle finestre della via frantumate dall’urto d’aria. Giuditta è una brava bambina, mai lancerebbe l’inchiostro sul muro, eppure deve farlo per liberare la mano sinistra e proteggersi: il calamaio esplode e disegna un mostro scuro sul muro, il cui ricordo la fa tremare ancora oggi, chissà perché.
Che spreco, pensa la zia: quell’inchiostro le serviva a scrivere il tema, “Il mio quaderno”, che l’allarme aveva interrotto quel giorno. Tutti i sopravvissuti ne parlano. Oggi Graziella lo ha perfino fatto vedere al presidente Mattarella: un vecchio quaderno perfettamente conservato, con un tema lasciato a metà. Un altro sopravvissuto, Sergio, si è salvato per essersi attardato qualche istante in più a scrivere e poi a recuperare il cappotto: la bomba è caduta e lui, che non era ancora sceso ai piani bassi, è riuscito a uscire strisciando sulle ginocchia, aggrappato al suo cappotto e tenendo il tema sopra la testa, quando Giuditta era già in strada.
Nei suoi pensieri tutti i giorni da ottant’anni c’è una donna misteriosa, spuntata all’improvviso da un portone della via, che urla perché il terremoto provocato dalla bomba le ha fatto rovesciare l’olio in cui stava friggendo il pesce su un fornelletto di fortuna in cortile. Ma in mezzo al fumo e al fragore quella signora la scorge e le grida di entrare, tirandola nell’androne per sottrarla all’onda d’urto che la spazzerebbe via come una foglia. Fu questa donna in via Fratelli Pozzi a salvarla. «La vorrei tanto ringraziare», si commuove ancora Giuditta, che non ha mai saputo il suo nome. Quando Giuditta arriva sul viale, è spaesata e impolverata, senza più niente in mano. Non trova nessuno che conosce, non capisce niente nel formicaio che è diventata la strada.
In quel momento Teresa, sua sorella più grande, mia nonna, si trova a Porta Venezia, lavora in Montecatini. Quando le dicono che è crollata la scuola di Gorla, quella dove va sua sorella, e che anche il bar dove lavora suo padre è imploso sotto il condominio dove stanno sua madre e l’altra sorella piccola, non vuole più tornare e invece torna, a piedi da Porta Venezia, piangendo in un mare di devastazione, per scoprire che sono tutti vivi, tutti vivi: Giuditta è stata portata al riparo nel negozio di un panettiere, il bisnonno la recupera lì, sua madre e l’altra sorellina escono vive dalle macerie. Saranno accolti nella casa di una vecchia zia di Crescenzago che aveva già messo a disposizione l’appartamento per i senzatetto: i senzatetto sono loro.
Oggi cammino piano, ripercorrendo il percorso della zia, la strada che ha fatto quel giorno e sento la prossimità anche fisica con questa storia. Da ragazzina mi piaceva fare la splendida e raccontare alle altre ragazzine col walkman in tasca e la maglia di Beverly Hills, che abitavamo sopra un cimitero. Nessuna voleva crederci perché la storia di Gorla non era conosciuta. Il trauma collettivo che ha devastato Gorla per sempre, come lo ha definito Mario Calabresi, è stato a lungo rimosso per complicate circostanze storiche e politiche. Sono stati i sopravvissuti, le famiglie delle vittime e le associazioni di quartiere a lottare per tenere viva la memoria. E quest’anno c’è stata la visita di Mattarella. Un grande regalo. Ma quando raccontavo la storia da ragazzina, gli occhi delle amiche si sgranavano pensando ai fantasmi, alle storie di quei 184 bambini morti, a qualcosa di truce. Non capivano, non capivamo, niente di quella tragedia. La strana normalità era mangiare il gelato all’ombra di una statua enorme, dove un bimbo morto viene offerto alla via da una madre incappucciata come il dolore. A un’altra donna della mia famiglia, portarono in casa il cadavere di un bambino, perché non si sapeva più dove poggiarli. Glielo misero sul tavolo, accanto al piatto col formaggio, accanto alla bottiglia di vino, e questa mia parente impazzì. Dovettero cambiare il tavolo ma per tutta la vita sentì le sirene degli allarmi.
Da bambina mi immaginavo smarrita in mezzo alla strada, con la scuola crollata alle spalle e il quartiere devastato davanti, senza più punti di riferimento; da ragazza mi sono immedesimata in quella giovanissima maestra morta perché era tornata in classe a prendere il portafoglio che aveva dimenticato, con dentro il primo stipendio; da quando ho dei figli non oso immaginare più niente perché l’orrore di allora ce l’ho ancora intorno, nei telegiornali, nell’aria pesante di questo nostro tempo di nuovo pieno di guerra.
Prima di imboccare via Pozzi mi fermo. Nella cripta sotto il monumento oggi non si può scendere più tutti i giorni, ma quando ero piccola era aperta spesso e ad accesso libero. Da bambine facevamo la gara per vedere chi aveva il coraggio, chi riusciva a starci più tempo. La scala è lunga e ripida, ti investe il freddo, il buio. È difficile sostare a lungo lì sotto, anche se un Gesù dorato e ieratico spalanca le braccia in un mosaico di tipo bizantino, e dice «e avevo detto di amarvi come fratelli». Dalle foto sulle loro tombe gli occhi dei bambini morti guardano, muti, indagatori. Io e le mie amiche d’infanzia scendevamo, ridevamo nervosamente e non capivamo fino in fondo perché sentivamo un brivido nella schiena. C’è voluto del tempo per capire, gradualmente, che cosa significò per tanti convivere con quel trauma. Oggi so che non sono i fantasmi a fare paura, ma i vivi: la crudeltà, la dimenticanza dei vivi. Là sotto si sente il peso della cattiveria umana, si rischia di restare schiacciati.
La zia Giudi non me ne ha mai parlato, ma percepisco che, come tutti i sopravvissuti alle grandi tragedie della storia, ha dentro il dolore di esserci ancora senza esserselo meritato, di essere salva tra tanti che non lo sono più. Ha avuto una vita, un amore, dei figli, nipoti e anche dei bis-nipoti. È la più anziana della famiglia. La sua fede in Dio la porta a pensare ogni giorno che era scritto così, che c’è una Volontà misteriosa dentro tutto quello che è successo. Non c’è odio in lei, mai. Ma non c’è odio in nessuno dei superstiti di questa tragedia che ho incontrato. Nessuno di noi giovani è stato cresciuto nella rivendicazione, tutti ci siamo scoperti uguali ai nostri vecchi, uguali a quei bambini, a quei maestri, a quei genitori. Lo abbiamo capito mano a mano cosa vuol dire sostare nella tragedia, ce lo hanno fatto capire loro, con che occhi vanno guardate tutte le guerre, da Gaza al Donetsk all’Africa all’Oriente.
Domenica 20 ottobre 2024, nell’esatta ricorrenza della strage, gli artisti di OrMe inaugurano un’opera sul muro dell’edificio adiacente al Circolo Familiare di Unità Proletaria di Gorla, quello dove oggi c’è lo Zelig, il locale del famoso programma di comici, e dove in tempo di guerra, dopo la strage, venne allestita una scuola di fortuna. Dipingeranno una delle orme di memoria che stanno spargendo per la città, questa dedicata ai Piccoli Martiri. Ci saranno i ragazzi delle scuole del quartiere, canti e girotondi, si penserà alla guerra, alla vita e alla morte. Si farà qualcosa che non si era mai fatto in questi ottant’anni: rendere attuale la memoria oltre che celebrarla. Il quartiere è come un paese, siamo ancora tutti un po’ eccitati per la visita del presidente, si respira un’aria bella, da festa collettiva. Io ci vado con i miei figli e i loro amici. Zia Giudi dice che no, lei non ce la fa a venire. È un po’ stanca, ha mal di schiena. Guarderà i video che le manderò su WhatsApp perché è una zia moderna, ma deve riposare.
Lasciamola in pace, adesso tocca a noi.
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