Non c’è al mondo un luogo che non faccia male
«Desideravo da anni andare a Klagenfurt, per quella mia fissazione di fermarmi davanti alle tombe delle scrittrici e degli scrittori che ho amato e parlar loro nella mia testa, ma accanto alle loro ossa, anzi alla polvere che sono tornati a essere. Volevo vedere dov’era nata, Ingeborg Bachmann, perché sempre voglio vedere il luogo di nascita di chi amo, soprattutto se lo ha abbandonato, se lo ha perduto. Sembra una scelta sua, invece è stata la Storia a decidere quell’esilio. Anche mio padre è un esiliato, come me. Anche per noi è stata la Storia a scegliere – ma chi la chiamerebbe così»
Mio padre è magrissimo. Ha la pelle delle braccia così liscia che sembra si spalmi continuamente di crema, invece non ne ha mai usate, a parte la Glysolid per le mani screpolate d’inverno, quando nel gelo dell’alba metteva nell’acqua fresca i carciofi, e con una giacca a vento e un cappello di lana in testa allestiva, assieme a mia madre, il banco del mercato.
Mio padre ha la pelle liscia dei vecchi. Ha gli occhi smarriti e il sorriso sdentato di un bambino. Da cosa potrei riconoscerlo, per ricordarmi che è lui, ora che è così diverso, quasi un altro?
«È diventato vecchio», pensa Elisabeth Matrei alla stazione di K., quando suo padre va a prenderla al secondo binario, ed è una sensazione allarmante. Lo vede così piccolo, «non proprio rattrappito, ma più piccolo». Dal taxi il suo sguardo intercetta la fontana del drago nel Neuer Platz, e anche il drago le pare più piccolo.
Elisabeth è la protagonista di Tre sentieri per il lago, il lungo racconto di Ingeborg Bachmann che dà il titolo alla raccolta uscita in Italia nel 1980 (otto anni dopo l’edizione originale in tedesco). L’ho riletto quest’estate di ritorno da Klagenfurt, la città di K. in cui Elisabeth è nata e che ha lasciato, senza mai trovare pace altrove, e cui fa ritorno ciclicamente – non per nostalgia, dice, ma per suo padre.
Desideravo da anni andare a Klagenfurt, per quella mia fissazione di fermarmi davanti alle tombe delle scrittrici e degli scrittori che ho amato e parlar loro nella mia testa, ma accanto alle loro ossa, anzi alla polvere che sono tornati a essere, per rivolgermi a loro come in preghiera, poi scrivere brevi messaggi da nascondere nella terra di un vaso di fiori, o sotto manciate di sassolini, certa che presto la pioggia scolorirà le mie parole, scioglierà la carta e ogni traccia sparirà, di quel mio gesto impudico.
Volevo vedere dov’era nata, Ingeborg Bachmann, perché sempre voglio vedere il luogo di nascita di chi amo, soprattutto se lo ha abbandonato, se lo ha perduto. Sembra una scelta sua, invece è stata la Storia a decidere quell’esilio. Klagenfurt è il luogo del trauma, il luogo in cui ha origine l’«angoscia mortale» che mai abbandonerà Ingeborg. Klagenfurt è la terra in cui, marciando, le truppe di Hitler hanno distrutto l’infanzia.
Mio padre è un esiliato, come me. Per noi è stata la Storia a scegliere – ma chi la chiamerebbe così.
Ha gli occhi verde bosco; al centro, attorno alla pupilla, l’iride si scurisce, diventa marrone. Adesso che è invecchiato, il verde mi pare più terso, diluito. Ma forse è solo che ha occhi acquosi, e di un’unica espressione. Mai più sono stati volitivi o rabbiosi o appassionati. Sono solo dolci, è questa la novità insostenibile.
Ho abitato molte città; mio padre, due e basta. Una da autoctono, una da straniero. La mia vita si è riempita mentre la sua si svuotava. L’ultima volta che ha smontato il banco e ha rimesso i pezzi sul camion assieme alle bilance e al registratore di cassa, per non usarli mai più, probabilmente ignorava che si sarebbe pian piano ritirato dal mondo. Oppure no? Oppure era questo che voleva.
Non ha sentito una puntura di nostalgia, il tremolio fugace di una paura – e adesso? Adesso chi sei, se hai lavorato tutta la vita senza concederti altro.
Mio padre non saprebbe mai isolare un’emozione, restituirla. Gli manca il lessico, la pazienza. Il pudore lo ammutolisce.
Lo scorso agosto non gli ho spiegato che dalla Liguria, dove lui abita – lontano dai fratelli, dalla città in cui è nato, dal suo dialetto, da una giovinezza fiera e impetuosa: così la immagino, ma che ne so –, non gli ho spiegato che sarei andata a Klagenfurt in auto. Lui non conosce la Carinzia, non gli interessa.
«“Carinzia, la terra del sole”; tutto è caro e di qualità cattiva e non saprei dire chi sia a imbrogliare e chi a essere imbrogliato», scrisse Bachmann allo scrittore Uwe Johnson in una lettera del 25 luglio 1970, tre anni prima di morire. «Si dovrebbe essere soltanto e unicamente uno straniero per riuscire a sopportare un luogo come K. più a lungo di un’ora, o per vivere qui per sempre, soprattutto non sarebbe lecito essere cresciuti qui ed essere io, e poi ritornarci ancora».
Ma Bachmann ci è tornata regolarmente, per far visita ai genitori, ai fratelli, ci è tornata quando cercava ristoro da una fatica, magari emotiva. Come Elisabeth, che in casa del padre si sente un po’ ospite e un po’ padrona.
(Io non so più dove stiano certe pentole, certe tovaglie, e mia madre si offende: mica è la prima volta che vieni, mi rimprovera. Ma è la sua cucina, non la mia).
Ha settantasette anni, il padre di Elisabeth; lei, cinquanta. La stessa differenza di età che separa me e mio padre, settantatré lui, quarantasei io, li ho compiuti in agosto. Mio padre non mi ha chiamata al telefono per gli auguri, ha chiesto a mia madre di farmeli anche da parte sua. Per il suo settantatreesimo compleanno, era luglio, non gli avevo regalato nulla. I pacchi quasi non li apre. Lascia scarpe, camicie, orologi nelle scatole, non usa niente, non gli serve niente. O forse sono io a non trovare la sorpresa capace di scuoterlo. Come Elisabeth, che «quando pensava a suo padre non riusciva a escogitare nulla», alcun regalo.
Ma è con lui che finalmente nuota nel lago. Per giorni e giorni ha passeggiato nel bosco (quello del Kreuzbergl, dove io temevo di perdermi, anche se c’era Livio con me) prendendo ogni volta un sentiero nuovo, senza mai riuscire a raggiungere il lago. Quand’era piccola le pesavano, quelle escursioni con la famiglia, durante le quali bisognava rispondere a domande sulle piante e gli uccelli; i suoi non sarebbero mai andati al lago in macchina, forse in autobus, giusto in caso di pioggia. Oggi che è tornata a K., convinta che camminare nel bosco possa rinfrancarla, Elisabeth evita la città, però al lago non è capace di arrivare, e giorno dopo giorno cresce in lei l’inquietudine.
La guerra, sentivo bisbigliare. ’A guerra. Altrove nessuno la chiamava così, ma a Reggio Calabria sì, era guerra, e io avevo sei anni, sette, otto, a volte sparavano prima di cena, e non erano fuochi d’artificio, la pastina si rapprendeva nel piatto, mia madre aveva un conato, mio padre raschiava il labbro coi denti. ’A guerra, diceva, davanti ai bambini, qualunque bambino, sua figlia inclusa. Tanto non capiscono, sono piccoli, distratti, si scordano. Di colpo tremava la strada, e la chiesa, e la scuola, tremavano il bar, l’altalena, i fichi nei giardini, tutt’attorno tremava la casa, e io immaginavo uno spazzacamino picchiare forte la scopa sui tetti, ma non avevamo un tetto e neppure un camino, mia madre abbassava le serrande, mio padre digiunava. Mettiamoci a letto, ognuno nel suo, ma hanno sparato, c’è un morto, due morti, o tre – accendi il telegiornale, come faccio a dormire, la litania di Telereggio in cucina, un’eco che culla, la mia ninnananna, la pastina è nel secchio e io ho mal di stomaco, l’avrò sempre, ce l’ho da sempre (rappresa nel piatto, i chicchi gonfi, la poltiglia bianca dell’infanzia) – da dove viene questo dolore.
Un eccesso di memoria, o di attenzione. Il corpo spalancato alla Storia.
Nel bosco di Kreuzbergl, subito dopo lo stagno, appeso sopra un albero, ho trovato un cartello che indicava il «Bachmannweg», il sentiero di Bachmann. L’abbiamo seguito per un po’, poi ho pregato Livio di tornare indietro.
Gli alberi fitti, alti, che attenuano luce e rumori, mi inquietano sempre. Da piccola non succedeva, e non era solo perché mi fidavo di mio padre. Dipendeva dalla scarsità di esperienza. Meno ne hai e meno hai paura. Raccoglievamo funghi, eravamo appena emigrati dal Sud al Nord. I funghi confortavano il nostro esilio, e le more, e le lumache, l’odore degli aghi di pino. Poi mi sono iscritta alle medie, e mio padre è andato nel bosco da solo, a mia madre non piaceva. Poi sono partita per l’università. Mai più sono tornata, se non per far visita a loro. Eppure non c’è al mondo un posto che non mi faccia male – che non faccia male a Elisabeth.
Al lago siamo arrivati in macchina, guidava Livio. Abbiamo passeggiato per ore sul canale e mangiato una porzione di Mohnnudeln; infine mi sono seduta su una panchina a Maria Loretto, dove Ingeborg andava a nuotare, e me la sono figurata in costume, quel piccolo elfo – come la chiamavano le compagne al Gymnasium.
Il nostro albergo non è troppo distante dalla Ursulinengasse. Al civico 3 c’è una targa in tedesco. Benché Klagenfurt sia un luogo turistico, mancano le indicazioni in inglese e in qualunque altra lingua. K. è sul confine con la Slovenia e l’Italia, ma è «occupata» dai tedeschi, pensa il padre di Elisabeth: «La guerra l’avevano persa, ma soltanto in apparenza, dato che ora l’Austria la dominavano per davvero, adesso se la potevano comperare, e questo era peggio ancora, per lui un paese in vendita era peggio di un paese sbandato o sconfitto».
Sulla targa – l’ho tradotta con le mie reminiscenze di tedesco, una lingua che ho disertato ventiquattro anni fa – c’è scritto che Bachmann ha studiato lì dal 1936, prima al ginnasio delle Orsoline e poi, dal ’38 al ’44, nella scuola superiore femminile.
Chissà perché, da protestante, Inge ha frequentato un istituto cattolico, che dopo l’Anschluß, l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista del 13 marzo 1938, è stato inquadrato nel sistema nazista come una scuola per fanciulle, appunto.
La porta è chiusa, non posso entrare, l’anno scolastico non è ancora iniziato. Cerco di tradurre la citazione sulla targa, non ci riesco, uso un dizionario online, non capisco. Avrò un’illuminazione rileggendo Giovinezza in una città austriaca il primo settembre, dopo essere tornata a Roma, e aver lasciato di nuovo mia madre in Liguria, con le sue pentole e il mio corredo – lunghe scatole piatte che occupano le due ante superiori di un armadio: non so quando sarò in grado di portarmele tutte a casa, di usare tutte quelle lenzuola.
Leggerò il racconto (il primo del Trentesimo anno, un libro del ’61) dopo aver lasciato mio padre seduto sul balcone, di sera, a pensare pensieri muti, le ginocchia ossute e i polpacci anelastici, una canottiera sul torace sottile, o il torace nudo.
Leggerò il racconto e finalmente riconoscerò la frase sulla targa: «E un giorno nessuno consegna più la pagella ai bambini».
Se la scuola delle Orsoline era chiusa, al liceo Ingeborg Bachmann, in piazza Ingeborg Bachmann 1, sono invece entrata. La porta era aperta, ho seguito la musica come un topo di Hamelin: erano gli AC/DC, i Metallica? Ho salito le scale e sono arrivata in un corridoio pieno di operai che pulivano, alcuni mangiavano. Ho salutato in tedesco, mi hanno risposto. Non mi hanno impedito di aggirarmi per le aule, di fotografare le barre in metallo delle porte a vetri sopra cui, accanto a un ritratto stilizzato di Inge, era incisa la frase «Non conosco mondo migliore», il titolo di una sua raccolta postuma di poesie.
Quando sono uscita, in tedesco gli operai mi hanno chiesto che cosa facessi lì. Ho risposto in inglese.
Nessuno consegna più la pagella ai bambini, no: sono liberi di andarsene, di «entrare nella vita». Scrisse Ingeborg: «In questo paese non farò più l’università», lo scrisse nel suo diario del ’45, quando preferiva sedersi a leggere nel giardino della Henselstrasse – versi di Rilke e di Baudelaire – anziché salire al rifugio del Kreuzbergl.
L’ho immaginata in quel giardino. Dal cancelletto verde e bianco, al civico 26, ho spiato i ponteggi: la casa è in ristrutturazione. Nella notte ho cercato notizie in tedesco, ho usato Google Translate, ho scoperto che la stanno trasformando in un museo visitabile. Dentro, oltre ai mobili di famiglia, la biblioteca di Inge. Ho spiato le erbacce incolte e pensato che gli alberi di mele non c’erano più. «I meli non sono più alti di loro, cresceranno insieme», dice la voce narrante di Giovinezza in una città austriaca alludendo ai bambini. Fu sul melo che Inge salì a piangere dopo che Jack Hamesh, il soldato inglese (in realtà un austriaco ebreo partito a diciott’anni con un convoglio di bambini nel ’38), le aveva baciato la mano – nessuno mai l’aveva fatto. Fu questo a trasformare l’estate del ’45 nella più bella della vita: «della pace non si avverte un granché, dicono tutti, ma per me è pace, pace!».
’A guerra, la nostra, altrove nessuno l’ha chiamata Storia.
Mio padre è un esiliato. È stato cassintegrato, emigrato, disoccupato – ammettilo, non si è mai sentito a casa. Ha cercato un’abitudine. Il cappello di lana in testa. La crema per le mani rovinate, una pinzetta per sfilare le spine dai polpastrelli – capita, con i carciofi – e una trattoria il sabato sera, nell’autoradio Celentano, la briscola dopo cena: ma questa figlia, così brava a scuola, a giocare mica impara, sa le poesie a menadito e non ricorda le carte cadute, non sa neppure contarle, non ha strategia, ti giri un attimo – il tempo di accendere la sigaretta – e l’hai perduta, tua figlia, ha lasciato il posto vuoto, le carte scoperte, quattro città e decine di case. Si è convinta di sfidarla, la Storia. Si è convinta di scegliere.
(Non si tratta di Klagenfurt, né di Reggio. L’Eden è sempre il luogo del trauma, implica la cacciata, lo strappo, crescere e ancora crescere, crescere fino a spaccarsi – essere adulti).
Quella della Henselstrasse era una «casa senza padrone», e i bambini non dovevano più, come invece nella casa in affitto della Durchlaßstrasse, sussurrare e giocare in calzini per non disturbare i padroni, al piano di sotto. Ma presto scoppiò la guerra e se prima davanti ai bambini si parlava per allusioni – come potevano presagire, loro, che il Paese si stava svendendo? – adesso no, si parlava di spari alla nuca e di impiccati; avrebbero avuto il permesso di dimenticare il latino, i bambini, e al suo posto imparare il rumore dei motori nel cielo; avrebbero avuto il permesso di scavare trincee vicino all’aeroporto, di lasciare i quaderni per correre nel rifugio.
(«Va con l’ebreo», mormoravano. Sul diario lei scrisse: «Ho pensato che mai più avrei potuto lavarmela, la mano»).
C’è ancora, il rifugio antiaereo, davanti al parco giochi e a un gazebo da cui si gode una vista sulla città.
È una torre di cemento graffitata che sembra priva di accesso, quasi la porta fosse stata sigillata. Dalle scene dipinte in alto Livio ha intuito potesse essere un bunker: edifici in fiamme, infermiere, una Morte che vola tra gli aerei tenendo una falce, una fiaccola e una clessidra. La torre è stata in effetti costruita sopra un pozzo d’aria, che consentiva di respirare dentro un tunnel lungo 345 metri. Qui più di seimila persone si difesero dai quarantotto bombardamenti su Klagenfurt. Ma alla fine la diciannovenne Inge smise di andarci: «non ce la faccio più […] a starmene lì per ore con l’acqua che sgocciola dalle pareti rocciose e l’aria che diventa così pesante da farti quasi svenire. […] Il pensiero di poter magari crepare lì con tutti gli altri, come in un gregge, mi fa orrore. Almeno in giardino. Almeno al sole».
Mio padre non ha mai avuto una casa di proprietà, neanche senza giardino, neanche senza meli. È nato nel dopoguerra.
Ho sempre pensato che avesse scelto di investire i suoi soldi nei miei studi universitari da fuori sede: in fondo, quella casa che non ha avuto gliel’ho rubata io, gliel’ha rubata la mia ansia di conoscenza, il mio desiderio di avere nel mondo un ruolo diverso dal suo.
Mia madre dice che vuole morire in quella casa in affitto, quasi fosse sua. Lei, una casa di proprietà, non l’ha mai voluta, le faceva paura. Un lusso che non meritava, che avrebbe dovuto espiare come una colpa.
Nel 2020 ho comprato casa. È senza giardino. Nessuno bombarda l’Italia dal ’45 e io non leggo nel sole. Ho un senso di colpa grande cento metri quadri e lungo quarantasei anni.
Li ho lasciati che ero appena maggiorenne, i miei genitori. Torno a Natale, a Pasqua, in agosto. Non è per nostalgia, è perché loro stanno lì.
(«Io non ho più paura, solo una sensazione fisica quando cadono le bombe, un crampo dentro di me»). Solo questo dolore – allo stomaco, e nessuno sa da dove venga, perché.
A Loretto il lago è splendido, gelido, Elisabeth batte furiosa il crawl per scaldarsi e nuota, finché non incontra suo padre nell’acqua, accanto a un tronco galleggiante. «Daddy, I love you», gli grida. In inglese. A Klagenfurt am Wörthersee, in Carinzia. Si può amare un nazista? Anche il signor Matrei, come Mathias Bachmann, aveva aderito al nazismo? Si può perdonare un padre, o si può solo scrivere di lui?
Il signor Matrei domanda: «Che cosa hai detto?»
«Niente», risponde la figlia, «ho freddo».
La tomba è nel cimitero di Annabichl, vicino all’aeroporto, nel quartiere dove Bachmann abitò fino a sette anni, al 35 della Durchlaßstrasse (la palazzina è identica a quella che ho visto in una foto d’epoca esposta al museo Robert Musil, nato anche lui a Klagenfurt, dove c’è una sezione dedicata alla scrittrice). «A qualcuno era venuto in mente di costruire l’aeroporto accanto al cimitero e gli abitanti di K. credettero che fosse per seppellire i piloti che per un certo tempo si esercitarono in voli di addestramento. Ma i piloti non fecero a nessuno il favore di precipitare».
Presto però sarebbe accaduto. Il tempo che Hitler annettesse l’Austria, che scatenasse una guerra, il tempo che l’Austria fosse amputata.
Perché seppellire Ingeborg laggiù, nella sua terra natale, se la sua terra primigenia era il Sud, l’Italia, il luogo che le aveva insegnato a vivere, diceva? Perché seppellirla in quel posto in cui c’è «ben poco», «il mio vecchio ginnasio […], un piccolo parco e il caffè Moser»?
(Proprio all’hotel Moser abbiamo soggiornato, ma è stato un caso, l’ha prenotato Livio. Nel caffè non ci siamo seduti, abbiamo fatto colazione al caffè Ingeborg Bachmann. Io ho mangiato una fetta di pane scuro con burro e pomodoro, ho bevuto tè verde).
Voleva essere seppellita nel cimitero acattolico del Testaccio, accanto a Shelley e Keats. È a Roma che è morta.
La sua tomba è un perimetro ricoperto da sassolini, sulla lapide di marmo il cognome BACHMANN è al centro, scritto grande. Il nome Ingeborg è subito sopra, a sinistra, nello stesso corpo. Più piccoli, simmetrici, sotto, i nomi di Olga e Mathias, i genitori. Quel cognome in mezzo, condiviso da tutti e tre, da chi lo aveva per nascita e da chi l’aveva acquisito, mi ha fatto pensare al libretto universitario di Inge, quando ancora studiava a Innsbruck, conservato al museo Musil. Si firmava con il cognome prima del nome, era il 1945. Un lustro dopo, sulla carta di identità rilasciata a Vienna, c’è la stessa foto in cui sorride, ma il nome precede il cognome. «Professione: scrittrice».
Non voglio essere seppellita a Reggio Calabria, né in provincia di Imperia, forse a Roma, anche se non l’ho mai amata la città in cui ho abitato più a lungo. Non mi ha insegnato a vivere, mi ha insegnato l’adultità – questa ferita.
(Non c’è al mondo un luogo che non faccia male).
Su un fazzolettino per il naso scrivo una breve lettera, un po’ in tedesco un po’ in italiano. Inge parlava l’italiano con una proprietà che nella sua lingua mai ho avuto, neppure quando vivevo in Austria, e a Vienna – come lei – frequentavo l’università. Non ricordo che cosa ho scritto, non mi preparo mai prima, quindi sul momento butto giù parole incapaci di rendere la religiosità che quel gesto ha per me.
Ho portato girasoli, margherite e roselline, Livio ha cercato dell’acqua, li abbiamo messi in un vaso. Dietro la lapide di Inge, un uomo e una donna strappano l’erba, si prendono cura di un morto che hanno amato anche quand’era in vita, che di sicuro hanno conosciuto, con cui hanno parlato e condiviso giornate. Io no. Ingeborg, l’ho solo letta. È bastato a giustificare gli 800 chilometri di strada in macchina fino a qui. La leggo da quasi vent’anni.
Dato che restiamo per un po’ davanti a una lapide in un cimitero austriaco parlando in italiano, forse per la curiosità a un certo punto l’uomo e la donna si affacciano, cercano nei nomi intagliati nel marmo la ragione della nostra presenza incongrua, e chissà se capiscono. Non ci rivolgono la parola, si girano e continuano a occuparsi del loro morto.
(«O città. Città. Città di ligustri, città da cui pendono tutte le radici»).
Mio padre è magrissimo. In agosto, quando torno nel paese in cui sono cresciuta, in cui non sono nata, per stare con lui e mia madre, dopo cena mio padre si siede sul balcone. Senza dire nulla si alza e se ne va, si abbandona sulla sdraio, mai steso, i gomiti sui braccioli, come in poltrona, non ci invita a seguirlo, in silenzio prende congedo da noi.
A volte mi siedo sull’altra sdraio, accanto a lui; le ha comprate Livio, le sdraio.
Che hai fatto oggi, gli chiedo.
Niente, risponde – un bambino tornato da scuola.
È rinfrescata l’aria, dico.
No, dice lui, si sta bene.
Ha la pelle liscia, sottile, gli occhi annacquati. È un altro, ormai.
Guardo le luci delle macchine sull’autostrada che taglia le colline. C’è un ulivo sotto il balcone, quand’ero più giovane la sua presenza mi consolava. Il mare da qui non si vede, è lontano dieci minuti a piedi, ma sembra non essere mai esistito. Irraggiungibile, nessun sentiero.
(«Tu, mio luogo. Tu, nessun luogo»).
Il treno a quest’ora non passa, o forse da qui non si sente. Una casa in affitto in un brutto palazzo costruito fra l’autostrada e la ferrovia. Certo che poi una figlia la perdi, se tutto sembra suggerirle la partenza.
Ho freddo, dico a mio padre.
Ma quando mi volto a guardarlo, lui sta già dormendo, la testa appesa sul petto nudo.
[Le citazioni sono prese dal racconto Tre sentieri per il lago, in Ingeborg Bachmann, Tre sentieri per il lago, Adelphi, Milano, 1980, traduzione di Amina Pandolfi e Ippolito Pizzetti; dal racconto Giovinezza in una città austriaca, in Ingeborg Bachmann, Il trentesimo anno, Adelphi, Milano, 1985, traduzione di Magda Olivetti; da Ingeborg Bachmann, Diario di guerra, Adelphi, Milano, 2011, traduzione di Elisabetta Dell’Anna Ciancia; da Uwe Johnson, Un viaggio a Klagenfurt, Se, Milano, 1980, a cura di Luigi Reitani].
– Leggi anche: Una costellazione