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  • Mercoledì 16 ottobre 2024

Il rinascimento del “foraging”

Lo scrittore Edoardo Vitale racconta sul nuovo numero dell'Integrale perché in tanti raccolgono cibi selvatici, anche in città, per mangiarli

(AP Photo/Jerry Harmer)
(AP Photo/Jerry Harmer)
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Quello che un tempo era andare per prati e boschi a raccogliere erbe spontanee e funghi da cucinare è diventato, dagli anni Dieci, una moda: viene chiamato foraging e prevede corsi per imparare a individuare il tarassaco, spedizioni nei parchi cittadini delle grandi città e app che indicano dove trovare alberi da frutta. Lo scrittore Edoardo Vitale ha raccontato i suoi fallimentari ma divertenti tentativi di diventare un raccoglitore esperto di cibo selvatico e erbe mediche sul nuovo numero di L’Integrale, il libro rivista di cultura gastronomica pubblicato, dal 2023, dalla casa editrice Iperborea, di cui pubblichiamo un estratto.

Il numero s’intitola Selvatico ed è «un’esplorazione di questo mondo di mezzo tra selvaggio e civile, e dei modi in cui ne veniamo attratti e respinti», come ha scritto nell’editoriale la direttrice Diletta Sereni. Nel numero lo scrittore Sandro Frizziero racconta il proliferare delle vongole delle Filippine nella laguna di Venezia, il cuoco e scrittore Tommaso Melilli ricostruisce la storia culturale della carne di piccione e Francesco Costa, vicedirettore del Post, prova a capire gli americani, e quanto siano diversi da noi italiani, anche attraverso il cibo.

Di seguito l’inizio di “Gesta campestri di individui urbanizzati”, di Edoardo Vitale.

Un'immagine della copertina del nuovo numero di L'Integrale, che raffigura un cinghiale; l'illustrazione è di Gianluca Cannizzo

La copertina del nuovo numero di L’Integrale; l’illustrazione è di Gianluca Cannizzo (L’Integrale)

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Durante i lockdown del 2020 ho percorso decine di chilometri tra i boschi. Ho raccolto menta di montagna, erba vescica viola e trifogli di cespuglio, ho bevuto da pozzanghere ghiacciate e sono sopravvissuto procacciando mirtilli giganti, sommacco liscio, arachidi e mele selvatiche. L’ho fatto seduto sul divano del mio appartamento a Roma, tra una call e l’altra, grazie a un videogame dichiaratamente ispirato a Walden di Henry Thoreau. Potevo considerarla la mia esperienza più vicina al foraging in età adulta.

In quello stesso periodo nella mia bolla i discorsi sulla micologia erano improvvisamente all’ordine del giorno, lo spirito del tempo tendeva verso la ricerca dell’autenticità nella vita lenta e le librerie destinavano una sezione sempre più ampia ai saggi sull’intelligenza delle piante. Non bastava riempirsi l’appartamento di Sansevieria, Monstera deliciosa o Ficus lyrata e possedere la ristampa in vinile di Mother Earth’s Plantasia. Era in arrivo qualcosa di più ambizioso.

Da bravo millennial potevo desiderare di abbandonare la città e dedicarmi all’orto, come potevo desiderare una casa di proprietà con cabina armadio. Due strade velleitarie, entrambe impraticabili. L’idea di uscire e procacciarmi cibo selvatico o erbe mediche, invece, era ridotta a puro pensiero romantico, anche perché senza i post di «Prevenzione a Tavola» su Instagram, farei fatica a indicare la frutta e la verdura di stagione. Per un individuo urbanizzato come me, quelle sono cose che richiedono transazioni economiche e test clinici.

D’altra parte, come tutti in quel periodo, ero esaurito. Avevo voglia di camminare, di imparare qualcosa di nuovo e di fare nel mondo reale quello che per mesi avevo fatto di fronte a uno schermo. È con queste premesse che mi sono iscritto a un workshop di foraging.

Chiunque voglia cimentarsi nella raccolta di erbe spontanee anche solo per un pomeriggio, impiegherà pochi istanti a imbattersi nell’ingombrante figura di René Redzepi. Danese di origini macedoni, adolescente turbolento e con pessimi voti, si racconta che sia finito per puro caso alle scuole professionali di cucina. Internet è costellata di agiografie dello chef capostipite della New nordic cuisine, una specie di Dogma 95 culinario con tanto di manifesto, votato alla riscoperta dei prodotti locali e di ricette tradizionali scandinave. Oggi Redzepi è una specie di divinità dell’alta ristorazione mondiale. È a lui che si deve il rinascimento del foraging, che prima ha attecchito nei ristoranti stellati e poi ha invaso i social network, le testate specializzate e persino i programmi di Antonella Clerici.

Nel 2004, a soli 26 anni, Redzepi ha aperto il Noma a Copenaghen, con il quale ha ottenuto tre stelle Michelin e per cinque volte il titolo di miglior ristorante al mondo, assegnato ogni anno dal mensile britannico Restaurant. Da vent’anni il Noma propone un menu fatto quasi interamente da ingredienti raccolti nel raggio di 60 miglia dal ristorante, molti di questi ingredienti sono foraggiati nei dintorni dallo stesso Redzepi e dalle persone del suo staff. Alcune di loro hanno raccontato che prima di mettere piede in cucina o in sala sono stati portati in giro per i boschi circostanti o in riva al Mar Baltico a raccogliere e assaggiare cibo selvatico. Le poche eccezioni presenti nel percorso di degustazione non provengono da molto lontano: perlopiù Islanda o Svezia per il grano saraceno, i ricci di mare o le noci di faggio.

Chi riesce a riservare un tavolo potrebbe avere il privilegio di assaggiare, a seconda della stagione, uova di lompo marinate o amazake di mele cotogne e caramello di ostriche dal menu Ocean, aragosta nera grigliata con rose durante l’estate, ma anche muschio ricoperto di cioccolato, terra di malto e nocciole o formiche vive, speziate con citronella e coriandolo. I diversi percorsi di degustazione durano svariate ore e hanno un costo di circa cinquecento euro.

Già nel 2011 il magazine Eater ironizzava sulla quantità imbarazzante di reportage pubblicati su testate internazionali, che raccontavano l’esperienza mitologica di foraggiare insieme a Redzepi in persona. Sono passati parecchi anni da allora e forse la sua onnipresenza è persino aumentata: Apple TV ha appena prodotto Omnivore, una docu-serie di otto puntate di cui Redzepi è creatore, protagonista e narratore. Se oggi il foraging è una pratica diffusa e un trend di successo, in buona parte è dovuto al fascino delle sue gesta campestri.

Il workshop al quale mi ero iscritto si è tenuto, durante un bel giorno di primavera al Parco della Caffarella, il polmone verde di Roma popolato da conigli insaziabili e stormi di parrocchetti. L’età media si aggirava intorno ai quarant’anni, ma c’erano anche un paio di ventenni. Grande sfoggio di Salomon colorate e smanicati Patagonia. Ero in target. Soltanto la nostra guida sembrava aver superato la sessantina e, a differenza del gruppo che lo ha ascoltato religiosamente durante il percorso, si rifaceva a un’estetica che si potrebbe definire Giorgionecore.

La prima cosa che ho appreso è che il foraging è il modo cool per parlare di alimurgia, un termine medico che risale al Diciottesimo secolo, con il quale venivano catalogati i prodotti selvatici edibili. Una scienza del sostentamento utile in tempi di guerra e carestia. Quando si parla di alimurgia, o di foraging, non si parla soltanto di erbe spontanee, funghi, bacche o fiori. Si parla anche di licheni, cortecce, radici, tuberi, resine, alghe, semi, si parla di essiccazione, lattofermentazione, cosmetica, salamoia, tinture e di un milione di altre cose di cui non mi fingerò in alcun modo esperto. La nostra guida sosteneva che il foraging fosse una pratica con millenni di storia che tornerà utile per sopravvivere nel futuro. Nella mia testa questo suonava minaccioso più o meno come «non so come sarà combattuta la Terza guerra mondiale, ma posso dirvi che la Quarta sarà combattuta con le pietre».

A ogni modo, dopo svariate ore di nozioni e ricerche tra vegetazione, escrementi e qualche rifiuto di plastica, il bottino è stato ricco. Sono tornato a casa con un mucchietto di fiori di sambuco, buoni fritti in pastella, foglie di bardana, gustosa e disintossicante, borragine, fonte di vitamina C, qualche filo di cicoria fresca e boccioli di tarassaco per una deliziosa frittata. Non ho mangiato niente di tutto ciò per paura di morire avvelenato tra atroci sofferenze.

(©Edoardo Vitale, 2024)