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  • Martedì 15 ottobre 2024

Come mai si parla di sicurezza a Mestre

Dopo l'omicidio di Giacomo Gobbato, nella città sulla terraferma veneziana c'è dibattito sull'approccio da tenere: repressione, assistenza alle persone “ai margini” o prevenzione

di Laura Fasani

Un palazzo residenziale nel centro di Mestre (il Post)
Un palazzo residenziale nel centro di Mestre (il Post)

Più di venti giorni dopo la morte di Giacomo Gobbato, per tutti Jack, Sebastiano Bergamaschi dice che il modo migliore per ricordarlo è impegnarsi e cambiare le cose «in fretta, perché tantissime parti della città ne hanno bisogno». Bergamaschi è un attivista del centro sociale Rivolta di Marghera, ha 25 anni ed era amico di Gobbato, il ragazzo morto accoltellato la sera del 20 settembre a Mestre, la città sulla terraferma nel comune di Venezia, congiunta a Venezia stessa dal ponte della Libertà.

Una foto dei fiori per Giacomo Gobbato

I mazzi di fiori per Giacomo Gobbato in corso del Popolo, a Mestre (il Post)

Bergamaschi e Gobbato stavano camminando quella sera in corso del Popolo, una delle vie centrali della città, quando hanno tentato di fermare un uomo che aveva appena rapinato una donna. L’uomo li ha aggrediti entrambi con un coltello: era un cittadino moldavo di 37 anni, incensurato, che è stato bloccato poco dopo da tre operai e arrestato dalla polizia. Attualmente si trova in carcere con le accuse di omicidio volontario, tentato omicidio, rapina aggravata e possesso di arma atta a offendere. 

Nel punto dove Gobbato e Bergamaschi sono stati aggrediti, lungo le reti del liceo artistico Michelangelo Guggenheim, sono stati appesi tre striscioni e molti mazzi di fiori. In alto tra le rose è infilata una foto di Gobbato.

Camminando per corso del Popolo, Bergamaschi dice che le persone a Mestre sono ormai esasperate, perché è vero che ci sono fenomeni sociali che peggiorano la qualità della vita dei residenti: «Non serve però continuare a soffiare sul malessere», aggiunge. La manifestazione organizzata il 28 settembre in memoria di Gobbato dal coordinamento Riprendiamoci la città è una riprova, secondo lui, di un desiderio di cambiamento. Le persone scese a manifestare «erano anche residenti comuni, non appartenenti a collettivi o associazioni: hanno voluto così condividere le loro paure, che sono state riconosciute. La città sta insomma dicendo che c’è una volontà di trovare soluzioni che vadano oltre un discorso di odio».

La morte di Gobbato ha rianimato a Mestre una vecchia discussione sui problemi relativi alla marginalità sociale e alla sicurezza, che spesso in Italia sono affrontati in termini di contrapposizione tra la richiesta di repressione e quella di tutela dei diritti.

Questo dibattito avviene in una città che negli ultimi anni è cambiata molto. Se un tempo infatti Mestre era principalmente una città industriale, nel tempo ha potenziato l’offerta di servizi dedicati al turismo, che però è concentrato sul centro storico di Venezia. Questo, secondo alcuni, ha contribuito ad aumentare la percezione di Mestre come di una periferia. I dati del ministero dell’Interno, pubblicati dal Sole 24 Ore, collocano la provincia di Venezia nona in Italia per numero di reati denunciati ogni 100mila abitanti nel 2023. Intervistato da La Nuova, il questore di Venezia Gaetano Bonaccorso ha parlato in particolare di reati come spaccio, rapine e scippi. Bonaccorso ha ammesso che ci sono «situazioni critiche» a Mestre, in certi casi note da tempo.

«Da ben prima dell’omicidio di Giacomo ci sono varie zone in città che sono terra di nessuno. Da tempo diversi quartieri si confrontano quotidianamente con spaccio, tossicodipendenza e persone senza fissa dimora», dice Nicola Ianuale, tra i referenti del “Gruppo di lavoro via Piave”, che venne creato nel 2007 su iniziativa del comune di Venezia e poi si costituì come associazione indipendente di volontari nel 2014.

Sebastiano Bergamaschi in corso del Popolo, a Mestre (il Post)

Via Piave è una delle vie più complicate. Negli anni ci sono state profonde trasformazioni sociali, con l’arrivo di molte persone di origini straniere che l’hanno fatta diventare una delle vie più multiculturali della città. È una lunga strada che inizia dal viale della Stazione e prosegue fino alla circonvallazione che costeggia il centro di Mestre. Oltre a panetterie, una farmacia, una macelleria e diversi centri di assistenza fiscale per stranieri, si trovano ristoranti in cui si può mangiare cinese, africano e greco. 

Con le due strade parallele via Dante e via Cappuccina, andando verso corso del Popolo, via Piave forma una delle aree cui spesso ci si riferisce quando si parla di spaccio e di crimini come furti e scippi, ma anche per la presenza piuttosto costante di persone senzatetto. È una zona più residenziale, visibilmente diversa dal viale della Stazione, dove negli ultimi anni sono stati costruiti hotel e ricavati alloggi per turisti che soggiornano a Mestre e vanno poi a visitare il centro storico di Venezia. 

I residenti intervistati dal Post hanno impressioni diverse tra loro del quartiere in cui abitano. «Qui vivono anche molti studenti universitari, perché gli affitti sono meno cari. Ogni tanto mi capita di assistere a scene spiacevoli, con persone che si fanno di eroina alla fermata del tram», racconta Letizia, 25 anni. «Non penso però che le ronde militari siano la soluzione, servirebbe un’azione sociale più a lungo termine», aggiunge. Per Ernesto, titolare di un bar affacciato sui giardini di via Piave, la situazione è invece molto migliorata rispetto a un anno fa grazie a numerosi interventi delle forze dell’ordine: «Il problema è che molti sono stati temporanei, perché diversi spacciatori che vedevo sempre qui fuori si sono semplicemente trasferiti nella vicina via Cappuccina e in corso del Popolo».

Colpiti dall’omicidio di Giacomo Gobbato, alcuni residenti di Mestre si dicono più preoccupati di prima per la propria incolumità. È il caso di Rossana, che abita in piazza Barche, a ridosso della principale piazza Ferretto, alla fine di corso del Popolo. «Fino a poco tempo fa ero molto più tranquilla a girare nella mia zona, adesso mi guardo attorno di più. Ma è chiaro che gli ultimi avvenimenti hanno amplificato le paure», dice. Rossana racconta di aver visto varie risse e di incontrare «tantissimi senzatetto, specie nei paraggi di via Carducci», dove possono ripararsi sotto i portici di piazzale Donatori di sangue. «Non ho però in effetti mai avuto problemi».

Rispetto a via Piave, corso del Popolo è una strada più ampia e trafficata: è un lungo viale alberato, che dal cavalcavia ferroviario arriva fino alla zona pedonale di Mestre. Sotto i portici del corso ci sono bar, pizzerie, tabaccherie, supermercati, banche e gli ingressi di palazzi residenziali. Oltre al liceo Guggenheim, c’è anche l’istituto di istruzione superiore G. Bruno-R. Franchetti che ospita licei di diverso indirizzo. È insomma una strada fondamentale per la vita della città.

La sede del Gruppo di lavoro di via Piave, a Mestre (il Post)

Negli anni in questa zona sono nati spontaneamente diversi comitati per creare spazi di incontro tra i residenti, le comunità di origini straniere e le persone cosiddette “ai margini”. Sono luoghi diversi dalle strutture di assistenza del comune, come mense, centri diurni e il dormitorio. In via Piave, per esempio, i volontari del gruppo di lavoro propongono laboratori e incontri, mostre d’arte e fotografia, presentazioni di libri, corsi di lingua italiana gratuiti per gli stranieri.

«Di fronte a grandi cambiamenti per la città per noi è sempre stato importante partire da un processo di conoscenza e collaborare, invece che tirare su muri», spiega Nicola Ianuale, del “Gruppo di lavoro via Piave”. «Oggi qui ci sono persone non intercettate dai servizi sociali, che vagano senza una meta e senza lavoro. È chiaro però che limitarsi a potenziare l’intervento delle forze dell’ordine non basta, serve un welfare territoriale». 

Oltre al gruppo di lavoro di via Piave, altri progetti hanno trovato una sede negli spazi vuoti sotti i portici della strada: nel giro di pochi metri si incontrano la portineria di quartiere, l’associazione Viva Piraghetto, che si occupa della rigenerazione di un parco cittadino, il collettivo Tapu impegnato su arte e disabilità, e una scuola che propone corsi di lingua cinese e italiana. Dice Ianuale: «In questi ultimi anni abbiamo cominciato a confrontarci con altre associazioni perché in diverse parti della città c’erano gli stessi problemi. Quello che cerchiamo di fare è costruire una comunità partecipata in una società multietnica e complessa».

Un’altra zona difficile è la stazione dei treni, in particolare sul lato di Marghera, che a sua volta fa parte del comune di Venezia e si sviluppa in continuità con Mestre. Marghera ha una storia lunga e complessa, segnata da un forte sviluppo industriale nel dopoguerra: ha una parte residenziale e una vasta area piena di fabbriche, in parte dismesse, attorno al porto commerciale (dove dal 2021 attraccano anche le navi da crociera). 

Per arrivarci da Mestre a piedi si può attraversare il sottopasso della stazione verso via Ulloa oppure quello che inizia da via Dante, che passa sempre sotto i binari. Soprattutto il secondo è spesso usato come rifugio da persone senzatetto. Entrambi i punti sono presidiati per qualche ora al giorno, da lunedì alla domenica, da un furgoncino dei servizi sociali del comune di Venezia. È una delle iniziative comunali per affrontare le situazioni di marginalità sociale, e prevede due squadre composte da due operatori ciascuna per incontrare le persone su strada, offrire loro ascolto, aiutarle ad accedere ai servizi e fornire loro materiale sanitario. Vengono contattate così 40 persone al giorno, mediamente, secondo numeri forniti dall’assessorato alla Cultura. 

L'ingresso del sottopasso ferroviario della stazione di Mestre sul lato di Marghera, in via Ulloa (il Post)

Chi lavora nei servizi per le persone che usano sostanze parla di un massiccio uso di cocaina da parte di chi vive in strada, «perché ne gira di più e costa meno di una volta». Molti sono giovani tra i 24 e i 30 anni. La maggior parte di loro non ha la residenza a Mestre, racconta un operatore che preferisce rimanere anonimo, ma viene a Mestre per via dell’alto flusso di persone che utilizzano la stazione ferroviaria. Mestre è infatti uno snodo strategico per i collegamenti ferroviari nel nord-est d'Italia, e per questo motivo la stazione viene usata anche per lo spaccio.

Ma l’accesso ad alcuni servizi che prendono in carico queste persone sul medio-lungo periodo (come il SerD, cioè il servizio per le dipendenze patologiche) è difficile, perché la competenza è territoriale.

Secondo il dipartimento per le dipendenze dell’azienda sanitaria pubblica di Venezia (ULS S3), nel primo semestre del 2024 sono state seguite 1.864 persone per tossicodipendenza. Nello stesso periodo nel 2023 erano complessivamente 2.147. «Le variazioni annuali comunque non dicono molto perché tanti al SerD non arrivano mai. Sono fenomeni sociali giganteschi, di cui non si può scaricare la responsabilità solo su qualcuno. Ma di sicuro fare leva sulle preoccupazioni per la sicurezza e sullo stigma sociale non aiuta nessuno», dice l’operatore. 

Il riferimento è alle parole usate dal sindaco di Venezia Luigi Brugnaro dopo l’omicidio di Gobbato. Brugnaro, che guida una giunta di centrodestra ed è quasi alla fine del secondo mandato, ha molto insistito sulla necessità di aumentare i presidi delle forze dell’ordine in alcune aree di Mestre. Lunedì a Roma ha poi chiesto al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi di poter ricorrere anche a un reggimento dell'esercito, i lagunari “Serenissima”, per i controlli su strada come strumento di deterrenza. Le associazioni e i comitati attivi nelle zone più complicate della terraferma veneziana sono convinti che l’amministrazione comunale di Venezia stia affrontando i problemi della città con un approccio sbagliato, improntato alla repressione più che alle politiche sociali. Lo hanno ribadito anche alla manifestazione organizzata il 28 settembre, a cui hanno partecipato circa diecimila persone.

L'assessore alla Coesione sociale Simone Venturini contesta chi accusa il comune di aver tagliato gli investimenti nel sociale. Dice che rispetto al 2014 la spesa complessiva per il sociale nel 2024 è aumentata di circa 20 milioni di euro (da 42.578.755 euro a 61.659.891 euro). Con queste risorse è stato aumentato il numero di assistenti sociali, psicologi e personale amministrativo, sono stati introdotti nuovi programmi di assistenza su strada e, fra le altre cose, è stata riqualificata la Casa dell’ospitalità, un centro di accoglienza che offre 75 posti letto. Gianfranco Bettin, consigliere comunale nella lista Verde Progressista, dice però che il calcolo dell'assessore è fuorviante, perché compara la spesa di oggi soltanto a uno dei quattro assessorati che all'epoca si dividevano la totalità delle risorse per il sociale. «Certo, questa amministrazione ha investito un po' nei dormitori e nei servizi su strada, ma rispetto alla crisi di questi anni è uno sforzo insufficiente», dice Bettin. «Inoltre, è stata completamente disertata la parte di prevenzione, a favore della repressione o di un po' di assistenza». 

Quanto agli episodi di spaccio e furti come quelli frequenti nella zona di via Piave, Venturini sostiene che disagio sociale e microcriminalità siano due cose distinte, e che il fenomeno riguardi tutta Italia e non solo Mestre. Bettin ritiene invece che la marginalità e i reati più ricorrenti si inseriscano in un quadro di impoverimento medio della città, cominciato con la crisi di Porto Marghera più di vent'anni fa. Secondo lui, oggi si dovrebbe integrare un intervento repressivo con una solida gestione delle situazioni sociosanitarie più a rischio, investendo di più in dormitori o strutture facilmente accessibili e negli operatori su strada.

Locandine dei giornali locali La Nuova e il Gazzettino, a Marghera (il Post)

Anche per il comitato ViviAmo Marghera quanto fatto finora dal comune non è sufficiente. Valentina La Gorga, attivista, ritiene che manchi una visione che non sia schiacciata solamente sui progetti di assistenza e sugli interventi delle forze dell’ordine. «Spesso le persone con tossicodipendenza vengono viste come criminali, ma non è necessariamente così. È ovvio che dà fastidio trovare siringhe usate o escrementi umani sul marciapiede, ma occorrerebbe concentrarsi su politiche di prevenzione, che in questa città sono carenti», dice.

Per capire meglio i bisogni delle persone che vivono su strada e fanno uso di sostanze, e le paure dei residenti, nell’estate del 2023 ViviAmo Marghera ha diffuso due questionari ai quali complessivamente hanno risposto più di 500 persone. L’indagine non ha una valenza scientifica ma ha offerto alcuni spunti interessanti. Per esempio, su 397 residenti di via Piave intervistati, l'89,1 per cento riconduce il senso di insicurezza che prova nel proprio quartiere a episodi di spaccio e consumo di sostanze; per oltre il 70 per cento del campione il primo tra gli interventi auspicati per migliorare le condizioni generali è la realizzazione di «politiche sociali innovative e idonee ai bisogni delle persone», prima ancora dei controlli delle forze dell’ordine.

«Queste risposte si incrociano con quelle delle persone che fanno uso di sostanze, che indicano come necessità principali avere una casa e rientrare in un servizio che permetta loro di lavorare a cottimo [cioè con un compenso commisurato alla quantità di lavoro prodotto invece che sulla durata della prestazione lavorativa, ndr]», spiega La Gorga. Il lavoro a cottimo permetterebbe a chi ha dipendenze da sostanze di lavorare in modo più flessibile, «sulla base di un patto con gli operatori che considera anche quanto tempo una persona se la sente di stare nell'ambiente di lavoro». L'idea è che un lavoro impostato in questo modo possa incentivare di più una persona con tossicodipendenza, che altrimenti farebbe fatica a gestire una giornata lavorativa di otto ore.

Sulla base dell'indagine il comitato ha avviato una petizione per chiedere al comune di realizzare una casa di accoglienza per senzatetto e persone con tossicodipendenze, e di ideare per loro un progetto di reinserimento lavorativo e sociale.

Il tema della casa ricorre nei discorsi dei residenti sentiti dal Post. Tutti segnalano in varie zone della terraferma la presenza di edifici abbandonati, come le case popolari dietro via Piave, a Mestre, e i capannoni dismessi in via della Pila, a Marghera. Alcuni di questi sono parte di un progetto di riqualificazione del comune di Venezia e sono stati sgomberati di nuovo di recente.

Laura Fregolent insegna Tecnica e pianificazione urbanistica all’università IUAV di Venezia, e pensa che la priorità per Mestre sia la qualità degli spazi pubblici e privati vissuti dagli abitanti. «Grazie a politiche urbanistiche di qualche decennio fa, che hanno investito sullo spazio pubblico, Mestre è un luogo molto vivibile. Oggi però, oltre a dinamiche di spopolamento e calo demografico, Mestre vive una trasformazione turistica molto in funzione del centro storico di Venezia. Al confronto, le azioni a favore dei residenti sono state molto contenute e in tempi più recenti ci sono anzi stati progetti che hanno segnato negativamente la città», dice. Prendersi cura degli spazi urbani non è l'unica soluzione, ma può contribuire a prevenire il disagio sociale e creare un circolo virtuoso in presenza di politiche pubbliche adeguate.

Secondo Fregolent è emblematico il caso dell'area dell'ex ospedale Umberto I, chiuso nel 2008 e parzialmente demolito nel 2009. Da allora quell'area, di 40mila metri quadrati, è stata usata perlopiù come parcheggio e nel 2021 una parte dei locali era stata brevemente occupata da un gruppo di attivisti. I lavori di recupero dovrebbero iniziare a gennaio 2025, ma a lungo lo stato di abbandono dell'area e lo stallo della riprogettazione hanno avuto conseguenze negative sul centro della città, secondo Fregolent, creando una specie di «buco nero» che ha attirato persone ai margini. «L'urbanistica non è un piano a sé stante, ma si lega alle esigenze sociali di un posto. Una città è sana quando ci sono parchi per i bambini, case e strade che funzionano, ma anche luoghi di ritrovo».