Gli Uzeda fanno da sé
Storia della band catanese che, seppur sconosciuta a molti, in trent'anni è diventata un caso nella musica alternativa, e ora è raccontata in un documentario
di Giuseppe Luca Scaffidi
Nel 1991 il chitarrista Agostino Tilotta andò in una cabina telefonica del centro di Catania «con una busta piena di gettoni». Voleva contattare l’ingegnere del suono statunitense Steve Albini per chiedergli di lavorare al secondo disco degli Uzeda, la band che aveva fondato qualche anno prima insieme a sua moglie, la cantante Giovanna Cacciola, e ad altri tre musicisti catanesi: il bassista Raffaele Gulisano, il batterista Davide Oliveri e un altro chitarrista, Giovanni Nicosia.
Le monete «pesavano tantissimo, ma volevo essere sicuro di avere il tempo necessario per chiedergli tutto ciò di cui avevamo bisogno», racconta. Tilotta aveva ottenuto quel numero dal batterista statunitense Scott Giampino, che in quel periodo lavorava per la Touch and Go Records, un’etichetta con cui Albini collaborava assiduamente.
Albini aveva 29 anni, ma era già una figura influentissima dell’industria musicale. Aveva lavorato a dischi seminali come Surfer Rosa dei Pixies e Pod delle Breeders, e si era fatto conoscere nell’ambiente per le sue competenze tecniche e ingegneristiche e per la sua ferrea etica proletaria: le tariffe del suo studio, l’Electrical Audio di Chicago, erano estremamente basse, e a differenza della stragrande maggioranza dei produttori del tempo, rifiutava di chiedere percentuali sulle vendite dei dischi. «Pensavamo che fosse la persona giusta, e che potesse aiutarci a registrare la resa che avevamo quando suonavamo dal vivo», ricorda Tilotta.
Ai tempi infatti le etichette discografiche tendevano a dare un’ampia discrezionalità ai produttori di dischi, incentivandoli a ottenere dalle band canzoni e suoni che fossero il più commerciali possibili. La filosofia di Albini era opposta: interferiva il meno possibile nelle registrazioni per provare a catturare il vero suono delle band, quello dei concerti, e quando possibile tendeva a dare risalto anche agli errori che i musicisti compivano in studio, che a suo dire rendevano la resa finale più autentica.
Alla fine portarsi dietro tutti quei gettoni fu inutile: la telefonata durò pochissimo, anche perché Albini era «una persona estremamente pragmatica». «Mi chiese di inviargli una cassetta per fargli ascoltare qualcosa. Gliela spedii e, dopo una decina di giorni, lo richiamai dalla stessa cabina telefonica per chiedergli cosa ne pensasse». La sua risposta fu telegrafica: «“yes, we can do it”».
Quando Tilotta gli chiese se lui e gli altri componenti degli Uzeda dovessero raggiungerlo a Chicago, Albini lo spiazzò: «si rifiutò. Ci disse che un viaggio per cinque persone sarebbe stato eccessivamente costoso per noi, e così decise di prendere un volo e raggiungerci a Catania. Eravamo increduli: fu un gesto di una generosità difficile da descrivere». Quella telefonata fu l’inizio di «un rapporto di amicizia quasi fraterno»: da qual momento in poi, Albini registrò tutti i dischi degli Uzeda, da Waters (1993) a Quocumque jeceris stabit (2019).
Il legame tra la band e il produttore è stato recentemente raccontato in Uzeda – Do It Yourself, documentario diretto dalla regista catanese Maria Arena e distribuito in questi giorni in varie città per proiezioni singole. Uzeda – Do It Yourself è stato girato prima della morte di Albini, avvenuta lo scorso maggio per via di un infarto: mostra diversi momenti di interazione che il produttore e la band ebbero durante la registrazione dell’ultimo disco degli Uzeda, Quocumque jeceris stabit, pubblicato nel 2019.
Oltre a focalizzarsi sull’amicizia con Albini, il documentario ripercorre la carriera di un gruppo pressoché sconosciuto al grande pubblico ma che ha acquisito uno status di un certo rilievo nel circuito internazionale della musica indipendente, diventando rispettato e amatissimo non soltanto per la qualità della musica prodotta, ma anche per il modo in cui ha contribuito a diffondere un certo modo di fare e di intendere la musica alternativa.
Anche se in Italia godono di un estesissimo affetto da parte di una nicchia di ascoltatori molto fedele, durante la loro carriera gli Uzeda hanno ottenuto i maggiori riconoscimenti soprattutto all’estero, e in particolare in Inghilterra e negli Stati Uniti.
Sono una delle tre band italiane (insieme alla PFM e ai Northpole) a essere state invitate per registrare le cosiddette Peel Sessions, i brevi concerti organizzati da John Peel, leggendario conduttore radiofonico dell’emittente britannica BBC, e furono il primo gruppo non statunitense a firmare un contratto con la Touch and Go Records, un’etichetta indipendente di Chicago che tra gli anni Ottanta e Novanta pubblicò dischi di gruppi come Big Black, Slint, Jesus Lizard, Rapeman e Urge Overkill, contribuendo allo sviluppo di generi come il post-punk, il post-hardcore, il noise, il math rock, il doom metal, l’industrial e altri ancora.
La collaborazione con la Touch and Go permise agli Uzeda di accumulare una certa esperienza nella scena della musica alternativa e indipendente americana, stabilendo una rete di contatti con band (e in particolare con gli Shellac, il gruppo di Albini), produttori e gestori di locali inimmaginabile per gli altri gruppi italiani del tempo. Portarono un po’ di quella esperienza anche nella loro città natale: il massimo esempio fu probabilmente il concerto che i Fugazi, una delle band punk hardcore statunitensi più influenti di sempre, tennero a Catania il 18 giugno del 1995 davanti a più di 8mila persone, e che potè essere organizzato anche grazie alla mediazione degli Uzeda.
La storia degli Uzeda cominciò nel 1987, quando Tilotta, Cacciola e Gulisano sciolsero il loro precedente gruppo e ne formarono uno nuovo con Oliveri. Alla band si aggiunse poi anche Nicosia (che ne avrebbe fatto parte fino al 1995). Decisero di chiamarsi come uno dei simboli architettonici della loro città: la porta che collega piazza Duomo a via Dusmet, nel centro di Catania. Nonostante il nome estremamente autoctono, gli Uzeda si distinsero fin da subito per una proposta irrituale per il panorama musicale del tempo: scrivevano tutti i testi in inglese e, nella loro prima fase, suonavano un rock contaminato dai generi che avevano dominato la musica britannica degli anni Novanta, dal post-punk alla new wave.
Queste influenze furono particolarmente evidenti in Out of Colours, il primo disco della band, che pur fornendo qualche indicazione del suono che avrebbero perfezionato negli anni successivi era ancora un disco acerbo. All’inizio avrebbe dovuto essere soltanto una demo (una versione abbozzata e provvisoria dell’album, registrata su una cassetta), ma l’etichetta romana A.V. Arts decise di farne un disco. «Eravamo ancora un po’ acerbi, il nostro suono non era definito e vivevamo quelle sessioni di registrazione come una fase di studio e sperimentazione», dice Cacciola.
Già dopo l’uscita di Out of Colours, alcune riviste di settore cominciarono a domandarsi perché gli Uzeda scrivessero canzoni in inglese. «Ci accusavano di essere un po’ esterofili, ma in realtà scrivere in inglese mi è sempre venuto naturale: è una lingua che amo e che ho studiato moltissimo, ed è quella che parlano le mie cantanti preferite. Peraltro, rispetto all’italiano l’ho sempre trovata più malleabile e comoda da adattare ai riff di chitarra di Agostino [Tilotta]».
Dopo l’incontro con Albini la loro musica cambiò e diventò più cacofonica, cupa e distorta. Tilotta racconta che gli Uzeda «cominciarono a pensare a qualcosa di nuovo già durante il lunghissimo tour europeo che seguì l’uscita di Out of Colours. Ci muovevamo su un furgone che ci aveva messo a disposizione il nostro primo produttore, Massimo Rendo», dice. «Suonando in giro venivamo a contatto con altri gruppi, facevamo amicizia con loro, familiarizzavamo con nuovi suoni e durante i soundcheck improvvisavamo riff di chitarra e giri di basso. Registravamo tutto su cassetta, e durante gli spostamenti tra un locale e l’altro Giovanna [Cacciola] si lasciava ispirare dalla musica per scrivere i testi».
Questo processo culminò in Waters, il secondo disco degli Uzeda e il primo registrato da Albini, che ebbe un ruolo fondamentale. «Il modo in cui molte persone pensano di produrre un disco è quello di aiutarti con gli arrangiamenti o suonare strumenti. Lui non fa niente di tutto questo: ci fece suonare ciò che volevamo, senza dire nulla. Si limitava a posizionare microfoni e strumenti in particolari punti della stanza per catturare il riverbero nel modo migliore: aveva una conoscenza tecnica spaventosa», ricorda Cacciola.
Waters fu molto apprezzato dalla critica del tempo, che cominciò a inquadrare gli Uzeda nel cosiddetto noise, un’etichetta piuttosto lasca sotto la quale vennero riuniti diversi gruppi rock statunitensi degli anni Ottanta caratterizzati da un approccio sperimentale, come Dinosaur Jr., Scratch Acid, Jesus Lizard e Sonic Youth.
Gli Uzeda però non hanno mai amato le categorizzazioni delle riviste di settore: «Non lo facevamo perché ci sentivamo influenzati da qualcosa, ma perché ritenevamo che quella musica fosse la più adatta a descrivere ciò che vivevamo», dice Tilotta. Sul punto concorda anche Cacciola, che descrive la musica degli Uzeda come un qualcosa in grado di restituire i suoni tipici della città in cui sono cresciuti: «Catania è rumorosissima, piena di vita sia di giorno che di notte: i momenti di silenzio sono molto rari, e in un posto del genere è difficile non lasciarsi ispirare da questo rumore incessante. Al di là di tutta la musica che amavamo ascoltare, i suoni della città sono stati la nostra vera influenza».
Parlando delle prime fasi della sua carriera, Cacciola racconta che la scelta di formare la band non fu «impulsiva, ma estremamente ponderata e consapevole: quando iniziammo nel 1987, io e Agostino avevamo più di trent’anni e avevamo già un figlio». Anche per questo motivo, continua, «il nostro percorso è sempre stato caratterizzato da un certo realismo: non abbiamo mai pensato che la musica dovesse mantenerci, ma che dovessimo essere noi a mantenere la musica, senza aspettarci nulla».
A questo proposito, Tilotta dice che la nascita degli Uzeda fu il risultato di una «precisa scelta di campo». «Non abbiamo mai permesso che la nostra musica potesse essere minacciata dall’aspetto della sopravvivenza, e infatti suonare non è stata mai la nostra occupazione principale: Giovanna e io abbiamo fatto tantissimi lavori, Raffaele [Gulisano] fa l’insegnante alle scuole superiori, Davide [Oliveri] costruisce e vende casse acustiche. Emanciparci da questi bisogni e slegare la musica da ogni aspettativa economica ha giovato al nostro percorso, e ci ha permesso di fare le cose con un certo grado di libertà».
In più di trent’anni di attività, gli Uzeda si sono presentati sempre con la stessa immagine: quella di una band fuori dal tempo e in un certo senso “incorruttibile”. Non hanno mai espresso particolari insofferenze per non essere riusciti a raggiungere il grande pubblico, e i loro fan li considerano tra i massimi esponenti di un’etica profondamente legata ai principi fondativi della filosofia punk e Do It Yourself, che prevedevano non solo di prodursi i dischi da sé e di distribuirli attraverso etichette indipendenti, ma spesso anche di organizzarsi da soli i tour, girando gli Stati Uniti con un furgone e dormendo dove capitava.
Un’etica ben riassunta da una frase che Albini pronuncia in una scena del documentario: «Gli Uzeda hanno decenni di esperienza nella scena indipendente. E se fai parte della scena indipendente, quando il business delle case discografiche collassa o cambia, come è successo negli ultimi anni, non hai paura di niente».
– Leggi anche: 40 anni fa erano giorni importanti per la musica alternativa statunitense