La “guerra delle cole”
Cominciata negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, ha avuto di recente un grosso sviluppo e verrà raccontata in un film
La storia della Coca-Cola, l’azienda di bibite più famosa e di maggior valore commerciale al mondo, è sempre stata una storia di concorrenza. Anche quando fu inventata, alla fine dell’Ottocento, la bevanda che diede poi il nome all’azienda emerse in un contesto di affannosa ricerca di cure popolari, all’epoca molto pubblicizzate sulla stampa. La rivalità con altre aziende, in particolare con Pepsi, acquisì poi nel Novecento proporzioni tali da rendere familiare e in una qualche misura appropriata, sul piano del marketing, l’espressione “guerra delle cole”. Questa rivalità è stato annunciato che sarà oggetto, tra le altre cose, di un prossimo film prodotto da Steven Spielberg e diretto da Judd Apatow.
A giugno, in uno degli sviluppi più recenti della guerra delle cole, ha avuto una certa risonanza negli Stati Uniti la notizia che la seconda bibita gassata analcolica più venduta nel paese nel 2023 non è stata la Pepsi, ma la Dr Pepper, la bibita principale di un’altra storica concorrente di Coca-Cola. Nei precedenti quattro decenni la Pepsi aveva occupato la seconda posizione quasi ininterrottamente dietro la Coca-Cola, che nel 2023 ha occupato il 19,18 per cento del mercato delle vendite, contro l’8,34 della Dr Pepper e l’8,31 della Pepsi.
Pochi giorni dopo la pubblicazione dei dati sulle vendite del 2023, forniti dalla rivista di settore Beverage Digest, il direttore del marketing di Pepsi Todd Kaplan ha lasciato la società dopo 17 anni. Kaplan era stato, tra le altre cose, uno dei supervisori del progetto di rebranding del logo di Pepsi nel 2023. Ma sul sorpasso della Dr Pepper nelle vendite, secondo diversi analisti, potrebbe avere avuto un ruolo un certo successo recente tra le persone della generazione Z (quella che va dagli adolescenti ai trentenni), attratte dal gusto meno comune della Dr Pepper, che ultimamente utilizzano come base di certi miscugli popolari su TikTok, aggiungendo sottaceti o altri ingredienti.
«Non c’è mai stato un momento migliore di questo per le bevande dal gusto insolito», ha scritto il sito statunitense Vox, facendo notare come sia la Coca-Cola che la Pepsi abbiano una quota di mercato leggermente inferiore rispetto al 2020. Il direttore di Beverage Digest Duane Stanford, descrivendo come «sbalorditiva» la quantità e varietà di bevande disponibili oggi sul mercato, ha detto a Vox che alla base della popolarità recente della Dr Pepper tra i giovani consumatori potrebbe esserci anche il solo fatto di essere di nicchia rispetto a Coca-Cola e Pepsi.
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Come altre bibite rimaste sul mercato e moltissime altre sparite nel frattempo, la Dr Pepper fu inventata negli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento, peraltro un po’ prima della Coca-Cola, in un periodo storico di grande fascinazione per le presunte proprietà curative e benefiche delle bevande a base di acqua gassata (o di soda). Studiata un secolo prima in Inghilterra dallo scienziato Joseph Priestley, l’acqua di soda era già ampiamente diffusa e utilizzata da tempo per ottenere limonate frizzanti, o per mescolarla con il vino. E dalla seconda metà dell’Ottocento negli Stati Uniti veniva mescolata anche con vari sciroppi aromatizzati alla frutta e servita attraverso enormi distributori refrigerati.
La Dr Pepper fu inventata nel 1885 a Waco, in Texas, in una farmacia: il posto in cui all’epoca era più probabile trovare un distributore di soda. Un giovane chimico, Charles Alderton, miscelò i suoi vari sciroppi dolci con l’obiettivo di ricreare un aroma che ricordasse l’odore della farmacia in cui lavorava come impiegato, secondo il racconto dell’azienda. L’origine del nome è meno chiara: secondo un vecchio aneddoto, ritenuto poco credibile, deriverebbe dal nome di un certo Charles Pepper, che il proprietario della farmacia dove lavorava Alderton aveva cercato di compiacere attribuendogli il nome di una nuova bevanda perché era innamorato della figlia.
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A inventare la Coca-Cola un anno dopo, ad Atlanta, fu un altro farmacista: John Pemberton, che come Alderton era un produttore esperto di pillole, sciroppi e altre medicine brevettate non convenzionali, molte delle quali contenevano grandi quantità di alcol, caffeina e altre sostanze. Negli ultimi decenni dell’Ottocento godevano di una certa popolarità, tra le altre cose, perché la promozione di questi medicinali costituiva per i giornali la principale fonte di introiti pubblicitari, come racconta il giornalista inglese Tom Standage nel libro Una storia del mondo in sei bicchieri.
Pemberton utilizzò un ingrediente noto da moltissimo tempo alle popolazioni sudamericane, la coca, che era peraltro già utilizzata in Francia da oltre due decenni per produrre una popolare bevanda a base di foglie di coca infuse nel vino (il Vin Mariani). Alla coca aggiunse estratto delle noci di cola, un’altra pianta di cui erano note le proprietà stimolanti. Il nome gli fu invece suggerito da un suo socio in affari, Frank Robinson, che realizzò anche la scritta del logo. Dopo la morte di Pemberton nel 1888, Robinson trattò poi la vendita dei diritti della bevanda ad Asa Candler, un altro produttore di medicine brevettate di Atlanta.
Oltre all’alcol, eliminato dalla ricetta dopo qualche tempo per rendere la bibita bevibile da un maggior numero di persone, la versione originale della Coca-Cola conteneva una piccola quantità di estratto di coca, e quindi una traccia di cocaina. Fu eliminata anche quella, nel 1901, quando la cocaina cominciò a essere percepita negativamente dall’opinione pubblica (ma altri estratti derivati dalle foglie di coca fanno parte della bevanda ancora oggi).
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Uno dei principali fattori del successo pressoché immediato della Coca-Cola, secondo Standage, è che inizialmente l’azienda vendeva soltanto la miscela di sciroppo a base di coca e cola, non il prodotto finito. Candler era infatti convinto che la conservazione della Coca-Cola in bottiglie – che all’epoca venivano chiuse con rudimentali guarnizioni di legno legate con un filo – ne avrebbe alterato il sapore. E questa convinzione semplificò indirettamente l’espansione in altre città e in altri stati, rendendo sufficiente concludere accordi con i proprietari delle spine e i farmacisti del luogo, in modo da spedire loro solo lo sciroppo, da mescolare alla soda, e il materiale pubblicitario.
Candler accettò infine la proposta di due imprenditori, Ben Franklin Thomas e Joseph Whitehead, di imbottigliare la Coca-Cola: contro le sue aspettative, e grazie anche all’introduzione di tappi metallici più pratici ed efficienti, l’accordo incrementò moltissimo le vendite fin dai primi anni del Novecento. Rese la distribuzione della Coca-Cola molto più capillare in ogni città e stato del paese, anche in luoghi privi di distributori di soda, dalle drogherie alle stazioni di rifornimento ai campi sportivi. La forma caratteristica delle bottiglie, introdotta nel 1915 e ispirata alla forma delle fave di cacao (peraltro assente tra gli ingredienti), rafforzò ulteriormente il franchising.
Negli anni Trenta tra le concorrenti della Coca-Cola Company la più agguerrita diventò la PepsiCo, che fin dal 1894 produceva un’altra bibita gassata a base di cola, inventata da Caleb Bradham, un farmacista di New Bern, in North Carolina, che aveva aggiunto tra gli ingredienti l’aroma di vaniglia. In origine la bibita si chiamava Brad’s Drink, poi Pepsi-Cola dal 1898, perché veniva pubblicizzata come cura per la dispepsia, cioè l’indigestione.
Durante la Grande Depressione l’azienda si era ripresa grazie alle abilità e alle intuizioni di Charles Guth, un imprenditore newyorkese che l’aveva acquistata dopo la bancarotta del 1923, aveva cambiato la formula dello sciroppo e aveva introdotto strategie di marketing molto aggressive, ancora oggi considerate un tratto distintivo di PepsiCo.
La rivalità tra la Coca-Cola e la Pepsi emerse sia in termini di concorrenza di mercato che come competizione culturale. La prima era associata a valori tradizionali e familiari, non solo perché diffusa da più tempo rispetto ad altre bibite gassate, ma anche perché aveva investito moltissimi soldi in pubblicità che mostravano scene di vita quotidiana o sfruttavano figure già presenti nell’immaginario collettivo, che Coca-Cola contribuì ulteriormente a diffondere. Tra tutte quella di Babbo Natale, protagonista di festosi manifesti pubblicitari della Coca-Cola fin dal 1931.
La PepsiCo riuscì ad affermarsi come antagonista della Coca-Cola Company adottando fin da subito strategie di marketing che richiamavano più o meno esplicitamente la Coca-Cola: una politica poi storicamente applicata anche da altre grandi aziende “numero due”, come Burger King, da sempre la seconda catena di fast food negli Stati Uniti dietro McDonald’s. Una delle prime e più proficue mosse di mercato suggerite da Guth, per esempio, fu vendere bottiglie di Pepsi da 12 once (circa 35 cl) allo stesso prezzo a cui la Coca-Cola vendeva quelle da 6 once. Era una scelta calcolata e relativamente sostenibile, dato che a pesare sui costi finali erano principalmente l’imbottigliamento e la distribuzione.
Per effetto della concorrenza tra Coca-Cola e Pepsi, che determinò peraltro una serie di contenziosi legali, la parola «cola» diventò familiare presso un pubblico sempre più ampio per indicare la tipica bevanda bruna gassata contenente caffeina. Fu un bene per entrambe le aziende, scrive Standage: «La presenza di una concorrente mantenne la Coca-Cola sempre all’erta, e la proposta di vendita della Pepsi-Cola, quella di offrire il doppio del prodotto allo stesso prezzo, fu possibile solo perché la Coca-Cola aveva già creato un mercato».
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La partecipazione degli Stati Uniti alla Seconda guerra mondiale fu per la Coca-Cola un’ulteriore opportunità di espandere oltre i confini nazionali la popolarità della bibita, già comunque venduta all’estero. Per volontà del suo presidente Robert Woodruff l’azienda rifornì milioni di soldati impegnati su diversi fronti: furono aperti in tutto il mondo almeno 64 impianti militari per l’imbottigliamento, e furono serviti almeno 10 miliardi di bibite, messe a disposizione anche dei civili vicino alle basi militari.
Alla fine della guerra uno dei più illustri e improbabili estimatori della Coca-Cola fu il generale sovietico Georgij Zukov, il più importante comandante dell’Armata Rossa, che l’aveva scoperta tramite un altro grande fan, il comandante delle forze Alleate Dwight D. Eisenhower. Non volendo essere associato a una bevanda considerata simbolo degli Stati Uniti nel mondo, Zukov chiese e ottenne dalla Coca-Cola Company – con il benestare del presidente statunitense Harry Truman – scorte private di Coca-Cola in una speciale versione incolore e in bottiglie etichettate con una stella rossa sovietica, in modo da farla sembrare vodka.
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Alla fine della Seconda guerra mondiale la Coca-Cola controllava circa il 60 per cento del mercato delle bevande gassate negli Stati Uniti, e nel 1950 un terzo dei suoi profitti arrivava da oltre i confini nazionali. Ma una crescente propaganda internazionale contro la «Coca-Colonizzazione» – un’espressione utilizzata inizialmente dalla sinistra francese – favorì indirettamente la Pepsi, che riuscì a espandersi in alcuni mercati del blocco sovietico e del medio Oriente in cui l’opposizione all’apertura di impianti di imbottigliamento della Coca-Cola proseguì invece per decenni.
In una delle pubblicità più famose e citate, uscita nel 1971, la Coca-Cola cercò di migliorare la sua reputazione di cola più famosa al mondo, indebolendo le passate associazioni al patriottismo e alla guerra. La pubblicità mostrava un gruppo di persone provenienti da ogni parte del mondo, che riunite su una collina cantavano in coro dicendo di voler «comprare una Coca-Cola al mondo».
Intanto, negli Stati Uniti, il successo di Pepsi nella seconda metà del Novecento fu favorito da strategie di marketing che si concentrarono su gruppi demografici a lungo trascurati da Coca-Cola e da altre grandi società, tradizionalmente più attente al mercato rappresentato dalla popolazione bianca. Ma fu trainato, in generale, da pubblicità di grande efficacia e da riferimenti più o meno costanti all’azienda concorrente.
La «Pepsi Challenge», una delle campagne pubblicitarie più ricordate e apprezzate, cominciata nel 1975 e proseguita per anni, rafforzò il ruolo di PepsiCo da principale rivale di Coca-Cola. La serie di pubblicità mostrava alcuni passanti selezionati a caso da una sorta di sperimentatore che chiedeva loro di assaggiare un bicchiere di Coca-Cola e uno di Pepsi in una degustazione alla cieca, e di indicare quale delle due bevande preferissero prima di scoprire le etichette. La maggior parte delle persone diceva di preferire la Pepsi, ovviamente.
Il risultato degli esperimenti mostrati nelle pubblicità della Pepsi – che non erano studi scientifici – fu in parte confermato in alcuni test alla cieca effettivamente condotti da Coca-Cola, che pur dominando il mercato decise di ampliare la propria offerta e migliorare alcuni suoi prodotti in commercio. Nel 1982 introdusse la Diet Coke, una versione dietetica della Coca-Cola, che andò molto bene nelle vendite ma a scapito della versione classica, e a vantaggio della Pepsi nella guerra delle cole tradizionali. Per effetto della concorrenza Coca-Cola controllava ormai nel 1984 solo il 22 per cento del mercato delle bevande gassate: oltre 30 punti percentuali in meno rispetto agli anni Cinquanta.
Il 23 aprile 1985, in quello che sarebbe poi diventato uno dei più raccontati casi di insuccesso nel mondo del marketing, Coca-Cola rimpiazzò quindi la versione classica con una nuova cola: la New Coke. Fu messa in vendita solo negli Stati Uniti e in Canada, mentre nel resto del mondo restò in commercio la versione con il vecchio gusto. Contraddicendo i risultati di test, sondaggi e focus group condotti fino a quel momento dall’azienda, le numerose proteste dei consumatori e le loro minacce di boicottare la New Coke indussero la Coca-Cola a rimettere in commercio la versione precedente, chiamata Coca-Cola Classic. Era l’11 luglio: appena 79 giorni dopo il lancio della New Coke (non più prodotta dal 2002).
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Nei decenni successivi la guerra delle cole continuò a essere combattuta principalmente attraverso una lunga serie di spot pubblicitari, molti dei quali trasmessi durante il Super Bowl (Pepsi fu sponsor dello spettacolo dell’intervallo nel 2007 e dal 2013 al 2022). Il messaggio consolidato attraverso le pubblicità era grosso modo lo stesso di sempre, ha scritto il Guardian: «la Coca-Cola dominava il Natale; la Pepsi lavorava con le pop-star», da Michael Jackson a Britney Spears, Beyoncé e Pink.
La progressiva diminuzione dell’influenza della televisione e il successo crescente dei servizi di streaming hanno avuto un impatto anche sulla guerra delle cole. In questo contesto di sostanziale duopolio, pur essendo un prodotto meno rilevante sul mercato, la Dr Pepper ha comunque tratto benefici da una posizione acquisita nel corso del Novecento, ha ricordato Vox. La Coca-Cola Company e la PepsiCo richiedevano di solito ai loro stabilimenti di imbottigliamento di firmare accordi in esclusiva, proibendo l’imbottigliamento per qualsiasi azienda di cola rivale. Lo stesso vale ancora oggi per alcune grandi catene di ristoranti e fast food in cui si vende o soltanto Coca-Cola (da McDonald’s, per esempio) o soltanto Pepsi (da Taco Bell negli Stati Uniti, ma anche in Italia per esempio nella catena milanese Spontini).
Una sentenza nel 1963 aveva tuttavia stabilito che la Dr Pepper non era una cola, perché non conteneva estratto delle noci di cola. E questo permise all’azienda di utilizzare gran parte dello stesso sistema di distribuzione che Coca-Cola Company e PepsiCo avevano creato. La Dr Pepper – che attualmente fa capo al gruppo Keurig Dr Pepper, che produce anche macchine per il caffè e bevande come 7Up e Schweppes – è quindi venduta normalmente in molti ristoranti in cui è possibile bere o Coca-Cola o Pepsi, ma non entrambe.
Anche PepsiCo ha intensificato negli ultimi anni la produzione di bevande diverse dalla cola, tra cui le bevande energetiche, e soprattutto quella di snack di cui è proprietaria: le patatine Lay’s, le Cheetos, i Doritos e decine di altri snack. Matthew Quint, direttore del Center on Global Brand Leadership, un centro di ricerca della Columbia Business School di New York, ha detto al Guardian che PepsiCo è l’unica grande azienda di bevande le cui bevande gassate rappresentano una quota minoritaria del fatturato: più della metà dei profitti deriva dagli snack.