Un cappello della Guardia di Finanza (Guido Calamosca/LaPresse)

L’evasione fiscale in Italia continua a diminuire

Gli ultimi dati del 2021 indicano che è stato raggiunto un obiettivo del PNRR con anticipo, anche se alcuni problemi rimangono

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A ottobre è stato pubblicato il consueto «rapporto sull’economia non osservata» del ministero dell’Economia, il riepilogo più completo su quanti soldi lo Stato perde ogni anno a causa dell’evasione fiscale. L’evasione è in calo pressoché costante da anni, e si misura tramite il cosiddetto tax gap, la differenza tra quanto si stima sarebbe dovuto al fisco dai contribuenti e quanto realmente viene versato. Gli ultimi dati sono relativi al 2021 e mostrano che anche in quell’anno l’evasione stimata si è ridotta rispetto al 2020, da 85 a 82 miliardi di euro: il totale superava i 100 miliardi fino al 2019. La propensione all’evasione, cioè la percentuale di imposta evasa sul totale dovuto, è scesa a sua volta dal 17 al 15 per cento.

Quando fu approvato il PNRR, il Piano nazionale di ripresa e resilienza finanziato con fondi europei, tra gli obiettivi delle riforme ne furono fissati alcuni anche per l’evasione fiscale, reputati allora assai ambiziosi: il tax gap avrebbe dovuto raggiungere il 15 per cento entro il 2024. A meno di una sorprendente inversione di tendenza, l’obiettivo risulterebbe dunque già raggiunto con anni di anticipo.

Su 82 miliardi di euro evasi, 72 sono relativi al mancato pagamento delle imposte (come l’IRPEF, l’IVA, e l’IRES) e 10 sono i contributi non pagati, quelli che servono per finanziare le pensioni e le prestazioni assistenziali come la malattia e il congedo parentale, tra gli altri.

Complessivamente il calo dall’anno precedente è stato del 3,8 per cento, e segue la tendenza degli anni passati: il gettito mancante si è ridotto di quasi 27 miliardi di euro rispetto al 2014. E nello stesso periodo anche la propensione all’evasione è scesa di 7,6 punti percentuali. Secondo il ministero dell’Economia il maggior contributo al calo tra il 2020 e il 2021 è arrivato da una minore evasione dell’IVA, l’imposta sul valore aggiunto che viene pagata dai consumatori su praticamente qualsiasi prodotto, e dell’imposta sugli affitti.

I miglioramenti degli ultimi anni sono il risultato di importanti misure innovative introdotte per ridurre l’evasione, come la fatturazione elettronica, obbligatoria da tempo per alcune categorie di lavoratori autonomi e per tutti solo da quest’anno, e lo split payment, un complicato meccanismo che, in poche parole, fa pagare direttamente l’IVA allo stato quando gli acquisti riguardano la pubblica amministrazione. Non tengono invece ancora conto del discusso obbligo per gli esercenti di accettare i pagamenti elettronici, introdotto dal 2022, e che probabilmente darà buoni risultati per l’emersione di somme altrimenti nascoste al fisco.

In ogni caso la riduzione dell’evasione diventerà sempre più graduale: più si riduce il tax gap più è difficile ridurlo ulteriormente, perché ci sarà bisogno di strumenti sempre più sofisticati per scovare le somme nascoste, strumenti che probabilmente daranno risultati comunque inferiori in termini assoluti.

Anche nel 2021 l’imposta più evasa è stata l’IRPEF dei lavoratori autonomi, l’imposta sul reddito dovuta da chi ha una partita IVA: nel 2021 gli autonomi hanno evaso oltre 29 miliardi di IRPEF, e il tax gap è stato del 66,8 per cento. Significa che allo Stato mancano due terzi dell’imposta dovuta. Al contrario il valore per i lavoratori dipendenti si ferma a 4 miliardi, il 2,3 per cento del gettito previsto: sono quelli che secondo le stime non vengono pagati da chi impiega lavoratori non regolarmente assunti. Per i lavoratori dipendenti in regola è praticamente impossibile evadere, dato che il datore di lavoro trattiene direttamente i soldi.

La seconda imposta più evasa in valore assoluto è l’IVA, con 17,8 miliardi mancanti al fisco, cioè il 13,8 per cento dell’imposta dovuta. Rispetto al 2020 il miglioramento è però ragguardevole: si è ridotta in termini assoluti di più di 4 miliardi, di quasi un quinto in un anno. E anche il tax gap è sceso di 5 punti percentuali. Nonostante questi buoni risultati l’Italia è ancora il primo tra i paesi europei per perdita di gettito IVA in valore assoluto, ed è responsabile di un quarto di tutta l’imposta evasa nell’Unione Europea. È invece quinta se si considera il tax gap in termini percentuali, cioè in proporzione a quanto sarebbe il gettito complessivo stimato.

Un’evasione dell’IRPEF e dell’IVA così alta è generalmente ricondotta alla cosiddetta evasione con consenso, cioè quell’accordo tra fornitore e cliente per non pagare l’imposta: in casi di questo tipo l’azienda o il professionista non emette fattura o scontrino, evitando così di pagarci l’IRPEF, e il cliente finale beneficia di uno sconto pari all’IVA che altrimenti avrebbe dovuto pagare.

Questo fenomeno è il più difficile da tracciare per le autorità fiscali, soprattutto in caso di piccole attività o di liberi professionisti. Al contrario le grandi aziende – come le catene di distribuzione, le multinazionali e le banche – sono di solito meno propense a evadere in questo modo, sia perché sono soggette a maggiori controlli sia perché l’emissione dello scontrino è utile soprattutto a loro come meccanismo di contabilità interna. Per intenderci, è molto più comune non ricevere lo scontrino in un bar che al supermercato. Nonostante questo spesso i politici di destra portano avanti una narrazione per cui sono le grandi multinazionali a non pagare quanto dovuto, come nel dibattito sulla possibilità di imporre una nuova tassa sui cosiddetti “extraprofitti” delle banche.

Quando si parla di evasione fiscale si sente spesso usare anche l’argomentazione della “necessità di evadere”, perché le imposte sarebbero troppo alte o perché i ricavi sarebbero troppo bassi: fu il caso per esempio della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, quando lo scorso anno durante un comizio paragonò il lavoro del fisco al «pizzo di Stato», associando la riscossione delle imposte al fenomeno mafioso dell’estorsione nei confronti di chi possiede un’attività. Meloni fu molto contestata per quel paragone, e il direttore dell’Agenzia delle Entrate Ernesto Maria Ruffini ricorda spesso nei suoi interventi che la maggior parte dell’evasione è causata da chi proprio non fa la dichiarazione, o dichiara di meno. È invece una quota ridotta quella dei contribuenti che dichiarano ma non riescono poi a pagare quanto dovuto.

Tra le imposte dove la propensione all’evasione è più alta ci sono anche quelle sulla casa, cioè l’IMU, l’imposta sui beni immobiliari, e la TARI, la tassa per il servizio di gestione dei rifiuti. In entrambi i casi sono tasse locali, che i residenti pagano ai comuni, i quali ogni anno non ricevono il 21,4 per cento di quanto dovuto, per un ammanco complessivo di oltre 5 miliardi di euro.

È un importo eccezionale se si pensa che è difficile nascondere al fisco di avere una casa, rispetto per esempio a redditi interamente percepiti in contanti. Eppure, dopo l’IRPEF degli autonomi, è l’evasione delle imposte sugli immobili quella che in termini percentuali ha una propensione all’evasione maggiore. Proprio in questi giorni il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha parlato della necessità di aumentare i controlli per la riscossione – soprattutto delle imposte relative alle cosiddette “case fantasma”, come quelle non presenti nei registri catastali o presenti con caratteristiche molto diverse dalla realtà – sia di aggiornare i valori catastali.

Tax gap dell’IMU per regione, in percentuale (Relazione sull’economia non osservata)

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