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  • Sabato 12 ottobre 2024

Il fallimento di Joe Biden con Benjamin Netanyahu

In un anno di guerra il presidente statunitense ha provato a influenzare in molti modi il primo ministro israeliano, senza quasi mai riuscirci

Joe Biden e Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca lo scorso 25 luglio (AP Photo/Susan Walsh)
Joe Biden e Benjamin Netanyahu alla Casa Bianca lo scorso 25 luglio (AP Photo/Susan Walsh)
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In questo anno di guerra nella Striscia di Gaza, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha chiesto molte volte e con forza crescente a Israele di interrompere le operazioni militari e porre fine alla guerra, e non è mai stato ascoltato. Ha cercato di imporre al governo israeliano un maggiore ingresso di aiuti umanitari per la popolazione della Striscia, ottenendo risultati limitati che non hanno migliorato nei fatti la situazione tragica dei civili palestinesi. Ha spinto in tutti i modi per raggiungere un accordo di pace, impegnando enormi sforzi diplomatici e mettendo in gioco la sua credibilità, inutilmente. La sua amministrazione ha tentato di impedire a Israele di estendere il conflitto al Libano e all’Iran, e non c’è riuscita.

Il fallimento della politica estera statunitense in Medio Oriente è dipeso soprattutto dall’incapacità dell’amministrazione Biden di influenzare il governo del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che in questi mesi ha sistematicamente eluso, ignorato o sabotato tutti i tentativi statunitensi di ottenere un cessate il fuoco e la fine del conflitto.

Questo potrebbe essere sorprendente per i molti che ritengono che gli Stati Uniti abbiano un’influenza eccezionale su Israele, il quale dipende dagli aiuti americani dal punto di vista militare e, in misura minore, economico. In realtà il rapporto tra Stati Uniti e Israele è molto più complesso e Netanyahu, nei suoi quasi vent’anni al potere, è spesso riuscito a manipolare a proprio vantaggio la politica statunitense, mettendo Repubblicani e Democratici gli uni contro gli altri.

Lo scarso successo della politica estera statunitense è dipeso anche dalle inclinazioni personali di Biden, un politico che è sempre stato vicino a Israele e che si è sempre definito «sionista» (nell’accezione di persona che sostiene il diritto di Israele a esistere e prosperare). Anche davanti alla catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza, e pur tra enormi dissidi con Netanyahu, l’atteggiamento favorevole di Biden verso Israele non ha mai consentito al presidente statunitense di attuare misure che avrebbero potuto mettere in discussione il rapporto tra i due paesi. Alla fine, il sostegno di Biden a Israele è quasi sempre rimasto incondizionato, e questo ha consentito a Netanyahu di approfittarsene.

Il racconto migliore delle difficoltà della politica estera statunitense davanti alla caparbietà di Israele è stato fatto a fine settembre dal giornalista dell’Atlantic Franklin Foer, che ha pubblicato un lungo articolo in cui, in mesi di lavoro, ha raccolto le opinioni di decine di diplomatici statunitensi anche di altissimo livello, e in cui ha ricostruito riunioni, conversazioni e strategie che hanno guidato gli avvenimenti in Medio Oriente nell’ultimo anno.

Un elemento notevole e inedito dell’articolo di Foer è che il giorno prima dell’attacco di Hamas contro Israele del 7 ottobre 2023, quello che ha dato inizio alla guerra, il responsabile dell’amministrazione Biden per il Medio Oriente, Brett McGurk, si trovava in Arabia Saudita a negoziare proprio a proposito della questione palestinese. L’amministrazione Biden stava progettando in quel periodo un grande accordo diplomatico di cui si vociferava ormai da anni, e che avrebbe dovuto cambiare in modo radicale la politica di tutto il Medio Oriente.

L’accordo prevedeva che l’Arabia Saudita, il più importante paese musulmano sunnita al mondo, riconoscesse formalmente Israele, cosa che avrebbe aperto la strada al riconoscimento di Israele da parte di molti altri paesi musulmani. In cambio, Israele avrebbe infine acconsentito alla creazione di uno stato per i palestinesi. Questo accordo era lontano dall’essere raggiunto, ma l’amministrazione Biden era molto fiduciosa: perfino Netanyahu sembrava favorevole alla prospettiva.

L’attacco del 7 ottobre ha distrutto la possibilità di un accordo, e sconvolto tutti i piani dell’amministrazione Biden.

Un altro elemento importante descritto da Foer è che, prima del 7 ottobre 2023, gli israeliani non avevano un piano militare per invadere Gaza, perché nell’ultimo decennio l’intelligence e l’esercito di Israele si erano concentrati soprattutto sulla minaccia rappresentata da Hezbollah in Libano e avevano di fatto trascurato la Striscia. Ne svilupparono uno rapidamente, prevedendo un ingente uso di forza militare e trascurando due elementi importanti: una formulazione chiara degli obiettivi da raggiungere e, soprattutto, una strategia per far finire la guerra e non trasformarla in un’occupazione prolungata della Striscia.

A un anno di distanza Israele non ha ancora una strategia per far finire la guerra, e questo è stato nel corso dei mesi uno dei maggiori punti di divisione con gli Stati Uniti: l’amministrazione Biden ha continuato a chiedere a Netanyahu rassicurazioni sul fatto che la guerra sarebbe finita presto, e il primo ministro israeliano ha continuato a eludere tutte le richieste. L’anno scorso per esempio Israele garantì agli Stati Uniti che la guerra sarebbe finita entro Natale del 2023, per poi spostare avanti la data di mese in mese.

Un uomo con una bandiera americana e una israeliana a Washington

Un uomo con una bandiera americana e una israeliana a Washington (Justin Sullivan/Getty Images)

Man mano che la guerra andava avanti l’amministrazione statunitense ha cercato di aumentare il livello della pressione: a maggio, per esempio, Biden disse in un’intervista che per lui l’invasione della città di Rafah nel sud della Striscia era una «linea rossa» che Israele non avrebbe dovuto oltrepassare. Ma Israele ha comunque invaso Rafah, e l’amministrazione Biden si è trovata costretta ad accampare giustificazioni un po’ azzardate per spiegare che Netanyahu non aveva davvero superato la linea rossa descritta dal presidente.

L’incapacità dell’amministrazione Biden di influenzare il governo israeliano si è mostrata anche nella gestione degli aiuti umanitari: per mesi gli Stati Uniti hanno chiesto a Israele di consentire l’ingresso nella Striscia di aiuti per la popolazione civile, incontrando sistematicamente l’opposizione israeliana. La frustrazione davanti al peggioramento della situazione umanitaria divenne tale che questa primavera gli Stati Uniti decisero di costruire davanti alle coste di Gaza un molo galleggiante per consegnare da soli gli aiuti, senza la collaborazione israeliana: fu però un totale fallimento.

Nel corso di quest’anno di guerra Biden e Netanyahu hanno avuto conversazioni durissime, e più volte il presidente statunitense ha sbattuto il telefono in faccia al primo ministro israeliano. Ma nonostante tutto l’amministrazione Biden non ha mai voluto correre il rischio di incrinare il rapporto con Israele, e alla fine ha sempre ritenuto prioritaria la difesa del suo alleato. Anche quando Israele ha allargato il conflitto, al Libano e all’Iran, gli Stati Uniti hanno finito per sostenerlo.

Le poche volte che Biden ha provato a mettere in atto delle tecniche di pressione più intense, Netanyahu è quasi sempre riuscito a disinnescarle. Per esempio, quando a maggio gli Stati Uniti hanno sospeso l’invio di un carico di armi a Israele, Netanyahu ha cominciato a condannare apertamente l’amministrazione Biden, sostenendo che stesse mettendo in pericolo la sicurezza di Israele. Il primo ministro ha invocato il sostegno del Partito Repubblicano statunitense (Biden è Democratico), che immediatamente l’ha invitato a tenere un discorso al Congresso: un modo per mantenere alta la pressione politica su Biden.

Ad agosto, l’amministrazione Biden ha approvato una nuova enorme vendita di armi a Israele, per il valore di 20 miliardi di dollari, che si vanno ad aggiungere ai 18 miliardi di armi già vendute.