C’erano anche i “dandy neri”
Per cui i vestiti eleganti erano un modo per ribaltare gli stereotipi molto razzisti dell'Ottocento, e a cui è dedicata la prossima mostra del Metropolitan Museum di New York
Martedì il Costume Institute, il dipartimento dedicato alla moda del Metropolitan Museum di New York, ha detto che la sua prossima mostra sarà dedicata alla storia dei “black dandy”, cioè al particolare abbigliamento, curato ed elegante, che alcuni uomini afroamericani cominciarono a indossare a partire dal XVIII secolo. Le mostre del Costume Institute non solo influenzano l’industria della moda ma raggiungono molte persone in tutto il mondo grazie alla serata di inaugurazione, il famoso Met Gala, a cui partecipano stilisti, modelle, giornalisti, politici e le celebrità del momento, indossando vestiti eccentrici di cui si parla per giorni.
La mostra sarà visitabile dal 10 maggio 2025 e, come ogni anno, avrà per madrina la direttrice di Vogue America, Anna Wintour, a cui si aggiungono il rapper ASAP Rocky, l’attore Colman Domingo, il pilota di Formula Uno Lewis Hamilton e il musicista Pharrell Williams, che è anche direttore creativo del marchio francese Louis Vuitton, che sponsorizzerà l’evento.
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È da 20 anni che l’istituto non dedica una rassegna all’abbigliamento da uomo ed è la prima volta che ne organizza una incentrata sulla storia afroamericana: si tratta di una scelta politica, che vuole rimediare alla carenza di diversità che c’è stata per anni nel mondo della moda e che, come ha detto il curatore del Costume Institute Andrew Bolton, prova a «raccontare una storia assente dalla conversazione sia nel museo sia fuori».
La storia dei dandy neri è poco conosciuta e inizia nel XV e XVI secolo con la tratta atlantica degli schiavi africani, quando le famiglie facoltose e aristocratiche europee importavano ragazzini dall’Africa, li istruivano e li vestivano con livree eleganti come fossero dei servitori da compagnia. Divenne una moda ancora più radicata nell’Inghilterra del Settecento, quando alcuni schiavi neri venivano agghindati con abiti ricercati per ostentare la ricchezza dei proprietari, come fossero degli oggetti di lusso. Erano anche ritratti in dipinti, stampe e vignette satiriche, che a volte lodavano altre criticavano i bianchi che cercavano di “addomesticare” i neri attraverso abiti raffinati.
Alcuni di loro riuscirono a sfruttare la situazione a proprio vantaggio e diventarono delle vere e proprie celebrità, anche vestendosi con uno stile personale ed eccentrico. Altri riuscirono ad affrancarsi e continuarono a vestirsi in modo raffinato e singolare, appropriandosi dell’abbigliamento imposto dai loro ex padroni.
Negli Stati Uniti gli schiavi africani vivevano in condizioni diverse rispetto a quelle in Europa: non erano solo qualcosa di esotico da mostrare in casa ma sfruttati in massa nelle piantagioni. Chi si vestiva bene lo faceva per affermare la propria dignità nelle occasioni speciali, come la messa della domenica o ai matrimoni, oppure per indicare che era un uomo o una donna libera, soprattutto nelle grandi città dell’Est. A volte era un modo per festeggiare proprio la liberazione, come ha raccontato nel suo memoir un uomo vissuto nel XVIII secolo in Maryland, negli Stati Uniti, che per l’occasione indossò «un completo di abiti sopraffini», una frase che ha ispirato il titolo della mostra, “Superfine: Tailoring Black Style” (“Sopraffino: lo stile sartoriale nero”).
Comunque sia nell’Ottocento gli uomini neri vestiti bene erano visti come una minaccia perché sovvertivano le aspettative che la società razzista dell’epoca aveva sulle persone nere: cioè che fossero povere, trasandate e sessualmente promiscue. Era un gesto di riscatto, un modo di dimostrare nei fatti di non essere inferiori ai bianchi e un tentativo di inventare una nuova identità per un intero gruppo sociale, fino a quel momento associato all’umiliazione della schiavitù o all’essere thug: brutale, pericoloso e teppista. I dandy, quindi, neri avevano una dimensione politica, sociale e comunitaria rispetto a quelli bianchi statunitensi ed europei, che volevano soprattutto ribellarsi al conformismo e all’etica borghese dell’epoca affermando la propria unicità.
La questione è trattata nel libro Slaves to Fashion, uscito nel 2009 e scritto da Monica L. Miller, professoressa di studi africani al Barnard College e curatrice della mostra al Costume Institute. Per Miller un dandy nero è sempre qualcuno impegnato «in una negoziazione di identità», che siano gli stereotipi razziali e, ultimamente anche di genere. Shantrelle P. Lewis, autrice del libro Dandy Lion, ricorda che la figura del dandy nero ebbe una certa importanza anche in Africa, per esempio con i sapeur del Congo che ai tempi del colonialismo francese si vestivano in modo elegantissimo anche se avevano pochi soldi, e con gli swenkas, operai zulu che si sfidano in gare di stile.
Che fossero africani, europei o americani, i dandy neri hanno adottato lo stile sartoriale europeo introducendo un gusto nuovo: completi eleganti mescolati a stampe leopardate, cravatte e fazzoletti da taschino colorati e stravaganti, cappelli fedora o di paglia e onnipresenti occhiali da sole. Un aspetto interessante del dandysmo nero è la sua influenza sul modo di vestire contemporaneo sia attraverso suoi esponenti – come per esempio il jazzista Duke Ellington, il musicista Prince o il rapper André 3000 – sia grazie al lavoro di molti stilisti neri che oggi reinterpretano quella tradizione. Una trentina di loro è presente anche nella mostra del Costume Institute, tra cui Grace Wales Bonner, Virgil Abloh, Olivier Rousteing, Lisi Herrebrugh e Rushemy Botter di Botter.