La città durante una protesta del novembre 2019 a Santiago (Marcelo Hernandez/Getty Images)

In Cile la spinta rivoluzionaria si è fermata

Cinque anni fa enormi proteste di piazza sembravano avere la forza di cambiare il paese: problemi e diseguaglianze sono rimasti identici, ma ora si parla di sicurezza

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Sono passati cinque anni dall’estallido social (esplosione sociale), le grandi proteste popolari che dall’ottobre del 2019 e per tre mesi fermarono il Cile e fecero pensare all’inizio di una rivoluzione. La capitale Santiago porta ancora i segni di quanto successe: sui muri ci sono le scritte “Asesinos” (“assassini”) rivolte a polizia ed esercito; vari edifici e chiese sono rimasti in macerie dopo gli incendi di quei giorni; di alcuni monumenti attaccati dalla folla resta solo il piedistallo. Invece i temi che animarono le proteste, sostenute da una larga maggioranza della popolazione, sono perlopiù scomparsi dal dibattito pubblico, sostituiti con altre preoccupazioni.

La chiesa San Francisco de Borja, conosciuta come chiesa dei Carabineros, ancora in rovina, a Santiago: fu bruciata durante le proteste del 2019 (Valerio Clari/il Post)

Nel 2019 la parola più citata dai manifestanti era “dignità”, tanto che piazza Baquedano, il centro delle proteste, fu ribattezzata Plaza Dignidad. “Dignità” indicava la volontà di superare le enormi diseguaglianze che caratterizzano la società cilena. Oggi si parla molto meno di “dignidad” e molto di più di “seguridad”, sicurezza, di fronte a un forte aumento della criminalità e del potere delle bande criminali. Anche il diffuso sostegno alla protesta e alle sue richieste sembra essere svanito.

La destra ha ribattezzato le proteste “estallido delictual” (“esplosione criminale”) e fa campagna contro l’octubrismo, una definizione sprezzante usata per accusare la sinistra di estremismo e sostegno alla violenza. Quel movimento popolare è diventato un tema di forte divisione, come molti altri della storia cilena, compresi il colpo di stato militare del 1973 e la successiva dittatura di Augusto Pinochet, che terminò nel 1990.

Le proteste erano cominciate il 18 ottobre del 2019 per un aumento limitato dei prezzi dei biglietti della metro (30 pesos, meno di 4 centesimi di euro). Da lì, le ragioni dei manifestanti si estesero presto a temi ben più ampi: volevano cambiare un modello di paese in cui le differenze sociali erano e restano tutt’oggi enormi. Parteciparono studenti, lavoratori, movimenti femministi e ambientalisti e gruppi per i diritti delle popolazioni native. “No son 30 pesos, son 30 años” (“Non sono i 30 pesos, sono i 30 anni”) diventò lo slogan usato per chiedere cambi radicali, tra cui il superamento del predominio del settore privato nelle pensioni, nella sanità e nella scuola, diverse distribuzioni delle risorse pubbliche e in generale una riduzione delle disparità, anche di trattamento, per persone di diverse classi sociali.

Manifestanti sventolano la bandiera del Cile, a Santiago, il 25 ottobre 2019 (Marcelo Hernandez/Getty Images)

Furono proteste enormi e anche violente, con negozi assaltati e stazioni della metro incendiate: bloccarono il paese, ma nonostante questo rimasero popolari. Furono represse in modo violento. Il presidente Sebastián Piñera dichiarò lo stato di emergenza e impose il coprifuoco, per le vie di Santiago e di altre città tornarono i militari. Alla fine ci furono 20 morti e un numero imprecisato di feriti: un organismo indipendente delle Nazioni Unite a novembre evidenziò un «uso della forza eccessivo e non proporzionale» e vari abusi da parte della polizia.

Non furono solo scontri, ma anche scioperi, assemblee, consultazioni popolari, iniziative di vario genere: i manifesti che li promuovevano venivano appiccicati uno sull’altro così rapidamente che in poche settimane diventarono dei blocchi parecchio spessi (alcuni sono conservati nel piccolo museo dell’Estallido, a Santiago). Gli effetti più visibili e raccontati col passare del tempo sono però quelli legati alla violenza: i negozi e i bar lungo le strade del centro hanno tenuto vetrine chiuse e blindate fino quasi a un anno fa, mentre molti dei manifestanti devono fare i conti con danni permanenti, soprattutto agli occhi, per i lacrimogeni e i proiettili di gomma sparati dalla polizia.

Un veicolo della polizia lancia acqua sui dimostranti durante le proteste, il ​​26 novembre 2019 a Santiago (Marcelo Hernandez/Getty Images)

Un uomo cerca di spegnere un piccolo incendio, il 50esimo giorno consecutivo di proteste, il 6 dicembre 2019 a Santiago, Cile (Spencer Platt/Getty Images)

La protesta mise in discussione il sistema economico neoliberista sopravvissuto alla fine della dittatura di Pinochet. Le richieste erano tante, ma inizialmente i manifestanti sembravano avere la forza necessaria a raggiungere risultati concreti. La spinta riformatrice delle strade di Santiago portò nel 2020 a un voto per riscrivere la Costituzione e l’anno successivo all’elezione alla presidenza di Gabriel Boric, 35 anni, cresciuto come leader studentesco di sinistra.

A distanza di vari anni, però, i cambiamenti effettivi ottenuti grazie alle proteste sono limitati. Il processo di modifica della Costituzione tenne impegnata la politica cilena per tre anni, ma si è concluso con un nulla di fatto: la Costituzione in vigore è sempre quella del 1980, scritta durante la dittatura, e nessuno ha più la forza per chiedere di cambiarla. Anche pensioni, istruzione, sanità e regime fiscale non sono mutati dato che il governo di Boric, sostenuto da una coalizione di partiti di sinistra ed estrema sinistra (il Frente Amplio) non ha mai avuto una solida maggioranza parlamentare e quindi i voti per riformarli.

Un murale del Centro culturale Gabriela Mistral, a Santiago (Valerio Clari/il Post)

Inoltre, questi temi non sono più la priorità per l’opinione pubblica: in tutti i sondaggi la criminalità è indicato come il primo problema, spesso seguita da immigrazione e narcotraffico. Le diseguaglianze sociali sono prioritarie per meno del 10 per cento dei cileni, mentre le discussioni, in tv e fra la gente, sono tutte su omicidi e rapine: i lunghissimi telegiornali trasmessi nel paese, che durano anche un’ora e mezza, parlano principalmente di crimini violenti.

Secondo l’ultima relazione annuale del Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo del Cile (PNUD), diffusa lo scorso agosto, il malcontento tra la popolazione è ancora presente ma è passato da una «fase esplosiva a una implosiva, con sentimenti come disillusione e preoccupazione», che non trova sfogo in atti concreti ma causa un «risentimento verso le élite». È una interpretazione piuttosto condivisa, almeno tra i partiti e i movimenti della sinistra cilena.

Claudio Perez è direttore del think tank cileno CED (Centro studi sullo sviluppo), che si occupa spesso di quella che definisce la «salute della democrazia cilena». Dice: «La popolazione cilena è stanca e disillusa: ha votato tutti gli anni, per tre anni, e non è cambiato nulla. Ha smesso di credere che la politica possa risolvere i grandi problemi, e questa è una situazione pericolosa: quando la democrazia non risolve i problemi, apre le porte al populismo. Che non li risolve lo stesso, ma fornisce un’alternativa».

I voti di cui parla Perez sono quelli dei numerosi referendum organizzati negli ultimi anni per modificare la Costituzione: dice che la riforma del testo fu la mossa scelta dalle istituzioni per uscire dalla crisi e la via indicata dalla sinistra «per cambiare tutto lo stato», ma che non era necessariamente la risposta necessaria e più utile alle richieste della gente.

Il piedistallo su cui si trovava la statua di Baquedano, in piazza Baquedano, poi ribattezzata Plaza Dignidad, a Santiago (Valerio Clari/il Post)

A maggio del 2021, con un’affluenza del 43 per cento, il Cile elesse un’assemblea costituente molto variegata e di sinistra, in cui erano rappresentati quasi tutti i movimenti e le minoranze e composta prevalentemente da indipendenti. A settembre del 2022, con voto obbligatorio e quindi con partecipazione molto più alta, gli elettori respinsero il nuovo testo, molto lungo, articolato, radicale e secondo i critici non coeso e quasi utopistico. «Ma era anche molto bello, proprio come dovrebbe essere un testo di sinistra», dice Tomas Contreras. Lavora come psicologo in una scuola primaria di un quartiere svantaggiato di Santiago e nel 2019 partecipò, come molti, alle proteste: «Ho sempre fatto politica, con i miei amici parlo spesso di politica, ma dell’estallido non parliamo più, è una ferita aperta. Era il momento in cui la sinistra aveva la forza di cambiare il paese, e forse ha voluto farlo troppo. E quindi non è successo assolutamente niente».

Le proteste a Santiago, 25 ottobre 2019 (AP Photo/Rodrigo Abd)

Altri attivisti, come l’attore Damián Yamal, dicono che nel 2022 il “rechazo” (rifiuto) del nuovo testo costituzionale allontanò dalla politica una parte considerevole di chi era impegnato nei gruppi di sinistra: «Sono stato nei movimenti studenteschi sin dalle proteste del 2011 e in tanti abbiamo dedicato all’idea di rinnovare il paese una parte importante del nostro tempo e delle nostre energie, per anni. Dopo l’estallido e la violenza della repressione abbiamo vissuto il “no” della gente al nuovo testo quasi come un tradimento. Per molti è stato inevitabile ritornare a pensare di più a sé stessi, anche perché bisognava comunque trovare un modo di lavorare e pagare i conti».

In Cile si è molto dibattuto e si dibatte ancora sulle responsabilità della sinistra e del governo di Boric nella dissoluzione di quella spinta riformatrice quasi rivoluzionaria.

Secondo Claudia Heiss, docente di Scienze politiche all’Università del Cile, la sinistra «non ha avuto sufficienti capacità per condurre e guidare la protesta: l’estallido nacque come convergenza di vari movimenti e di varie esigenze, non come un movimento politico». Ritiene che la sinistra fece bene a cercare di convogliare le sue richieste verso un risultato istituzionale tramite il processo costituzionale, ma poi quell’assemblea «sopravvalutò il suo mandato e il suo sostegno, non capendo di non rappresentare la maggioranza della popolazione».

Alla sconfitta del 2022 seguì una nuova assemblea costituente, con maggioranza di destra e un nuovo testo, ancora più conservatore di quello del 1980, che fu a sua volta respinto da un referendum lo scorso dicembre. Il lungo processo costituzionale causò un cambio di direzione da parte di Boric, che sostituì molte delle persone a lui più vicine con altre più esperte e più legate al passato del centrosinistra, la cosiddetta “concertaciòn”, da cui inizialmente la sua coalizione di sinistra ed estrema sinistra aveva preso le distanze. Tutte le persone con cui ha parlato il Post concordano nel riconoscere a Boric doti di grande pragmatismo, nonostante fosse stato presentato inizialmente come radicale e inesperto, soprattutto dall’opposizione.

Una donna di fianco a un murale nel quartiere Yungay, a Santiago (Valerio Clari/Il Post)

Ricardo Buendia ora è professore di Diritto a Manchester, in Inghilterra, ma è stato assistente insieme a Boric nel corso di Diritti Umani alla facoltà di Diritto dell’Università di Santiago: «È rimasto fedele a quel corso, mettendo davanti a tutto la democrazia, la ricerca del dialogo e dell’equilibrio», dice riferendosi al presidente cileno. Questo atteggiamento ha portato a risultati piccoli soprattutto rispetto alle attese con cui era cominciato il suo mandato.

Nel frattempo è cambiato anche l’umore del paese: rimane tra i più ricchi e sicuri dell’America Latina, ma «rispetto agli anni Novanta è diminuito il tasso di crescita e quindi la speranza delle famiglie di fare un salto sociale, possibilità che rendeva le diseguaglianze più accettabili», dice Heiss. Inoltre dopo la pandemia di Covid-19 molte famiglie cilene si sono trovate più indebitate, «fino al 75 per cento del loro stipendio». A questo si è aggiunta la crisi della sicurezza.

Il Cile fino a 15 anni fa non conosceva bande organizzate e solo negli ultimi cinque anni si è dovuto confrontare con la prima grossa organizzazione di narcotrafficanti operante nel paese: a partire dal 2019 il Tren de Aragua, un gruppo criminale venezuelano, ha assunto potere e aumentato le sue attività e le sue aree di influenza in Cile. I suoi metodi sono quelli dei narcos messicani, i crimini sono spesso efferati e violenti, e hanno scioccato la gente che non era abituata a episodi simili.

L’estrema destra di José Antonio Kast, sconfitto nel ballottaggio alle presidenziali del 2021 da Boric, ha costruito intorno a questo una forte politica anti-immigratoria che fino a pochi anni fa era sconosciuta in Cile, e in generale tutta l’opinione pubblica ha spostato le sue priorità sul tema della criminalità. Nel periodo dell’estallido social i partiti che sostengono il governo Boric mostrarono un’aperta sfiducia e opposizione nei confronti dei carabineros cileni: oggi hanno nei primi punti dei loro programmi finanziamenti per rendere più presenti e moderne le forze di polizia. Crimini e omicidi sono diminuiti rispetto al 2022, quando raggiunsero un massimo, ma la percezione di insicurezza resta diffusa.

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In questo contesto si inseriscono le prossime scadenze elettorali: tra poche settimane, il 26 e il 27 ottobre, si voterà per le elezioni amministrative, e a novembre del 2025 per le presidenziali. Boric non potrà ripresentarsi (non sono possibili mandati consecutivi) e al momento la sinistra non ha individuato una o un candidato credibile e che abbia abbastanza consensi. Attualmente la favorita è Evelyn Matthei, che rappresenta il centrodestra storico, ma che è anche figlia di un generale che fu ministro con Pinochet. Dietro di lei c’è Kast, di estrema destra.

Da un recente sondaggio del CEP (Centro di studi pubblici) è emerso come solo il 47 per cento degli intervistati consideri la democrazia “la miglior forma di governo in ogni situazione”. Dice Perez, il direttore di un altro think tank: «C’è una parte della popolazione che sembra disposta a sacrificare parte delle sue libertà e dei suoi diritti in cambio di maggiore sicurezza. È già successo recentemente in America Latina, per esempio a El Salvador con Nayib Bukele». La possibilità di risposte facili e populiste è una delle possibili conseguenze, oggi considerata più probabile di una nuova fase di proteste di piazza, come quelle del 2019.

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