Cosa succederebbe a un essere umano in un viaggio verso Marte?

Da tempo Elon Musk descrive la colonizzazione come un’ipotesi realistica, ma i problemi comincerebbero ancora prima di raggiungere il pianeta

Una scena del film del 1990 Atto di forza (TriStar Pictures/Courtesy Everett Collection)
Una scena del film del 1990 Atto di forza (TriStar Pictures/Courtesy Everett Collection)
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In diversi film di fantascienza ambientati su Marte, da Atto di forza del 1990 a The Martian del 2015, arriva sempre un momento in cui la tuta spaziale indossata da uno dei personaggi sul suolo marziano si rompe. In tutti i casi, indipendentemente dal livello di realismo degli effetti speciali, si capisce che non sarebbe un incidente di poco conto. Sebbene sia considerato per diversi aspetti il pianeta del sistema solare più simile alla Terra, Marte è infatti un ambiente estremamente ostile per gli esseri umani. E se è il più studiato in assoluto è perché negli anni è stato oggetto di diverse missioni robotiche: inviare un equipaggio umano sarebbe molto più complicato e costoso.

I successi nei lanci sperimentali di Starship, l’astronave della società spaziale privata statunitense SpaceX, e le audaci affermazioni del suo capo Elon Musk hanno contribuito ad alimentare in anni recenti le aspettative e le fantasie di molte persone riguardo alla possibile colonizzazione futura di Marte. Ma senza arrivare a tanto, immaginare anche solo di spedire un equipaggio umano a decine di milioni di chilometri dalla Terra pone una quantità e un tipo di difficoltà che nessun’altra missione umana potrebbe porre.

La distanza tra la Terra e Marte cambia molto durante le rispettive orbite dei due pianeti intorno al Sole: in media è 225 milioni di chilometri, ma quella minima è intorno a 56 milioni. Anche ragionando per assurdo, ammettendo cioè di trovare il modo di rendere il viaggio fattibile sul piano ingegneristico e aerospaziale, qualsiasi ipotesi realistica di viaggio da un pianeta all’altro e ritorno implicherebbe comunque una prolungata permanenza delle persone nello Spazio: oltre due anni, probabilmente. E i nostri corpi non sono fatti per lo Spazio, come dimostrano diversi studi sugli effetti della permanenza in ambienti a gravità quasi assente, come la Stazione Spaziale Internazionale (ISS), sulla salute degli equipaggi.

Nel 2024 oltre cento istituti e gruppi di ricerca di diversi paesi del mondo hanno lavorato insieme alla pubblicazione dello Space Omics and Medical Atlas (SOMA), una raccolta di studi, dati e altri documenti di medicina e biologia sugli effetti del volo spaziale sugli equipaggi umani. I più conosciuti tra quelli determinati dalle diverse condizioni di gravità sono la perdita di massa muscolare e la riduzione della densità delle ossa (in media dall’1 all’1,5 per cento al mese).

Sono problemi risolvibili in parte facendo esercizi fisici e assumendo integratori come i bifosfonati, utilizzati per contrastare l’osteoporosi.

Wakata, agganciato tramite un cavo a una struttura della stazione, corre su un tapis roulant

L’astronauta giapponese Koichi Wakata, ingegnere di volo della spedizione 38, si allena a bordo della Stazione Spaziale Internazionale, il 14 novembre 2013 (NASA)

Ma le condizioni poste dall’ambiente spaziale portano anche problemi alla vista, al sistema nervoso e a quello circolatorio, aumentando il rischio di trombosi. E sebbene non siano ancora stati oggetto di studi approfonditi, alcuni di questi problemi potrebbero persistere anche per anni dopo il ritorno sulla Terra.

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Altri effetti studiati da tempo riguardano un fattore, se possibile, ancora più rilevante: l’impatto delle radiazioni spaziali. Sono radiazioni ad alta energia provenienti da fonti esterne al sistema solare, in genere esplosioni stellari come le supernove e altri fenomeni nello Spazio profondo. Sulla Terra il campo magnetico protegge la popolazione e in parte anche l’equipaggio dell’ISS impedendo alla maggior parte delle particelle che compongono le radiazioni spaziali, come anche delle particelle solari, di penetrare l’atmosfera. Ma nel caso di viaggi interplanetari la protezione per gli equipaggi deriverebbe soltanto dalla necessaria schermatura delle astronavi.

Un equipaggio in viaggio verso Marte sarebbe verosimilmente esposto in modo continuo a una quantità di radiazioni paragonabile a quella di centinaia se non migliaia di radiografie del torace. I risultati di alcuni test di laboratorio suggeriscono che un’esposizione del genere potrebbe provocare diversi problemi al cervello, a cuore e arterie, alla vista, all’apparato digerente e ad altre parti del corpo. Per di più in un ipotetico viaggio verso Marte l’equipaggio avrebbe risorse mediche, diagnostiche e farmacologiche limitate, e nessuna possibilità di rifornimenti, a differenza degli equipaggi dell’ISS.

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Uno studio sui topi pubblicato a settembre sulla rivista Journal of Neurochemistry ha concluso che le radiazioni potrebbero influenzare anche le capacità cognitive a lungo termine. In un esperimento condotto nel Brookhaven National Laboratory a Upton, nello stato di New York, gli autori e le autrici dello studio hanno scoperto che l’esposizione a un fascio di radiazioni che simulava quelle spaziali comprometteva varie funzioni del sistema nervoso centrale dei topi. Rispetto al gruppo di controllo, i topi esposti al fascio mostravano problemi di memoria, di attenzione e di controllo motorio, che però diminuivano somministrando sostanze antiossidanti e antinfiammatorie.

In un precedente studio sui topi, pubblicato a giugno sulla rivista Nature Communications, l’esposizione a una dose di radiazioni paragonabile a quella assorbita durante un eventuale viaggio di andata e ritorno verso Marte aveva provocato gravi danni ai reni. Le disfunzioni erano tali, in caso di assenza di protezione dalle radiazioni, da rendere realistica l’ipotesi di necessari trattamenti di dialisi per l’equipaggio durante il viaggio di ritorno.

Da tempo la NASA sta sviluppando tecnologie, in collaborazione con altre aziende, che in un viaggio verso Marte fornirebbero agli astronauti e alle astronaute una parziale protezione dalle radiazioni spaziali. Tra ciò che viene utilizzato per costruire parti di veicoli e tute spaziali ci sono materiali sintetici come il kevlar e il polietilene, in grado di deflettere i fasci di particelle cariche fornendo una schermatura dalle radiazioni. Anche in questo caso, come per l’atrofia muscolare e per la riduzione ossea, alcuni effetti potrebbero inoltre essere mitigati assumendo particolari integratori, utilizzati anche sulla Terra sui pazienti oncologici durante la radioterapia.

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Un altro possibile problema per un eventuale equipaggio in viaggio verso Marte, che condividerebbe per lungo tempo uno spazio presumibilmente limitato, sarebbe il rischio di problemi psicologici: disturbi dell’umore e del sonno, irritabilità, incapacità di pensare lucidamente. A rendere ancora più angosciante la percezione dell’isolamento potrebbe peraltro contribuire il ritardo delle comunicazioni con la Terra: fino a 20 minuti, a seconda della distanza. Il che significa anche che l’equipaggio potrebbe verosimilmente dover risolvere eventuali problemi urgenti in completa autonomia, senza l’aiuto del controllo missione.

La NASA segnala infine i rischi di alterazioni del sistema immunitario delle astronaute e degli astronauti, e quindi di malattie, in un ambiente chiuso in cui dopo un certo tempo microbi e microrganismi potrebbero cambiare caratteristiche in modo imprevedibile. Ricapitolando, per differenziare i tipi di rischi per il corpo umano associati ai lunghi viaggi spaziali, la NASA utilizza l’acronimo “RIDGE”: Radiazioni spaziali, Isolamento e cattività, Distanza dalla Terra, Gravità e hostile/closed Environments, cioè “ambienti chiusi/ostili”.

Poi ci sarebbe tutta la parte di problemi da risolvere una volta sul suolo marziano. Per sopravvivere servirebbe prima di tutto ossigeno, uno dei diversi gas presenti nell’atmosfera terrestre. Il 21 per cento circa dell’aria che respiriamo ogni giorno è infatti composta da ossigeno, mentre il resto è quasi tutto azoto (il rapporto, più o meno costante, è di circa 15 atomi di azoto per quattro atomi di ossigeno). Su Marte l’ossigeno è presente solo con una concentrazione dello 0,13 per cento.

L’atmosfera marziana è molto più rarefatta: circa cento volte più di quella terrestre, cosa che rende il pianeta peraltro più vulnerabile agli impatti con oggetti come meteoriti e asteroidi. Alla base delle varie differenze c’è quella fondamentale della grandezza tra i due pianeti: Marte è più o meno la metà della Terra. Non ha quindi una gravità tale da trattenere tutti i gas atmosferici, e l’equipaggio di un’eventuale missione dovrebbe gestire tutte le numerose conseguenze di questa condizione.

I due pianeti affiancati l'uno vicino all'altro

Un’immagine che mette a confronto la Terra e Marte, ottenuta unendo immagini acquisite dalle sonde Galileo e Mars Global Surveyor della NASA (NASA)

Sfortunatamente il gas più abbondante nell’atmosfera estremamente rarefatta di Marte è un gas per noi mortale oltre una certa concentrazione: l’anidride carbonica, di cui è composto lo 0,04 per cento dell’aria sulla Terra e circa il 96 per cento dell’atmosfera marziana. In pratica, considerando che sulla Terra un’esposizione di circa 15 minuti a una concentrazione di anidride carbonica dell’1,5 per cento sarebbe già mortale, provare a respirare su Marte senza un rifornimento di ossigeno provocherebbe la morte per asfissia in brevissimo tempo.

L’alta concentrazione di anidride carbonica non sarebbe nemmeno il primo dei problemi su Marte. Le pressioni al suolo marziano sono simili a quelle che sulla Terra troveremmo intorno a 30 chilometri di quota, come ricorda l’astrofisico Amedeo Balbi nel recente libro Il cosmo in brevi lezioni. In pratica, senza adeguate attrezzature, un essere umano morirebbe in pochi secondi per insufficiente pressione esterna, che provocherebbe un’espansione istantanea e letale di tessuti, gas e liquidi presenti nel corpo.

Sorvolando sulla mancanza di ossigeno e di pressione sufficiente, ostacoli non insormontabili e già gestiti nello Spazio in altri ambienti diversi da Marte, ci sarebbe comunque da gestire il problema delle temperature: quella media su Marte si aggira intorno ai -60 °C, ma la minima può arrivare a -150 °C. L’acqua, che sarebbe necessaria per creare ossigeno, coltivare cibo, produrre carburante e altre materie prime, c’è ma si trova in luoghi del pianeta e in condizioni che la rendono non facilmente accessibile.

Resterebbe infine lo stesso problema di tutto il viaggio: le radiazioni, dal momento che Marte non ha un campo magnetico abbastanza intenso da deviare le particelle atomiche e subatomiche provenienti dal Sole, da supernove lontane e da altre fonti. Un particolare spettrometro della grandezza di un tostapane, il Radiation Assessment Detector, fu il primo strumento a essere acceso dal rover Curiosity durante la sua missione su Marte nel 2012, e da allora fornisce informazioni sul livello di radiazioni presenti sul pianeta.

Sul lungo periodo un campo base come quello in cui sopravvive il protagonista del film The Martian probabilmente non offrirebbe una protezione sufficiente contro le radiazioni, né contro le violente tempeste solari e di polvere. Un’alternativa teoricamente più sicura, secondo l’ex biomedico della NASA Jim Logan, potrebbe essere vivere in rifugi sotterranei o in strutture con pareti di circa 2,5 metri edificate utilizzando materie presenti in superficie.

Le caverne sotterranee sono soltanto una delle varie ipotesi, più o meno fantascientifiche, formulate nel corso degli ultimi anni per provare a immaginare una soluzione all’incompatibilità dell’ambiente marziano con la vita umana. Ma, come scrive Balbi, «è importante che la percezione pubblica di questi temi sia basata sulla realtà, e non sulle illusioni». Una cosa è stabilire un avamposto, un’altra è fondare una colonia. E del resto «non abbiamo mai costruito civiltà fiorenti in Antartide, sul fondo dei mari o in cima all’Everest», tutti luoghi ostili ma infinitamente più accoglienti in confronto a Marte.

Indipendentemente dall’obiettivo di raggiungere Marte, ragionare sul modo in cui sarebbe possibile sostenere a lungo la salute e la fisiologia umana nello Spazio ha comunque numerosi benefici per la vita sulla Terra, scrisse nel 2023 sul sito The Conversation Rachael Seidler, insegnante di fisiologia applicata alla University of Florida. Le sostanze che proteggono gli equipaggi dalle radiazioni spaziali e contrastano i loro effetti nocivi sul corpo umano, per esempio, possono anche servire per la cura dei pazienti oncologici sottoposti a radioterapia. Capire come contrastare gli effetti della microgravità su ossa e muscoli può inoltre migliorare anche le terapie e le cure mediche per varie condizioni di fragilità associate all’invecchiamento.

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