La vita da film di Oskar Schindler
Morì 50 anni fa, dopo varie vicissitudini, e ben prima di diventare un’antonomasia per indicare storie eccezionali di singole persone che ne salvarono migliaia
Quando morì a Francoforte, il 9 ottobre 1974, a 66 anni, Oskar Schindler era molto conosciuto tra le comunità ebraiche delle persone che lo avevano sostenuto economicamente nel dopoguerra, dopo che lui aveva contribuito a salvare moltissime di loro dalla persecuzione nazista. Fu lo scrittore australiano Thomas Keneally a fare di quella storia, da lui appresa nel 1980 tramite un superstite, un romanzo. Pubblicato due anni dopo, sarebbe poi diventato la base per la sceneggiatura del più famoso film di sempre sulla Shoah, Schindler’s List, uscito nel 1993, diretto da Steven Spielberg e interpretato, tra gli altri, da Liam Neeson e Ralph Fiennes.
Se la storia di Schindler è conosciuta quasi universalmente, cinquant’anni dopo la sua morte, è per il successo straordinario di quel film, che vinse 7 Oscar, tra cui i premi per il miglior film e per la miglior regia. Prima che un gran film, fu un documento eccezionalmente influente – nonostante qualche libertà nella ricostruzione dei fatti – sia sullo stile del cinema di genere storico, sia per tutto il campo di studi sull’Olocausto, fino ad allora concentrato in Europa e poco esteso negli Stati Uniti.
Schindler era un imprenditore e membro del partito nazista originario dei monti Sudeti, un’area di confine con l’attuale Repubblica Ceca, che all’inizio della Seconda guerra mondiale si era trasferito a Cracovia, in Polonia. Ammanicato com’era nell’ambiente industriale, economico e politico tedesco (aveva lavorato nell’Abwehr, il servizio di intelligence militare), aveva acquistato a buon mercato da una comunità ebraica una fabbrica di pentole, poi convertita in fabbrica di munizioni, mentre le leggi razziali erano già in vigore.
Nel 1944, quando l’esercito sovietico si era aperto la strada verso Berlino, i nazisti avevano intensificato i rastrellamenti anche a Cracovia, ma Schindler era riuscito a salvare oltre mille lavoratrici e lavoratori ebrei, sia operai della sua fabbrica che altre persone, evitando che finissero nei campi di concentramento. Aveva fatto stilare e circolare alcune liste con i loro nomi ed era così riuscito a trasferirli in una fabbrica nella Cecoslovacchia occupata dai tedeschi – a Brněnec, a nord est di Praga – con il pretesto di non interrompere la produzione di armamenti utile alla Germania.
Dopo il film di Spielberg la storia di Schindler acquisì in poco tempo una tale popolarità e una tale centralità nell’immaginario collettivo da diventare un continuo termine di paragone giornalistico nel racconto di storie simili alla sua. Storie eccezionali di individui che, in contesti più o meno avversi e rischiosi per loro, si adoperarono per impedire la morte di centinaia di persone: lo “Schindler” portoghese, quello giapponese, quello indiano, quello nordcoreano, e tutti gli altri Schindler.
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Come raccontato dallo storico David Crowe nel libro Oskar Schindler: The Untold Account of His Life, Wartime Activities, and the True Story Behind the List, Schindler ebbe una vita abbastanza movimentata. E sebbene la compilazione delle liste di persone da trasferire sia di gran lunga la sua azione più conosciuta e significativa, fu una figura più complessa e ambigua di quanto non emerga dal racconto cinematografico.
Prima dell’uscita del libro e poi del film la reputazione di Schindler era stata condizionata per lungo tempo dalle storie che circolavano sul suo conto prima della guerra, e dalla descrizione non molto positiva tramandata da una parte della storiografia. In molti lo consideravano un maneggione poco affidabile, un industriale a cui piacevano il lusso, le donne e il gioco d’azzardo, che aveva fatto fortuna sfruttando senza scrupoli il lavoro di operai ebrei prigionieri di fatto.
Per alcuni aspetti, secondo Crowe, la vera storia di Schindler fu persino più drammatica di quella raccontata nel film. Nell’autunno del 1944, per esempio, non era presente al momento in cui fu stilata la lista di lavoratrici e lavoratori da trasferire a Brněnec: non avrebbe potuto scriverla, perché all’epoca era in prigione con l’accusa di aver corrotto un comandante dell’esercito. Molte liste – erano in totale almeno nove – furono compilate su indicazione di Schindler da Marcel Goldberg, un prigioniero ebreo costretto a lavorare come inserviente nel campo di concentramento di Kraków-Płaszów, e dattiloscritte da Mietek Pemper, un altro ebreo deportato dal ghetto di Cracovia. Gli era stato assegnato il lavoro di segretario personale e stenografo di Amon Göth, il famigerato comandante del campo (nel film interpretato da Ralph Fiennes).
Göth era soltanto uno dei molti contatti che Schindler si era fatto nel corso degli anni, nel tentativo di trarre profitto dall’invasione tedesca della Polonia nell’autunno del 1939. Dopo l’invasione i cittadini polacchi ebrei erano stati privati delle loro proprietà e confinati nei ghetti, e le SS li avevano sfruttati come manodopera gratuita in diverse fabbriche, inclusa quella di Schindler a Cracovia, che nel frattempo si era iscritto al partito nazista.
Ciò che Schindler temeva di più, come raccontato da Crowe alla rivista Time, era di essere arruolato. Aveva infatti un tenore di vita alquanto sontuoso, che richiedeva un certo reddito, e sapeva che avrebbe guadagnato molto di più come proprietario di una fabbrica che nell’esercito. Quantomeno all’inizio, insomma, le sue azioni non furono del tutto altruiste: a dargli il suggerimento di salvare gli ebrei facendoli lavorare per lui era stato Abraham Bankier, l’imprenditore ebreo proprietario della fabbrica rilevata da Schindler durante la guerra. In pratica lo aveva convinto che la manodopera ebrea sarebbe stata più conveniente di quella polacca.
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Ma già prima di allora Schindler aveva intessuto molteplici relazioni d’affari e di amicizia con la comunità ebraica polacca, raccogliendo e nascondendo all’occorrenza i loro documenti. Lo aveva fatto attraverso la mediazione del contabile ebreo e suo amico Itzhak Stern, a sua volta amico intimo di Pemper, poi impiegato anche lui nell’ufficio di Göth nel campo. Bankier, Stern e Pemper sopravvissero all’Olocausto, insieme a circa 1.200 ebrei impiegati nella fabbrica di Schindler, che di fatto sfruttò la sua fittissima rete di contatti per assumere, ospitare, nutrire, trasferire e salvare centinaia di persone.
La sua singola e probabilmente più importante iniziativa, secondo Crowe e altri storici, fu chiedere e ottenere dai funzionari delle SS nel 1943 l’autorizzazione a costruire un campo interno ai locali della sua fabbrica a Cracovia, in cui ospitare i suoi dipendenti notte e giorno. Fino a quel momento le guardie li avevano invece accompagnati ogni giorno dalla fabbrica al campo di Płaszów, dove erano imprigionati. Sebbene la ragione presumibilmente addotta da Schindler con le SS fosse l’aumento della produttività, quell’azione permise a migliaia di ebrei di evitare di essere uccisi nel campo di Płaszów alla fine della guerra.
Le condizioni di vita nel campo allestito nella fabbrica, come raccontato da molti sopravvissuti, erano peraltro imparagonabili rispetto a quelle del campo di Płaszów. Il cibo era migliore, uomini e donne non vivevano separatamente, e le guardie delle SS non potevano entrare, ma solo restare nelle torri di guardia. Una delle sopravvissute, Rena Finder, all’epoca tredicenne e impiegata nella fabbrica, raccontò a Time parlando di Schindler che era cordiale e premuroso.
Raccontò di una volta in cui ebbe difficoltà ad azionare una macchina, che a un certo punto smise di funzionare del tutto. Il suo caposquadra la sgridò e accusò di aver sabotato la macchina, ma Schindler intervenne dicendo che una bambina non poteva gestire quella macchina, e che solo un uomo avrebbe dovuto farlo. «Ero convinta che fosse stato mandato dal cielo», disse Finder, che ricordò anche di essersi ammalata di polmonite, durante la prigionia, e di essere rimasta in cura nella clinica della fabbrica per tre giorni: a Płaszów, aggiunse, i pazienti che rimanevano in clinica più di un giorno venivano uccisi.
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Nell’estate del 1944, a fronte dell’avanzata dell’esercito sovietico verso i territori occupati dai tedeschi in Europa, molti imprenditori nel ramo dell’industria bellica trasferirono le attività verso ovest, e anche Schindler trasferì la sua fabbrica, a Brněnec. Risale a quell’epoca la compilazione di diverse liste con i nomi delle persone autorizzate ad andare a lavorare a Brněnec, in cui furono inclusi non soltanto dipendenti della fabbrica ma anche conoscenti di Goldberg e di altri ebrei deportati dal ghetto di Cracovia. Secondo Crowe soltanto un terzo circa delle persone nelle liste aveva effettivamente lavorato per Schindler in precedenza.
Alla fine della guerra, Schindler e la moglie si trasferirono in Svizzera e poi in Baviera e in altre parti della Germania. Praticamente indigenti, anche perché durante la guerra lui aveva speso tutta la sua fortuna in tangenti e acquisti di forniture per la fabbrica, si trasferirono in Argentina, dove Schindler fondò una piccola impresa di allevamento di pollame, fallita nel 1958. Lasciò la moglie e tornò in Germania, dove le persone che una volta erano stati suoi dipendenti ebrei lo aiutarono a superare una serie di altri fallimenti aziendali.
Schindler morì per un’insufficienza epatica, il 9 ottobre 1974, e fu sepolto per suo volere nel cimitero cattolico sul monte Sion, a Gerusalemme: probabilmente l’unico membro del partito nazista a essere sepolto lì, disse nel 1993 Keneally, l’autore del romanzo del 1982. Sulla lapide di Schindler, mostrata anche alla fine del film di Spielberg, sono riportate le iscrizioni «Il salvatore indimenticabile di 1.200 ebrei perseguitati», in tedesco, e «Giusto tra le nazioni», in ebraico: un riferimento all’onorificenza che gli fu conferita nel 1962 dall’Ente nazionale per la memoria della Shoah (lo Yad Vashem), istituito per celebrare i «giusti» di diverse nazioni che rischiarono la vita per aiutare gli ebrei durante la Shoah.
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