A Kherson i dronisti russi prendono di mira i civili ucraini per divertimento
Uccidono i passanti, inseguono le auto e postano i video sui social: ci sono migliaia di attacchi al mese
di Daniele Raineri
I soldati ucraini uccidono i soldati russi, e viceversa, con piccoli droni che comprano online. Al fronte questo succede da molti mesi, tanto che ormai è diventato un fatto normale della guerra. Ma a Kherson, una città del sud dell’Ucraina che affaccia sul fiume Dnipro, i soldati russi usano piccoli droni commerciali per inseguire e uccidere non i soldati, ma i civili ucraini. Per raccontare che cosa sta succedendo, gli abitanti parlano di «caccia agli umani» e di «videogioco con bersagli umani». Alcune persone ucraine, nelle interviste raccolte dal Post nelle strade di Kherson, dicono di sentirsi usate dalle squadre di dronisti russi come obiettivi per fare pratica.
I russi sono nascosti nei boschi sulla sponda sinistra del fiume. Sulla sponda destra c’è la città con i suoi viali alberati, i suoi palazzoni, i parchi e le fermate degli autobus ben ordinate. Prima della guerra aveva 300mila abitanti, adesso la stragrande maggioranza è scappata altrove e nelle vie del centro è possibile camminare per mezzo chilometro in pieno giorno senza vedere nessuno, né a piedi né in macchina. I civili rimasti nelle loro case tengono un profilo molto basso, ma sono comunque decine di migliaia.
A fare da barriera divisoria naturale tra il bosco e la città c’è il fiume Dnipro, che in questo tratto è largo poco meno di un chilometro. Vuol dire che i soldati russi fanno alzare in volo i loro droni e nel giro di un minuto raggiungono le prime strade di Kherson. I loro territori preferiti, secondo gli abitanti, sono il lungofiume e il quartiere Antonivka, vicino a quello che rimane del ponte autostradale Antonivsky, distrutto dai missili ucraini due anni fa quando la città era ancora occupata dai russi.
I droni volano sui tetti, si infilano nelle vie, inseguono le macchine e trasmettono in diretta quello che vedono ai loro piloti. Quando avvista e raggiunge una vittima il dronista impartisce un comando, le chele metalliche del drone che stringono una granata a frammentazione si aprono, la granata cade a pochi passi dal disgraziato che si è fatto sorprendere all’aperto e il drone fa ritorno al suo pilota. Durante l’esplosione l’involucro della granata si spezza in tanti frammenti che sono pericolosi come proiettili nel raggio di qualche metro. Il drone sgancia mentre vola: per centrare qualcosa o qualcuno ci vuole pratica.
Svetlana Goreva, 51 anni, cronista locale che segue i fatti della città, dice che i droni colpiscono spesso i bus municipali gialli (due linee sono state sospese una settimana fa perché ne attiravano troppi) e anche le ambulanze, bersagli che più civili di così non potrebbero essere. «I russi usano la scusa che [i veicoli] sarebbero usati per trasportare soldati, ma in realtà vogliono punire gli abitanti di Kherson. Vogliono cacciarli via», dice. «I droni colpiscono sempre i furgoni delle squadre che fanno le riparazioni nei quartieri lungo la riva del fiume dove mancano elettricità e gas, non possono non vedere che si tratta di squadre civili ma attaccano lo stesso».
A volte i droni lasciano cadere nelle strade chiodi a tre punte o piccole mine antiuomo che non esplodono subito, ma soltanto quando qualcuno le tocca, racconta Goreva. Se ci passi sopra con la macchina distruggi una gomma, scendi per cambiarla «e puoi stare sicuro che nel frattempo ti arriva addosso un drone». «Per un periodo hanno attaccato i balconi degli appartamenti quando vedevano vestiti maschili stesi ad asciugare perché ogni uomo può essere un problema, poi hanno cominciato a prendere di mira tutti i balconi dove vedevano roba stesa soltanto perché vuol dire che ci abita qualcuno».
A Kherson i piloti di droni russi hanno il compito di sorvegliare i movimenti dei militari ucraini al di là del fiume e di attaccare, dice Goreva. Quando non trovano nulla però devono comunque liberarsi della granata perché pesa, consuma la batteria sulla via del ritorno e limita la durata del volo. Inoltre «fanno addestramento per quando verranno mandati in altri settori del fronte più duri. Così tirano contro i civili, anche se si tratta di una nonna con la spesa. In mancanza di meglio tirano pure contro le macchine parcheggiate».
Tatiana Yakovleva, 48 anni, dice che lo fanno per divertimento. «Le lanciano anche sugli animali. Vedono una cuccia con un cane e ci lasciano cadere una granata sopra. Lo fanno per il gusto di lanciarla». Lei lavorava come volontaria a un cosiddetto “Punto d’invincibilità”, uno dei chioschi aperti dal governo nelle città ucraine per offrire agli abitanti prese con corrente elettrica, una connessione internet e d’inverno anche bevande calde. Ma a settembre un drone ha bombardato il chiosco in mattoni, ha aperto un buco nel tetto e ha ferito anche lei. È la terza volta che viene ferita. «Adesso tirano contro i bus, è spaventoso», dice, aggiungendo che nel suo quartiere una donna è morta perché una scheggia le ha perforato un polmone e l’ambulanza non è riuscita ad arrivare in tempo. «Tirano ai bus, o vicino ai bus o alle fermate dei bus. E queste cose ci succedono tutti i giorni».
Alexander Tolokonnikov, 42 anni, portavoce dell’amministrazione militare di Kherson, dice che a settembre nella regione – quindi non soltanto in città, ma in tutti i centri abitati lungo la sponda del Dnipro – gli attacchi con droni e granate sono stati 3mila, i feriti 148, i morti sei. La maggioranza degli attacchi è stata compiuta contro civili: «Un anziano che trasportava pacchi in bicicletta. Un’anziana seduta su una panchina. Due adolescenti che giocavano vicino al fiume». Conferma che lasciano anche cadere mine antiuomo, ma «ci incollano foglie secche e sono difficili da vedere».
Tutti gli intervistati citano l’ospedale oncologico di Kherson, uno dei più grandi dell’Ucraina del sud, che un tempo accoglieva malati da tutto il paese e ha una bella posizione vicino al fiume. In questo periodo è diventato un magnete per gli attacchi con i droni. Il 3 settembre un chirurgo-oncologo che lavorava lì da quasi trent’anni, Volodymyr Tereliuk, e che era molto rispettato per le innovazioni che aveva introdotto nella cura dei pazienti, è arrivato nel parcheggio con la moglie, è stato centrato da un drone e trascinato dentro dai colleghi. Hanno provato per un’ora e mezza a salvargli la vita ma non ci sono riusciti. «Le ferite da schegge erano incompatibili con la sopravvivenza», hanno poi scritto nel comunicato che informava della sua morte.
Adesso l’ospedale è quasi irraggiungibile perché i droni prendono di mira tutto quello che si muove. C’è un problema ovvio: se c’è un posto che non dovrebbe essere isolato dal resto del mondo e non dovrebbe essere assediato dai droni è un ospedale oncologico.
La piazza centrale di Kherson si chiama “piazza della Libertà”, e non c’è nessuno: si vedono soltanto tre macchine parcheggiate, che aumentano l’impressione di vuoto. Due anni fa all’inizio di dicembre le truppe ucraine obbligarono i soldati russi ad abbandonare la città. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky venne qui a fare un discorso mentre la folla urlava: “Gloria all’Ucraina!” e sventolava bandiere gialle e blu davanti alle telecamere dei giornalisti stranieri, fatti arrivare con due grandi bus. Fu una grossa umiliazione per l’esercito russo e per il presidente Vladimir Putin, che alla fine di settembre del 2022 – quindi soltanto due mesi prima del discorso di Zelensky – aveva costretto gli abitanti di Kherson a partecipare a un referendum farsa per dichiarare la loro volontà di essere annessi alla Russia.
La Russia basa la propria credibilità interna sulla capacità di imporsi con la forza militare almeno sui territori confinanti. Questo uso della forza è anche il collante che costringe a vivere insieme alcune popolazioni federate sotto Mosca, dal Caucaso al Tatarstan alla Siberia, che altrimenti sarebbero tentate dall’indipendenza. Se Kherson oggi fosse una città normale, dove la gente va ai concerti e fa picnic nei parchi, quella sola vista sarebbe una sfida insopportabile alla tenuta della Federazione russa: la popolazione sul lungo Dnipro dev’essere tormentata per ragioni politiche.
Dmitry, marinaio sulle navi cargo commerciali di 22 anni, vive ad Antonivka, il quartiere da 3mila abitanti vicino al fiume che è il più attaccato dai droni. Ha quattro punti di sutura sulla faccia perché il 30 settembre è stato ferito da una granata atterrata su un tetto di lamierino sotto il quale aveva cercato di nascondersi. Spiega che lui è l’ultimo a guidare una macchina dentro Antonivka, nessuno lo fa più perché è una cosa che attira i droni. In ogni caso quando finisce le sue missioni, che di solito consistono nel trasportare gente, cibo e rifornimenti, parcheggia di nuovo fuori dal quartiere.
«Volano in sciami ad Antonivka», dice. «A casa di un vicino, un giorno un drone vola dentro e lancia una granata. Il giorno dopo torna di nuovo, e per tutto il giorno, sei volte di fila. Prima fanno scoppiare il tetto con un proiettile esplosivo, poi lanciano proiettili incendiari all’interno. La casa inizia a bruciare e il drone sta lì a osservare finché l’incendio non diventa più grande. Meno male che avevamo gli estintori. Lo abbiamo spento e quindici minuti dopo è arrivato un altro drone, sei volte fino a mezzanotte. È la norma da queste parti. Stanno bruciando tutto».
Mentre parla, Dmitry tiene aperto lo schermo del telefono su un canale Telegram dei dronisti russi che si chiama “Da Mariupol ai Carpazi” (è uno slogan che sostiene l’invasione russa: da Mariupol, città già occupata nell’est del paese, ai Carpazi, che sono i monti vicino al confine ovest del paese). Sono gli stessi dronisti russi a pubblicare i video dei loro attacchi contro i civili di Kherson e quindi le prove che stanno commettendo crimini di guerra, perché non fanno distinzioni tra bersagli civili e militari. Hanno pubblicato anche la mappa di una grande zona rossa che copre metà Kherson, scrivendo: «Qualsiasi veicolo in movimento sarà colpito». I droni bombardano anche oltre la zona indicata. Dmitry sostiene che sul canale i russi chattano a proposito della sua auto bianca, l’ultima a girare ancora dentro Antonivka.
I dronisti russi scrivono sul canale Telegram cose come: «Oggi un altro furbone su un bus ha deciso di provare a sfuggire ai cacciatori. È stato colpito. Ancora una volta. Che cosa pensavi di fare, stronzo?». Oppure pubblicano il video di un grosso tir che passa senza saperlo sotto un drone e commentano: «Che bestione. Oggi ti abbiamo mancato, ma ti becchiamo la prossima volta».
Dmitry ha fotografato le mine lasciate cadere dai droni. «Una era avvolta nella carta stagnola, una donna che stava spazzando non ha capito cos’era e l’ha presa, ha perso una mano». Si tratta delle Pfm-1, appena 75 grammi di peso con due alette di plastica, che i sovietici lanciavano dagli aerei in Afghanistan in modo che, sfarfallando, si disperdessero al suolo. I bambini le raccoglievano e restavano mutilati. Sono dette “pappagalli verdi”, che era diventato il titolo di un libro di Gino Strada, il fondatore di Emergency. Queste sono marroni. Sono passati trent’anni e sfarfallano ancora.
Le interviste con Svetlana, Alexander, Dmitry e altri sono state fatte al chiuso (con Tatiana al telefono). Quando si torna all’aperto c’è una cosa che si nota: il numero di civili ucraini in giro è comunque più alto di quanto ci si potrebbe aspettare in queste condizioni. Ogni tanto lanciano un’occhiata verso il cielo, per una controllatina, e parcheggiano le macchine tutte appiccicate le une alle altre sotto tettoie in cemento. Se sono nei quartieri meno colpiti, però, portano fuori il cane e comprano frutta dai furgoni degli ambulanti. Sono assuefatti al rischio. Camminano sotto gli alberi, ma è autunno, e le foglie sono già rosse e stanno per volare via.
Dentro una caffetteria Kristina, 24 anni, barista con i capelli tinti di rosso, racconta che lei fa il tragitto casa-lavoro a piedi. Certo che conosce il problema dei droni, tira fuori il telefono: mostra il video della macchina del fratello, distrutta da due granate mentre era parcheggiata. E non hai paura? Fa un sorriso timido. «Prendo delle pillole per la stabilizzazione dell’umore».