La ritorsione cinese ai dazi europei, col brandy

Il governo cinese ha annunciato nuovi dazi sul liquore europeo: creeranno problemi soprattutto alla Francia

Un bicchiere da brandy appartenuto al primo ministro britannico Winston Churchill, durante un'asta nel 2021 (AP Photo/Matt Dunham)
Un bicchiere da brandy appartenuto al primo ministro britannico Winston Churchill, durante un'asta nel 2021 (AP Photo/Matt Dunham)

Il ministero del Commercio della Cina ha annunciato che a partire da venerdì 11 ottobre introdurrà dazi sulle importazioni di brandy proveniente dall’Unione Europea: i dazi varieranno a seconda del marchio tra il 30,6 e il 39 per cento del prezzo del prodotto. Significa concretamente che gli importatori cinesi di brandy europeo si ritroveranno a dover pagare un prezzo maggiorato per ottenere la merce, il che ne farà aumentare di conseguenza il prezzo finale per i consumatori e nel lungo termine creerà un danno agli affari delle aziende europee che esportano in Cina.

La decisione è la prima vera ritorsione decisa dalla Cina contro i dazi sulle auto elettriche cinesi che l’Unione Europea ha confermato venerdì: saranno validi per cinque anni, e hanno l’obiettivo di ostacolare i produttori cinesi di auto sul mercato europeo. In seguito all’annuncio, molti si aspettavano che il governo cinese rispondesse con misure mirate a compromettere il commercio di prodotti europei di particolare successo in Cina, tra cui proprio il brandy.

I dazi sul brandy sono ancora provvisori: i rappresentanti cinesi ed europei stanno cercando da mesi di trovare un accordo, ed è possibile che vengano ritirati. Per ora alle aziende importatrici è chiesto il pagamento dei dazi solo sotto forma di deposito, e potranno riavere indietro la somma se poi la misura non fosse confermata. La Commissione Europea ha già fatto sapere che intende fare ricorso all’Organizzazione Mondiale del Commercio, l’ente internazionale che vigila sul rispetto delle convenzioni sui commerci.

I dazi sul brandy danneggeranno soprattutto la Francia, paese in cui sono presenti molte aziende del settore tra cui Hennessy e Remy Martin, le cui importazioni sono soggette ai dazi più alti, del 39 e del 38,1 per cento. Entrambe sono di proprietà del gruppo del lusso LVMH, le cui azioni martedì sono arrivate a perdere più del 4 per cento del loro valore proprio per l’annuncio sui dazi.

Non è un caso: la Francia è uno dei principali sostenitori dei dazi europei sulle auto cinesi. La Cina minacciava di imporre dazi sul brandy da mesi, tanto che già lo scorso maggio il presidente francese Emmanuel Macron accolse il presidente cinese Xi Jinping a Parigi proprio con due bottiglie di questo liquore.

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Il settore delle auto elettriche è particolarmente problematico per i rapporti commerciali tra Cina e Unione Europea. Alcuni paesi europei, tra cui la Francia, temono che la Cina stia usando indebitamente sussidi e aiuti di stato per avvantaggiare le proprie aziende (una pratica nota come “dumping”) e ottenere così il controllo di uno dei mercati più importanti dell’economia dei prossimi decenni. I produttori cinesi di auto riescono a vendere a prezzi bassissimi, mentre quelli europei, che non possono godere di sussidi simili, non riescono a competere e dunque potrebbero essere messi gradualmente fuori mercato. Sarebbe un grave problema per l’industria automobilistica europea, una delle più grandi al mondo: vale il 7 per cento del Prodotto Interno Lordo del continente e impiega 13 milioni di persone.

Un anno fa la Commissione Europea aveva avviato fa un’indagine anti-dumping, finita con l’effettiva verifica delle pratiche commerciali scorrette e l’imposizione dei dazi. Non tutti i paesi europei però sono d’accordo con le posizioni della Francia e della Commissione Europea, e venerdì la votazione per la conferma dei dazi è stata divisiva: la Germania per esempio teme che un atteggiamento troppo combattivo possa mettere a rischio le sue esportazioni verso la Cina e l’integrazione industriale che molte sue aziende hanno coi partner cinesi, da cui dipende una parte importante dell’economia. Anche l’Italia ha un approccio simile.

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