Lo sciopero a oltranza nelle aziende cinesi del distretto tessile di Prato
È iniziato domenica in cinque ditte per protestare contro lo sfruttamento sistematico e consolidato dei lavoratori
Domenica è iniziato uno sciopero a oltranza in alcune aziende a conduzione cinese del distretto tessile di Prato, il più grande d’Europa e il punto di riferimento per la produzione dell’abbigliamento “Made in Italy”: è conosciuto però anche per il sistema consolidato di sfruttamento della manodopera in molte delle aziende del distretto, che sono soprattutto cinesi. È indicativo che lo sciopero sia iniziato di domenica: è un giorno in cui le aziende dovrebbero essere chiuse, ma in realtà non lo sono praticamente mai.
Lo sciopero è stato indetto dal sindacato Sudd Cobas Prato-Firenze, che da tempo si occupa della situazione dei lavoratori di aziende di questo tipo e di promuovere al loro interno le 40 ore di lavoro settimanali. Secondo le denunce del sindacato, i lavoratori lavorerebbero invece più di 80 ore, 12 ore al giorno per 7 giorni alla settimana, in nero e senza tutele o a fronte di contratti part time non rispettati. Ad alcuni verrebbe chiesto di restituire la tredicesima, altri addirittura non avrebbero mai visto una busta paga.
Sono soprattutto persone dal Pakistan, un’altra comunità da cui è ampiamente popolata la zona dopo quella predominante cinese: capita spesso che a essere più sfruttati siano i richiedenti asilo, persone per cui è più difficile trovare lavoro e dunque accettano di tutto. «Non abbiamo mai avuto scarpe né guanti, nemmeno un cerotto se ci tagliavamo le dita. Ci parlano come fossimo animali. Per essere pagati dobbiamo sempre fare enormi pressioni», ha detto uno di questi lavoratori al Fatto Quotidiano.
Gli scioperi interessano cinque aziende nell’intorno di Prato: sono Confezione Lin Weidong, una fabbrica che si occupa di cucire e confezionare borse e cinture, Li Zhong Zipper, dove avviene il taglio delle zip su misura, tessitura Sofia, stireria Tang, e 3 Desy, piccola azienda di logistica. In quasi tutte queste aziende nell’ultimo anno c’è stato almeno un controllo dell’ispettorato del lavoro, che si è risolto con sanzioni irrisorie o la regolarizzazione di alcuni lavoratori con contratti part-time. A cui poi sarebbe stato imposto di lavorare comunque 12 ore al giorno, tutti i giorni.
Il deterrente dei controlli non è sufficiente, perché lo sfruttamento del lavoro è uno dei modi con cui queste aziende hanno continuato a guadagnare nonostante la grave crisi che ha colpito tutto il settore dell’abbigliamento negli ultimi anni. È un declino che sta riguardando sia la moda di lusso che marchi meno prestigiosi: oltre al settore industriale sta creando molti problemi anche a quel che è rimasto di quello artigianale, che è in crisi ormai dall’inizio degli anni Duemila. Le cause sono legate in gran parte alle guerre in Ucraina e nella Striscia di Gaza – che hanno ridotto le esportazioni dirette nei territori dove solitamente la moda italiana vendeva parecchio, come Russia e in tutto il Medio Oriente – ma anche al generalizzato cambiamento delle abitudini di chi compra.
Molte aziende rischiano di chiudere, altre hanno già chiuso, sono aumentate le richieste di cassa integrazione per i dipendenti da parte di diverse imprese e c’è un generale calo della produzione, per via del fatto che moltissime aziende sono rimaste senza ordini.
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