Ritorno in Israele, per vedere com’è cambiato

«Il paese si è rotto perché si stava rompendo già prima. Mancavo da quasi dieci anni, sapevo che avrei trovato una nazione scossa, eppure non ero preparata alla sensazione di straniamento che ho provato nel vedere un paese dove ho vissuto, che mi è entrato sottopelle, così cambiato, e in peggio. Credo ci vorranno ancora anni prima che storici e politologi riescano a inquadrare appieno la misura in cui quel giorno ha trasformato Israele, ma quello che ho visto è un paese incattivito, impaurito, in guerra con sé stesso e con il mondo, in balìa di un senso di inevitabilità. Volendo tirare le somme, l’Occupazione è entrata dentro Israele, l’ha contagiato come farebbe un virus»

(David Silverman/Getty Images)
(David Silverman/Getty Images)

Per capire cosa è diventato Israele dopo il 7 ottobre, bisogna capire cosa stava diventando già prima.

Gli amici che mi sono venuti a prendere mi hanno accolto con un abbraccio più lungo del solito. L’aeroporto era deserto, le bandiere e le foto degli ostaggi ovunque, ma non c’erano persone e, soprattutto, non c’erano aerei, perché le poche compagnie che si avventurano qui hanno paura di lasciare i velivoli fermi, a tiro di missile, dunque arrivano, fanno rifornimento, e poi ripartono. Anche la città mi è sembrata più vuota. Sono atterrata poco prima del tramonto e le strade di Tel Aviv, che un tempo mi erano così familiari, avevano qualcosa di irriconoscibile. Sulle facciate degli edifici, cartelloni enormi, luminosi, opprimenti, con la faccia del primo ministro e slogan accusatori: «In mille sono stati uccisi, sono sulla tua coscienza».

Dicono che le cose che troviamo più inquietanti sono quelle che conosciamo nel profondo e al contempo ci appaiono sconosciute. Sono stata in Israele, da dove mancavo da quasi dieci anni, a maggio, cioè otto mesi dopo l’attacco del 7 ottobre: sapevo che avrei trovato una nazione scossa, perché leggo i giornali e perché gli amici mi avevano avvertito che era peggio di quanto non sembrasse da fuori; eppure non ero preparata alla sensazione di straniamento che ho provato nel vedere un paese dove ho vissuto, che mi è entrato sottopelle, così cambiato, e in peggio. Credo ci vorranno ancora anni prima che storici e politologi riescano a inquadrare appieno la misura in cui quel giorno ha trasformato Israele, ma quello che ho visto io era un paese incattivito, impaurito, in guerra con sé stesso e con il mondo, in balìa di un senso di inevitabilità.

Il 7 ottobre c’è stata la più grande strage di ebrei dai tempi della Shoah, i terroristi di Hamas sono entrati dentro i confini israeliani come un coltello nel burro e hanno ucciso più di mille e cento persone, in alcuni casi stanandole casa per casa. È passato un anno e da allora sono successe così tante cose, è stato sparso così tanto sangue che, immagino, per alcuni ormai è un ricordo sbiadito. Gli israeliani hanno massacrato più di 42mila persone a Gaza e più di 2.000 in Libano, mentre in Cisgiordania i coloni violenti sono a briglia sciolta. In un contesto come questo, se qualcuno mi dicesse perché scrivi degli israeliani, e non dei libanesi o dei palestinesi, ecco, se qualcuno mi dicesse questo, io lo capirei pure. Ma questa è l’unica storia che so raccontare, perché questo è il posto che conosco, che ho chiamato casa, la sua gente è la mia gente.

Com’è possibile che Israele si sia spinto fino a questo punto? Penso a quello che mi aveva detto Robi Damelin, un’attivista di The Parents Circle, l’ong che riunisce genitori israeliani e palestinesi che hanno perso figli nel conflitto e che vorrebbero non succedesse più ad altri, quando le avevo parlato, poche settimane dopo l’attacco di Hamas: «La gente qui è terrorizzata, il trauma è così totale, i razzi così spaventosi, piovono dappertutto, a Tel Aviv, ad Ashkelon. Ma soprattutto la gente è umiliata, che è la cosa peggiore, perché l’umiliazione chiama vendetta, ti offusca la mente». E penso a quello che ha detto il giornalista di Haaretz Gideon Levy: «Se un solo attacco, per quanto così barbaro, è stato sufficiente a spingere così tanti israeliani a comportarsi in modo disumano, provate a immaginare che cosa sta facendo tutto questo ai palestinesi».

Nei giorni in cui sono stata lì, i razzi di cui parlava Robi, quelli lanciati da Hamas, a Tel Aviv non c’erano più. Nei primi due mesi della guerra da Gaza sono partiti quasi diecimila tra razzi, droni, missili sulle città israeliane: la gente viveva tappata nei rifugi, una mia amica, che ha due bambine piccole, mi raccontava che non riusciva a lavarle, perché, nel caso di un attacco, non avrebbe avuto il tempo materiale di portarle fuori dalla vasca. Però a maggio la situazione era tranquilla, Hamas ormai non aveva più la potenza di arrivare fino a qui, e persino l’attacco che aveva lanciato l’Iran il mese prima non aveva fatto troppi danni. Certo, al nord, oppure al sud, sarebbe stata tutta un’altra storia, c’erano 135mila sfollati, in fuga dalla Galilea e dalla regione di Israele al confine con Gaza (in ebraico si chiama Otef Aza, ovvero «ciò che avvolge Gaza», i media anglofoni spesso lo traducono come Gaza envelope, che però suona come fosse dentro la Striscia).

Tel Aviv però non è il paese reale, è la città più grande e ricca, è protetta dal sistema antimissilistico molto più delle periferie, dunque la guerra, vista da lì, era come un’ombra, lontana e vicina. Tutti erano un po’ depressi, quasi tutti avevano qualcuno al fronte. Poi, gli autobus. Una cosa che sarebbe stata ridicola, se non fosse stata tragica, erano i messaggi registrati sugli autobus. A ogni fermata partiva l’annuncio «siete arrivati alla via tal dei tali» seguito da uno slogan un po’ consolatorio e un po’ propagandistico, come «insieme siamo forti» oppure «supereremo tutto questo insieme». Gli autisti, che Dio li benedica, spesso li tagliavano a metà.

Un’altra cosa che mi ha colpito, anche se non c’entrava nulla con la guerra, era la presenza di due tipi di persone che un tempo a Tel Aviv si vedevano poco. Primo, gli ebrei religiosi: Tel Aviv è la città più laica di Israele, in passato mi capitava raramente di incontrarne, ma adesso erano una presenza visibile, specie nella zona dove alloggiavo, Ramat Aviv, un quartiere lontano dal centro che ricorda un po’ i Parioli. Poi, i palestinesi con cittadinanza israeliana. Anche loro una volta si vedevano poco a Tel Aviv, eppure i poliziotti che si sono seduti nel tavolo vicino al mio, in un caffè vicino al mercato Carmel, parlavano fra loro in arabo (in Israele ci sono anche ebrei che parlano arabo come prima lingua, ma sono anziani), ed era palestinese il farmacista che mi ha venduto i prodotti per la skin care che avevo promesso a mia figlia.

Il primo giorno la coppia che mi ospitava mi ha portato a una manifestazione. Non mi hanno chiesto se volevo andarci, lo davano per scontato, ci vanno tutti, ogni venerdì sera, e molte altre sere. L’appuntamento è a Kaplan, una delle strade più centrali di Tel Aviv, davanti alla Kiryà, il quartier generale dell’esercito, si manifesta per gli ostaggi, contro Netanyahu, e, con mia sorpresa, anche un po’ contro la guerra. Incontro gente che conosco, colleghi, amici, figli di amici, perché, se hai quarant’anni, in Israele, i tuoi amici cominciano ad avere figli grandi. Qualcuno mi regala una maglietta con scritto «Lo LeShavè», che significa «non invano», dove credo il messaggio fosse «non permetteremo al governo di distruggere Israele, dopo avere lottato per evitare che fosse distrutto da nemici esterni». Urlano «accordo! accordo!» e «cessate il fuoco». La cosa mi ha stupito un po’, dicevo, perché era una novità, maggio era proprio il periodo in cui le manifestazioni per gli ostaggi iniziavano anche ad essere manifestazioni per il cessate il fuoco.

Una delle critiche mosse più spesso al movimento pacifista israeliano è che non importa loro dei palestinesi, che chiedono la fine della guerra solo perché rivogliono gli ostaggi vivi, non perché gli faccia orrore vedere quarantamila palestinesi morti ammazzati. Questo non è proprio vero, però c’è del vero. Tra le persone con cui ho parlato non ce n’era una a cui non dispiacesse anche per i palestinesi, ma era come un secondo pensiero. Pensi prima di tutto ai tuoi, poi agli altri, che è una cosa molto umana, anche se, come molte cose umane, non è particolarmente bella.

Alla manifestazione ho visto molte insegne viola di Standing Together, un gruppo che riunisce giovani ebrei e palestinesi con cittadinanza israeliana e che col tempo è diventato una delle voci più forti della piazza. Loro erano stati i primi a schierarsi apertamente contro la guerra, fin da subito, mentre altre importanti organizzazioni pacifiste ci hanno messo un po’: B’tselem ha aspettato fino a dicembre prima di prendere una posizione per il cessate il fuoco, Peace Now a gennaio, e so che in alcuni gruppi c’è stato un meltdown, in altri invece palestinesi ed ebrei che per anni avevano lavorato insieme hanno smesso di parlarsi per un po’.

Il colpo del 7 ottobre è stato così feroce e così improvviso che ha disorientato tutti, anche la parte più sana della società. Ne ho parlato con un vecchio amico di cui preferisco non fare il nome, un collega un po’ più grande e molto più bravo di me. Ci incontriamo in un caffè nella zona vecchia della città, lui mi offre una shakshuka, il piatto tunisino a base di uova, importato dagli ebrei nordafricani giunti qui negli anni Cinquanta, è stanchissimo, nervoso, lavora quindici ore al giorno e ha un figlio al fronte. Non faccio domande, tira lui fuori l’argomento: «Non chiedermi di trovare l’empatia per l’altra parte, non ho lo spazio, non ce la faccio». Mi torna in mente una cosa che avevo sentito dire, qualche mese prima, da Ilana Dayan, una giornalista televisiva molto famosa per il suo programma investigativo Uvdà: «Prima o poi dovremo fare i conti con il dolore che stiamo infliggendo ai palestinesi di Gaza, vedere la distruzione. Ma non è difficile immaginare che una nazione col cuore spezzato è troppo rotta per avere una riserva di empatia».

In che senso una nazione rotta? Per capire cosa è diventato Israele dopo il 7 ottobre, bisogna capire cosa stava diventando già prima. Questo è un paese giovane, dove l’età mediana è 29 anni (e in Palestina è 19, l’età mediana è quella che divide a metà la popolazione) e dove le cose cambiano con una rapidità che in Italia è difficile da immaginare. È un paese che, come diceva l’editorialista Ari Shavit, poggia sulla sabbia, convive da sempre con l’idea che altri vogliano spazzarlo via. E, soprattutto, è un paese che da quasi sessant’anni occupa illegalmente un territorio dove vivono quasi tre milioni di palestinesi, che non sono cittadini israeliani, non godono di pieni diritti, non eleggono il governo che, nei fatti, decide delle loro vite, con un sistema che molti chiamano “apartheid”, e sinceramente non trovo una parola migliore.

Nell’ultimo decennio, forse negli ultimi due decenni, sono successe tre cose importanti e connesse fra loro. Primo, si è fatta strada l’illusione che la questione palestinese potesse essere dimenticata, che Israele sarebbe potuto andare avanti con l’Occupazione senza essere per questo in guerra. Secondo, quella che gli esperti chiamano la One State Reality: la Cisgiordania è stata annessa di fatto, se non sulla carta, la linea verde che separava Israele dai Territori occupati è come evaporata, per gli israeliani almeno (per i palestinesi, ovviamente, no), e il risultato è che l’Occupazione e il paese sono diventati tutt’uno.

Terzo, la vecchia guardia, la maggioranza di un tempo, sta diventando una minoranza. È un cambiamento demografico epocale. Fino a poco tempo fa gli ebrei laici, che credevano in uno Stato ebraico e democratico, con tutte le limitazioni e le contraddizioni del caso, erano una maggioranza netta, che conviveva con due minoranze con valori diversi: da un lato gli ultraortodossi, che non si riconoscono nell’idea di democrazia moderna; dall’altro i palestinesi con cittadinanza israeliana, che per ovvi motivi non si riconoscono nell’idea di Stato ebraico. Questi due gruppi, che oggi messi insieme rappresentano il 35 per cento della popolazione, sono anche quelli che tendono a fare più figli. Sono fatti collegati perché, volendo tirare le somme, l’Occupazione è entrata dentro Israele, l’ha contagiato come farebbe un virus.

Vado a Gerusalemme per trovare un’amica, giochiamo a fare le turiste, andiamo nella Città Vecchia, dove i negozi sono quasi tutti chiusi perché di turisti non se ne vede l’ombra, entriamo nel Santo Sepolcro che è deserto, tutto per noi.

Alloggio fuori dalle mura, a Emek Refaim, un quartiere verde e in tempi normali vivace, dove abitano molti americani e professori universitari. Era il quartiere di Hersh Goldberg-Polin, il ragazzo di 23 anni preso ostaggio il 7 ottobre e morto, pare giustiziato dai suoi carcerieri, ad agosto. Hersh nel quartiere lo conoscevano un po’ tutti, era molto attivo nella tifoseria dell’Hapoel, la squadra di basket di Tel Aviv, e negli ambienti di sinistra, ci sono le sue foto ovunque, appese sui balconi, nei ristoranti, davanti a una palestra, su qualcuna hanno incollato sticker dell’Hapoel o appoggiato una sciarpa.

Sono a Gerusalemme per vedere la mia amica, ma colgo l’occasione per incontrare un contatto di lavoro, una persona con cui volevo parlare dei cambiamenti che ho visto. «Una volta dicevamo che l’Occupazione corrompe, ma ormai dovremmo dire che l’Occupazione ha corrotto», mi racconta Yehuda Shaul, quando ci vediamo alla First Station, la vecchia stazione dei treni che oggi è un mercato semicoperto. Esattamente vent’anni fa, quando aveva appena finito il servizio militare, Yehuda ha fondato Breaking the Silence, l’ong di soldati israeliani che denunciano le violazioni dei diritti umani nei Territori, e ora lavora per Ofek, un think tank.

Il suo ragionamento è lo stesso che ho sentito da molti altri (su questo ha scritto un libro molto bello la politologa Dahlia Scheindlin): se ti abitui a opprimere gli altri con violenza, la violenza entra a fare parte di te. Per più di cinquant’anni Israele ha imposto un sistema antidemocratico nei Territori palestinesi che occupa, mentre si illudeva di potere restare una democrazia – magari imperfetta, ma pur sempre una democrazia – all’interno dei suoi confini internazionalmente riconosciuti. Ma alla lunga non puoi difendere la democrazia a casa tua mentre imponi una specie di apartheid agli altri. Alla fine anche il sistema antidemocratico entra a fare parte di te.

Ecco, la normalizzazione della violenza. Yehuda Shaul mi dice che quando è nata l’organizzazione, i racconti di Breaking the Silence su come erano trattati i palestinesi scioccavano il pubblico israeliano, la gente faceva domande, ora non se li fila più nessuno. Dal 2018 esiste perfino una legge che impedisce a quelli di Breaking the Silence di andare a parlare nelle scuole, non sia mai che gli alunni diventino troppo pacifisti.

Lui ha una teoria: il punto di non ritorno è stato nel 2016, con la vicenda di Elor Azaria, il paramedico dell’esercito israeliano che sparò a un miliziano palestinese già ferito e a terra, colpevole di avere sparato a un suo commilitone. Azaria finì in carcere, condannato da una corte marziale, ma il governo di destra lo dipinse come una vittima e costrinse il ministro della Difesa, che invece si era schierato coi giudici militari, a dimettersi. «Quello è stato lo spartiacque, il momento in cui la nuova classe dirigente ha detto alla vecchia che le regole non contavano più, ora comandiamo noi», dice Yehuda.

Quello che stiamo vedendo in questi mesi a Gaza è una reazione al 7 ottobre, ma anche il risultato della traiettoria che Israele aveva preso da un po’, un sostrato di incattivimento che c’era già prima, a cui si sono aggiunte la paura e la vendetta. Ricordo che nelle prime settimane dopo l’attacco di Hamas, gli amici e colleghi di Tel Aviv che vivevano nei rifugi dicevano speriamo che il conflitto non si estenda, che l’esito non sia quello in cui spera Hamas: costringere Israele a combattere in contemporanea su più fronti, in Libano, in Cisgiordania. Invece è successo, il conflitto si è esteso.

Qualche giorno fa l’Iran ha lanciato centinaia di missili su Tel Aviv e altre città. Nelle ore precedenti all’attacco, mi ha telefonato una cara amica, salutiamoci, mi ha detto, parliamo un po’, finché ne abbiamo la possibilità. Intendeva dire che i suoi figli sono dei rompipalle e i miei pure, chissà quando ci ricapita di avere una mezz’ora, ma intendeva anche dire altro. Le notizie di questi giorni sono il Libano e l’Iran, spero che qualcuno le racconti bene quelle storie, perché l’unica storia che posso raccontare io è quella di Israele, e mi spiace davvero che sia una storia brutta.

Anna Momigliano
Anna Momigliano

È una scrittrice e giornalista che ha vissuto in Israele e negli Stati Uniti. Suoi articoli sono apparsi su New York Times, Washington Post, The Atlantic, Rivista Studio e il quotidiano israeliano Haaretz. Sta scrivendo per Garzanti un libro su Israele.

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