C’è il copyright sulle immagini generate con l’AI?

Finora i tentativi di registrare le opere prodotte con i software di intelligenza artificiale sono falliti, anche perché sono esse stesse delle probabili violazioni

(Jason Allen/US Copyright Office)
(Jason Allen/US Copyright Office)

Nell’agosto del 2022 l’annuale concorso d’arte dello stato del Colorado, negli Stati Uniti, fu vinto da Jason Allen, all’epoca 39enne, con un’opera intitolata Théâtre D’opéra Spatial. Nei giorni successivi Allen precisò un dettaglio che era sfuggito alla giuria: il quadro era stato creato utilizzando Midjourney, un software di intelligenza artificiale in grado di generare immagini.

La notizia fece molto discutere perché all’epoca le AI generative erano ancora una novità per il pubblico generalista. Nell’aprile del 2022 OpenAI aveva reso disponibile online DALL·E 2, la seconda generazione del suo chatbot in grado di generare immagini, a cui seguì, nel luglio dello stesso anno, Midjourney, il servizio usato da Allen. Nel giro di poche settimane milioni di persone ebbero quindi l’occasione di provare programmi di questo tipo e si resero conto delle capacità di tali software, ispirando un dibattito sulla loro capacità di creare arte, e sulla possibilità che gli artisti possano rimanere senza lavoro a causa di queste tecnologie.

Nei giorni successivi Allen, programmatore e fondatore dell’editore di giochi da tavolo Incarnate Games, precisò di non aver violato alcuna regola del concorso e di non avere intenzione di scusarsi. In un’intervista al New York Times raccontò di aver scoperto Midjourney per caso, quando fu invitato in un server su Discord (app di messaggistica che viene spesso usata per interagire con Midjourney) dove si stava testando il software. Dopo alcuni giorni di esperimenti, Allen decise di partecipare al concorso d’arte, che aveva una sezione dedicata all’arte digitale e alla «fotografia manipolata digitalmente». Nella sua candidatura precisò che Théâtre D’opéra Spatial era stata fatta «con Midjourney», ma nessuno tra la giuria era al corrente che fosse un’AI.

Da allora Allen ha provato più volte a dimostrare di essere l’autore dell’opera e intestatario del suo copyright, ma le sue richieste sono sempre state rifiutate dall’Ufficio dei diritti d’autore degli Stati Uniti, secondo cui «l’Opera contiene più della quantità minima di contenuti generati dall’intelligenza artificiale». Allen provò infatti a dimostrare di aver modificato abbastanza dettagli del quadro con Photoshop da rendere l’opera “sua”, ma la decisione finale stabilì che l’immagine iniziale «rimane in forma sostanziale nell’opera finale». Secondo l’Ufficio dei diritti d’autore, quindi, l’opera non risulta «prodotto di autorialità umana».

Il confronto tra l’immagine generata da Midjourney e quella modificata da Allen, dalla relazione dell’Ufficio dei diritti d’autore degli Stati Uniti. (US Copyright Office)

Lo scorso settembre Allen ha presentato un ricorso in cui ha provato a dimostrare di avere avuto un ruolo attivo nella creazione del quadro. Per produrre l’immagine non si limitò infatti a fornire una descrizione testuale (o prompt) a Midjourney ma fece diversi tentativi, per correggere e indirizzare l’AI. Allen ha quindi provato a presentarsi come co-autore e a inquadrare Midjourney come uno strumento di espressione artistica al pari di Photoshop o altri software simili: un artista che realizza un’opera usando programmi di ritocco digitale, infatti, detiene l’autorialità del risultato finale. Allo stesso modo, si è difeso Allen, la generazione di Midjourney non fu così automatica visto che l’AI «impiegò almeno 624 minuti per generare l’immagine, se non di più».

Parte del ricorso di Allen riguarda le supposte perdite economiche che la decisione dell’Ufficio dei diritti d’autore starebbe costando all’artista. L’opera Théâtre D’opéra Spatial è utilizzabile da chiunque e viene anche sfruttata commercialmente, ad esempio sul sito Etsy, dove vengono vendute stampe del quadro. Tutto questo, ha concluso Allen, «mi ha messo in una terribile posizione, senza ricorso contro chi sta palesemente e ripetutamente rubando il mio lavoro», cosa che gli sta impedendo di guadagnare «diversi milioni di dollari».

Allen non è l’unico artista a rivendicare la paternità di un lavoro generato da un’AI. Nel 2023 l’informatico statunitense Stephen Thaler presentò un ricorso simile a un’altra decisione dell’Ufficio dei diritti d’autore statunitense, che nel 2018 si rifiutò di registrare l’opera A Recent Entrance to Paradise. L’opera fu realizzata «senza alcun input umano» nel 2012 da un’intelligenza artificiale sviluppata, chiamata DABUS (Device for the Autonomous Bootstrapping of Unified Sentience), sviluppata dallo stesso Thaler. Nonostante l’AI fosse stata sviluppata da Thaler, le immagini da questa prodotte non risultano di proprietà del suo creatore, in quanto prive di «autorialità umana», come stabilì nel 2023 un tribunale di Washington, DC.

A Recent Entrance to Paradise

Negli ultimi anni si è discusso dell’autorialità delle intelligenze artificiali soprattutto a causa del rapporto controverso tra le aziende che le stanno sviluppando e la tutela del diritto d’autore. Nel dicembre del 2023 il New York Times denunciò OpenAI e Microsoft per aver usato «milioni di articoli» del giornale per allenare e potenziare le loro AI, ed è solo uno dei molti procedimenti che sono stati aperti negli ultimi due anni contro le aziende tecnologiche. Tra queste anche società relativamente “minori” (in confronto a Microsoft e Google), come la citata Midjourney o Stability AI, che sono state denunciate da artisti per aver scaricato dal web enormi archivi audiovisivi al fine di permettere lo sviluppo dei loro modelli linguistici di grandi dimensioni, la tecnologia che si cela dietro alle AI generative.

Lo stesso fenomeno riguarda i video e i film: lo scorso marzo l’allora direttrice tecnica di OpenAI Mira Murati disse di non essere sicura che i video di YouTube fossero stati utilizzati per sviluppare Sora, l’AI in grado di generare video creata dell’azienda. Secondo una rivelazione del sito Proof, anche Apple, Anthropic e Nvidia avrebbero usato «migliaia di video YouTube» per allenare le loro AI. Tutto questo ha finito per diffondere l’idea che l’industria delle AI generative sia in parte costruita sul furto di proprietà intellettuale. Secondo uno degli avvocati di una causa di alcuni artisti contro Midjourney, Stable Diffusion e DreamUp, qualsiasi contenuto generato con questi strumenti è di per sé «un lavoro derivativo e in violazione del copyright».

È uno dei motivi per cui le battaglie legali di Allen e Thaler hanno ricevuto attenzioni mediatiche: nei loro ricorsi denunciano la mancanza di protezione legale mentre utilizzano strumenti che sono stati probabilmente “allenati” e sviluppati con opere protette da copyright, senza alcun rispetto dei legittimi autori.

Il problema del diritto d’autore sulle immagini generate dai software di intelligenza artificiale è in sostanza multiplo. Da una parte c’è quello del soggetto a cui attribuire l’opera, se il programma, chi lo ha sviluppato, chi ha realizzato le opere che il software usa per produrre nuovo materiale oppure chi ha fisicamente inserito i programmi per realizzare la nuova opera. E a monte c’è la questione di stabilire se la nuova opera, in quanto rielaborazione di materiale esistente realizzata da un software, si possa definire frutto di originalità e creatività, due requisiti che normalmente identificano le cose di cui si può registrare il copyright.

Lo scorso maggio è stato presentato al Senato italiano un disegno di legge sull’intelligenza artificiale, che tra i vari punti si occupa anche della questione del diritto d’autore. Le discussioni a riguardo sono ancora in corso, ma il testo propone di aggiungere alle opere considerate «dell’ingegno umano» anche quelle realizzate «attraverso l’utilizzo di si­stemi di intelligenza artificiale, purché costituenti risultato del la­voro intellettuale dell’autore».

Il diritto si interroga sui limiti dell’autorialità umana da prima dell’avvento di queste tecnologie. Uno dei casi più citati è quello dell’«autoscatto del macaco» e risale al 2011, quando in Indonesia un macaco di nome Naruto prese la macchina fotografica del fotografo naturalista britannico David Slater e finì per scattarsi dei selfie. Le immagini si diffusero molto online ma furono anche l’inizio di una lunga trafila legale per determinarne la proprietà intellettuale, che fu negata a Slate proprio perché a scattare le foto fu un essere privo di «autorialità umana».