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  • Domenica 6 ottobre 2024

Gli sgargianti pulmini del Kenya

Tanto amati quanto criticati, i "matatu" sono ricoperti di caotici graffiti e collegano il paese, rispettando poche regole

Passeggeri salgono su un matatu, nel 2020
Loise W. Macharia, CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons
Passeggeri salgono su un matatu, nel 2020 Loise W. Macharia, CC BY-SA 4.0 via Wikimedia Commons

Ogni giorno a Nairobi, la capitale del Kenya, migliaia di persone raggiungono la fermata dell’autobus e aspettano. La scena, di per sé, non è inusuale. Molti devono percorrere lunghe distanze ma non hanno un’automobile, e non possono permettersi di chiamare un autista privato con piattaforme come Uber, che negli ultimi anni si sono pur diffuse nelle città del paese. A essere fuori dal comune, però, sono gli autobus che aspettano.

Gran parte della popolazione keniana, infatti, fa affidamento sui “matatu”, piccoli pulmini privati quasi sempre ricoperti di graffiti con scritte, loghi e volti di personaggi della cultura pop internazionale, oppure da slogan politici e riferimenti religiosi. All’interno sono ancora più complessi: molti offrono wifi gratuito, impianti audio d’avanguardia, minischermi che trasmettono film o partite di calcio e illuminazioni a led che li fanno somigliare a discoteche mobili. Ce ne sono circa 12mila in tutto il paese, organizzati in cooperative chiamate “sacco”.

I primi matatu emersero prima dell’indipendenza del paese, nel 1963, per trasportare a basso costo la popolazione nativa, bandita dai trasporti pubblici ufficiali dal governo coloniale. Da allora sono più volte stati banditi o regolamentati senza grande successo, e vengono spesso accusati di inquinare moltissimo e rendere meno sicure le strade del Kenya, che ha un enorme problema di incidenti stradali.

Al contempo, attorno ai matatu dagli anni Novanta si è sviluppata una sottocultura urbana molto amata e piuttosto unica nel suo genere: come spiega la ricercatrice Kenda Mutongi in un lungo saggio dedicato alla storia di questi minibus, «i matatu per i giovani di Nairobi sono l’equivalente di ciò che i centri commerciali sono stati per i loro coetanei occidentali: un posto dove vedere gli altri ed essere visti, dove scoprire nuove mode e stili».

La parola “matatu” vuol dire “tre” in swahili: è un nome che è rimasto dagli anni Sessanta, quando una tratta con questi minibus costava tre monete da dieci scellini. Un biglietto per gli autobus dell’azienda pubblica Kenya Bus Services – istituita durante il periodo coloniale e gestita anche dopo l’indipendenza dall’Overseas Transport Company, con sede a Londra – costava quasi il doppio.

All’epoca, i matatu erano dei trabiccoli sgangherati, messi insieme raccogliendo vecchissimi veicoli e pezzi di ricambio fatiscenti, ed erano sostanzialmente illegali, dato che non avevano alcun tipo di licenza per trasportare regolarmente gruppi di persone. Eppure, ebbero fin da subito un enorme successo, sia perché fornivano un servizio molto conveniente in un momento in cui centinaia di migliaia di persone si stavano trasferendo dalle campagne alla capitale in cerca di lavoro, sia per la loro convenienza e per la grande flessibilità dei loro conducenti, pronti a modificare la rotta per portare i passeggeri più vicino a casa, o ad aspettare i clienti abituali se erano un po’ in ritardo. Anche per questo, nel tempo si è creato un forte vincolo di fiducia e sostegno reciproco tra gli autisti di matatu e i passeggeri, che si sono spesso schierati dalla loro parte nelle dispute con il governo o durante le ispezioni dei poliziotti.

Questo non vuol dire che i matatu siano universalmente amati. Anche dopo la deregolamentazione del settore, che nel 1973 permise sostanzialmente ai matatu di circolare senza licenza senza temere di essere multati, i minibus hanno continuato ad avere grossi problemi con il rispetto della legge e del codice della strada. Vari ministri dei Trasporti nel corso dei decenni hanno tentato di regolamentare il settore. La legge più severa, introdotta nel 2004, proponeva di costringere gli imprenditori di matatu ad abbandonare ogni riferimento alla cultura pop, standardizzare l’aspetto esteriore dei veicoli e obbligare i conducenti a indossare uniformi, oltre a installare regolatori di velocità e cinture di sicurezza funzionanti. Non fu mai davvero attuata, anche se nel 2018 si propose nuovamente di introdurla.

Oggi i conducenti non si fanno scrupoli ad aggirare il traffico ricorrendo a corsie d’emergenza e altre scorciatoie pericolose; sugli autobus ci sono sempre più passeggeri di quanto sarebbe permesso; latitano anche le misure di sicurezza più basilari, come per esempio le cinture. Recentemente un campione di 302 conducenti di matatu è stato sottoposto a un test per il rinnovo della patente: l’hanno superato in 54.

A questo si aggiunge il fatto che, per evitare che led, schermi e impianti audio all’avanguardia scarichino subito la batteria del veicolo, i conducenti sono costretti a tenere i motori sempre accesi, contribuendo al gigantesco problema di inquinamento della città. Altri ancora si lamentano dell’atteggiamento assunto da molti autisti di matatu, che tendono a essere molto sessisti e a offendere chiunque chieda loro di correre un po’ meno o abbassare la musica.

A proteggerli è, intanto, il fatto che i matatu stiano al centro di una grossa economia, ufficiale o meno: oltre ad autisti, controllori, meccanici e artisti che li decorano, dipendono dalla loro esistenza anche i tanti venditori ambulanti che vendono cibo, bevande e altri prodotti vicino alle fermate dei bus. Ma, soprattutto, i matatu sono un’istituzione, apprezzatissima non solo dai passeggeri meno abbienti, ma anche da quelli più istruiti e al passo con le mode.

Fino a quarant’anni fa, racconta Kenda Mutongi nel suo libro, «i matatu piacevano perché erano comodi, ma non erano particolarmente cool o alla moda»: le poche decorazioni che avevano facevano spesso riferimento a preghiere o passi della Bibbia. Lo diventarono a partire dagli anni Novanta, quando «i proprietari convertirono i nuovi veicoli in grandi discoteche mobili che diffondevano le ultime hit hip hop ad alto volume. Trasformarono l’esterno degli autobus in grossi cartelloni pubblicitari con slogan accattivanti e riferimenti alla cultura pop. Gli autisti adottarono un linguaggio proprio – lo sheng, una sorta di patois [un francese dialettale, ndr] ibrido e alla moda – per convincere i clienti a salire a bordo».

Ai nuovi passeggeri, giovani trendy appassionati all’hip hop statunitense che volevano conoscere nuova musica e persone che condividessero i loro gusti, non bastavano minibus qualsiasi: «i nuovi matatu dovevano offrire intrattenimento. Volevano godere di ogni confort, di tecnologia e di libertà. Più un imprenditore era in grado di offrire questi servizi, più riusciva a rendere unica l’esperienza del proprio matatu, maggiore era il suo successo», scrive Mutongi. Così, chi poteva permetterselo ha cominciato a importare impianti stereo e altoparlanti potenti dall’estero, dato che i clienti più giovani (e spesso più danarosi) erano attratti dalla musica più alta. «Nel loro insieme la musica, la moda e la sensazione di libertà che si respirava nello spazio chiuso del matatu trasmettevano ai passeggeri un emozionante senso di trasgressione», riassume la ricercatrice.

Per lo stesso motivo cominciarono a ingaggiare street artist perché aggiornassero i graffiti presenti sull’esterno dei loro matatu anche più volte all’anno. Farlo può costare anche l’equivalente di 3000 euro. Alcuni personaggi – Tupac, Snoop Dogg, Eminem, Nelson Mandela, Che Guevara, Malcolm X, Thomas Sankara, Barack Obama – sono richiestissimi da anni, altri seguono la moda: sono quasi sempre giocatori di calcio, attori, personaggi di grandi blockbuster statunitensi, politici, rapper afroamericani o keniani. A distinguere un matatu dall’altro è anche un nome che troneggia in caratteri cubitali sulla facciata del bus: e quindi c’è il matatu “Hot Wheels”, o “Awesome God”, o “Negotiator”, o “Total Pain”.

«Da un punto di vista pratico, nessuna di queste decorazioni è necessaria. Ai pendolari basta un veicolo pulito e disadorno per potersi godere un viaggio relativamente comodo. E l’attrattiva commerciale di autobus così elaborati non sembra giustificare gli sforzi e la spesa necessari a realizzare queste decorazioni: anzi, probabilmente matatu meno decorati consentirebbero tariffe più basse, che i passeggeri apprezzerebbero», scrive Mutongi. Questo non è successo perché, pur restando i mezzi di trasporto collettivo meno costosi e più utilizzati in Kenya, negli ultimi trent’anni i matatu sono effettivamente diventati anche l’espressione di una sottocultura.