Un gruppo di migranti intercettati in mare dalla cosiddetta Guardia costiera libica si inginocchiano sulla banchina di un porto, 23 maggio 2022 (AP Photo/Yousef Murad)

Abbiamo normalizzato gli accordi per fermare le partenze dei migranti?

Sono apprezzati da sempre più governi, anche a sinistra: sembrano lontani i tempi in cui il ministro Marco Minniti veniva criticato per gli accordi con la Libia

Da qualche anno in Europa diversi paesi hanno adottato una politica per ridurre l’arrivo di migranti che fino a non molto tempo fa era assai contestata, e oggi invece è molto più “normalizzata”: fare accordi con i principali paesi di partenza affinché blocchino le partenze, a qualsiasi costo, usando se necessario la forza e senza preoccuparsi delle sistematiche violazioni dei diritti umani da parte dei trafficanti di esseri umani e di varie milizie armate che controllano le rotte migratorie.

Dal 2016 a oggi l’Unione Europea o alcuni suoi stati membri hanno approvato accordi del genere con Turchia, Libia, Tunisia, Marocco e Mauritania, cioè i principali paesi di partenza dei migranti che provano a raggiungere l’Europa via mare. Sono paesi notoriamente meno attenti di quelli europei al rispetto delle norme del diritto internazionale nei confronti di migranti e richiedenti asilo. Accordi simili sono stati fatti anche con Egitto e Libano, per cercare di prevenire eventuali aumenti di flussi in futuro. Per il futuro si parla di potenziali accordi con l’Algeria e del rafforzamento di quelli già in vigore. È un approccio comune a governi di vari orientamenti: di recente il primo ministro britannico Keir Starmer, Laburista e quindi di centrosinistra, ha molto lodato gli accordi di questo tipo stretti dal governo italiano e dall’Unione Europea.

Da un certo punto di vista si può dire che accordi del genere abbiano funzionato, se si assume il punto di vista di chi li ha promossi. Gli arrivi via mare dalla Turchia, dalla Libia e dalla Tunisia, per esempio, non sono più tornati ai livelli precedenti agli accordi, stipulati rispettivamente nel 2016, nel 2017 e nel 2023. Le conseguenze però sono state enormi e allo stesso tempo poco raccontate, anche perché banalmente avvengono in paesi dove il lavoro dei giornalisti e delle associazioni che si occupano di diritti umani viene ostacolato dai governi locali.

In Libia da anni i migranti bloccati in mare vengono portati in centri di detenzione dove torture e stupri sono quotidiani. In Tunisia le forze di sicurezza hanno arrestato migliaia di migranti e li hanno abbandonati nelle zone desertiche del paese, senza cibo né acqua. In Turchia i profughi siriani – cioè le persone che l’accordo fatto nel 2016 con l’Unione Europea voleva bloccare e tenere sul territorio turco – sono assai discriminati e trattati come cittadini di “serie B”. Oltre a causare una quantità enorme di sofferenze fisiche, gli accordi coi paesi di partenza hanno legittimato dal punto di vista politico ed economico regimi autoritari e milizie impegnate in una guerra civile, come nel caso della Libia.

Fino a pochi anni fa, però, tutto questo non era la norma.

Una nave militare turca blocca un gommone sovraffollato di persone migranti nel Mediterraneo (Turkish Military via AP)

«Wir schaffen das»
Il primo di questi accordi, quello con la Turchia, fu una conseguenza diretta di quanto successe nel 2015, quando la guerra civile in Siria – e soprattutto i bombardamenti e le violenze dell’esercito del dittatore siriano Bashar al Assad e dei suoi alleati – spinse centinaia di migliaia di siriani a lasciare il proprio paese per cercare di arrivare in Europa.

Moltissime persone arrivarono in Turchia e si imbarcarono su gommoni sovraffollati verso le isole greche. Secondo i dati dell’agenzia ONU per i rifugiati circa 800 morirono annegati nelle acque fra Turchia e Grecia: fra di loro anche Alan Kurdi, un bambino di tre anni il cui corpo fu ritrovato sulle spiagge di Bodrum, in Turchia. La foto del suo corpo immobile bagnato dalle onde fu ripresa dai giornali di tutto il mondo. Chi riuscì ad arrivare sulle isole greche e poi in Grecia continentale proseguì a piedi percorrendo la cosiddetta “rotta balcanica”.

Una donna controlla il suo telefono dopo essere arrivata sull’isola greca di Kos a bordo di un gommone, 12 agosto 2015 (AP Photo/Yorgos Karahalis)

Insieme ai profughi siriani si unirono migliaia di altri migranti e richiedenti asilo provenienti soprattutto dal Medio Oriente e dal Nord Africa. Il flusso di persone fu così ingente che diversi paesi balcanici organizzarono pullman e treni per trasportare i migranti da un confine all’altro, nel tentativo di rendere più ordinato il flusso (ed evitare che i migranti rimanessero a lungo sul loro territorio).

Secondo i dati di Eurostat, l’ufficio statistico dell’Unione Europea, nel 2015 fecero richiesta d’asilo in territorio europeo 1 milione e 282.690 persone, un numero senza precedenti nella storia recente.

Un gruppo di migranti attende la partenza di un treno dalla stazione croata di Tovarnik, 18 settembre 2015 (Jeff J Mitchell/Getty Images)

In un primo momento le immagini di migliaia e migliaia di persone dirette verso l’Europa con lo zaino in spalla e in mano qualche sacchetto consumato, diffuse da tv e giornali, innescò un iniziale moto di solidarietà. Lungo la rotta balcanica furono attrezzati decine di punti di ristoro che offrivano cibo, acqua e vestiti alle persone in viaggio. Nelle stazioni di arrivo di treni e pullman, soprattutto in Germania, i migranti vennero accolti con quantità enormi di cibo, vestiti, scarpe, dolci e giocattoli per bambini. L’allora cancelliera tedesca Angela Merkel annunciò che la Germania avrebbe offerto una forma di protezione internazionale a tutte le persone che stavano scappando dalla Siria.

Un gruppo di profughi siriani nei pressi del confine fra Grecia e Macedonia del Nord, 6 maggio 2015 (AP Photo/Giannis Papanikos)

Merkel giustificò la sua decisione con tre parole, ripetute più volte nel corso di comizi, interviste e discorsi pubblici. Wir schaffen das. «Ce la possiamo fare». Il messaggio sottintendeva che a suo dire la Germania avesse la forza – morale, sociale ed economica – per accogliere e integrare i nuovi arrivati.

Poi piano piano le cose cambiarono. Già nel settembre del 2015 circa un terzo dei tedeschi rispose a un sondaggio di temere che l’accoglienza delle persone dalla rotta potesse mettere in pericolo i «valori sociali e culturali» del paese. La Germania non fu l’unico paese a cambiare approccio per via di un atteggiamento più insofferente da parte dell’opinione pubblica. In autunno gran parte dei paesi balcanici chiuse le proprie frontiere, nel tentativo di dirottare altrove la rotta e scoraggiare nuove partenze.

L’Unione Europea iniziò a negoziare un accordo col principale paese di partenza delle persone che stavano percorrendo la rotta balcanica: la Turchia.

Il 18 marzo 2016 il Consiglio Europeo, cioè l’organo dell’Unione di cui fanno parte i capi di stato e di governo dei 27 paesi membri, firmò un accordo col governo turco per rimpatriare in Turchia i richiedenti asilo arrivati via mare sulle isole greche la cui richiesta appariva infondata, dopo una valutazione sommaria. Alla Turchia vennero anche garantiti almeno 6 miliardi di euro per bloccare le partenze dei migranti e migliorare le condizioni dei milioni di profughi siriani che vivevano sul suo territorio.

A distanza di otto anni il numero di arrivi di migranti e richiedenti asilo delle isole greche si è molto ridotto, passando dagli 856mila del 2015 ai 305mila dei cinque anni successivi (il flusso, comunque, non si è mai interrotto del tutto).

Per scoraggiare ulteriori partenze, poi, il governo greco decise di non trasferire sulla terraferma i migranti che arrivavano sulle isole greche, creando condizioni complicatissime nei campi profughi. Nel 2020 nel campo di Moria dell’isola di Lesbo vivevano circa 13mila persone, a fronte di una capienza di poco meno di 2.500 (Moria è stato poi smantellato in seguito a un enorme incendio). Diverse persone rimasero in una condizione di limbo legale per mesi, a volte per anni.

Nel frattempo negli anni i rapporti fra Unione Europea e Turchia sono progressivamente peggiorati, per via del sempre maggiore autoritarismo del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan. La Turchia non collabora quasi più con le autorità europee, e anche per questo abbiamo soltanto una vaga idea di come siano stati spesi i circa 9 miliardi di euro forniti alla Turchia in base all’accordo. Dalle poche informazioni messe insieme da ong e osservatori indipendenti, non benissimo: ancora oggi circa un terzo dei bambini siriani che vivono in Turchia non frequenta la scuola, e molti di loro vengono sfruttati come manodopera a bassissimo costo.

L’accordo fra Turchia e Unione Europea fra l’altro è contenuto in una specie di comunicato informale: non è stato inserito in un vero e proprio trattato internazionale, che avrebbe potuto essere contestato più facilmente nei tribunali europei.

Gli esperti di diritto internazionale se ne accorsero già nei primi anni, denunciando la sua natura inconsueta e la «strumentalizzazione delle vite dei migranti da parte della politica internazionale». Già nel 2016 diverse organizzazioni internazionali criticarono duramente l’accordo: l’ufficio europeo della Croce Rossa lo definì come una conseguenza di «una mancanza di empatia e umanità», e nei suoi vari anniversari continua a essere criticato e descritto come generatore di dolore e sofferenze. Dall’altro lato diversi leader politici nonché think tank vicini al mondo politico ne hanno apprezzato l’efficacia nel ridurre degli arrivi via mare.

A prescindere dalla valutazione sui suoi risultati, molti sono concordi nel definirlo un punto di partenza, una specie di modello, per diversi accordi simili presi negli anni successivi.

Un gruppo di richiedenti asilo attende di salire a bordo di un pullman dopo l’arrivo in un porto greco, 29 settembre 2020 (Milos Bicanski/Getty Images)

L’Italia e la Libia
Una cosa simile la si è osservata anche in Italia. Nel 2013, dopo un enorme naufragio a Lampedusa in cui morirono almeno 368 persone, l’allora governo di centrosinistra guidato da Enrico Letta avviò una operazione militare per soccorrere i migranti che cercavano di raggiungere l’Italia via mare, chiamata Mare Nostrum. Nell’anno in cui rimase attiva, l’operazione soccorse 100.250 persone, secondo i numeri forniti nell’ottobre del 2014 dall’allora ministro dell’Interno Angelino Alfano.

In pochi mesi però il clima politico sull’immigrazione cambiò. I partiti di destra accusarono Mare Nostrum di alimentare le partenze di migranti dal Nord Africa (senza fornire prove concrete). Anche all’interno del Partito Democratico, di cui faceva parte Letta, aumentarono le voci critiche. «Si temeva di perdere voti, con quella missione», disse Letta anni dopo. Nel febbraio del 2014 il PD spinse Letta alle dimissioni e lo sostituì con l’allora segretario del partito Matteo Renzi.

Pochi mesi dopo Renzi fece chiudere Mare Nostrum e la sostituì con Triton: un’operazione molto più piccola e che non aveva l’obiettivo di soccorrere i migranti, ma di presidiare i confini marittimi dell’Unione Europea grazie al coinvolgimento della neonata agenzia Frontex. Da allora non sono state più avviate operazioni di soccorso simili a Mare Nostrum, e l’approccio dei governi che si sono succeduti (di tutti gli orientamenti) è stato quello di bloccare le partenze nei paesi da cui salpano le imbarcazioni dirette in Italia.

Il primo accordo di questo genere, approvato appena un anno dopo quello fra Unione Europea e Turchia, lo strinse nel 2017 il governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni col governo libico riconosciuto da gran parte della comunità internazionale, allora guidato da Fayez al Sarraj. L’allora ministro dell’Interno Marco Minniti giustificò l’accordo dicendo che il grande aumento di arrivi di migranti sbarcati quell’anno in Italia lo aveva spinto a temere per la «tenuta democratica» del paese (si discusse moltissimo di quella frase, che poteva essere interpretata anche in senso meno discriminatorio nei confronti dei migranti).

Marco Minniti durante l’annuale raduno organizzati da Fratelli d’Italia a Roma, 16 dicembre 2023 (ANSA/ANGELO CARCONI)

L’accordo prevedeva in sostanza di finanziare, addestrare e fornire mezzi alla cosiddetta Guardia costiera libica, formata soprattutto da milizie armate che combattevano per al Sarraj nella sanguinosa guerra civile in corso ancora oggi in Libia. Come hanno dimostrato diverse inchieste giornalistiche in diversi casi i miliziani della Guardia costiera libica erano anche in combutta con i gestori dei centri di detenzione per migranti in Libia, dove torture e stupri sono quotidiani.

In certi casi erano proprio le stesse persone: è stato il caso di Abdul Rahman al Milad, detto Bija, importante dirigente della cosiddetta Guardia costiera libica e noto trafficante di esseri umani sanzionato dall’ONU e dall’Unione Europea. Al Milad è stato ucciso in circostanze ancora pochi chiare all’inizio di settembre 2024.

Al Milad intervistato dalla giornalista Francesca Mannocchi per “Propaganda live”, nel 2019

Gli accordi con la Libia furono confermati anche dai governi successivi, guidati rispettivamente da Giuseppe Conte, Mario Draghi e Giorgia Meloni: il PD li difese fino al 2022, quando iniziò a votare contro il finanziamento del loro rinnovo in parlamento. L’attuale segretaria Elly Schlein è da sempre contraria.

Fra il 2016 e i primi sei mesi del 2017, cioè il periodo appena precedente agli accordi fra l’Italia e il governo libico di al Serraj, arrivarono via mare in Italia circa 265mila migranti. Un numero paragonabile di persone sarebbe arrivato soltanto nell’arco dei successivi cinque anni, cioè dal giugno del 2017 alla fine del 2022. Gli arrivi in Italia si ridussero, così come le morti in mare: nel 2016 erano state 4.578 nella rotta fra Nord Africa e Italia, e da allora non siamo mai tornati vicini a quei numeri.

C’è ragione di credere però che a causa dell’accordo con la Libia le sofferenze fisiche e psicologiche dei migranti siano aumentate, e che le morti che prima avvenivano in mare da qualche anno avvengano a terra. A partire dal 2017 la guardia costiera libica ha intercettato con la forza e riportato in Libia decine di migliaia di persone. Gran parte di loro viene portata nei centri di detenzione per migranti dove vengono torturati, stuprati, picchiati e ricattati, oltre che sfruttati come manodopera. Abbiamo soltanto una vaghissima idea di quante persone siano morte in questi centri, o per le violenze generalizzate delle milizie libiche.

Nel dicembre del 2018 l’ONU pubblicò un rapporto basato su circa 1.300 testimonianze secondo cui «la stragrande maggioranza di donne e ragazze adolescenti intervistate dalla Missione di supporto dell’ONU in Libia ha raccontato di avere subito uno stupro di gruppo dai trafficanti e dai loro collaboratori». In Libia c’è da anni una notevole sovrapposizione fra autorità e trafficanti: in diversi centri gli stupri vengono compiuti proprio dalle guardie o dai gestori. Un altro rapporto dell’ONU del 2023 ritiene credibile che avvengano stupri nei centri di detenzione nei principali porti libici di partenza: su tutte le città di Zuwarah e Sabratha. Talvolta nei pressi dei centri di detenzione per migranti si scoprono grandi fosse comuni: a marzo ne è stata scoperta una con almeno 65 corpi nel sudovest del paese.

Accedere in Libia è quasi impossibile per i giornalisti italiani e occidentali: capire e documentare cosa accade nei centri di detenzione per migranti e più in generale nel paese è insomma complicatissimo, e anche per questo sui giornali europei spesso non se ne trova traccia.

Un gruppo di persone detenute in un centro per migranti alla periferia di Tripoli, in Libia, 27 aprile 2019 (AP Photo/Hazem Ahmed)

Anche nel caso della Libia gli accordi hanno “funzionato”, dalla prospettiva del governo italiano: il numero di arrivi via mare si è ridotto e ormai da qualche anno si è stabilizzato. Nel 2023 invece si è osservato un improvviso aumento di migranti dalla Tunisia, quindi sulla rotta che porta quasi sempre all’isola di Lampedusa.

Infine, la Tunisia
Secondo i dati del ministero dell’Interno italiano, dal primo gennaio 2023 al 16 luglio 2023 sono arrivati via mare in Italia 77.906 migranti dalla Tunisia: più del doppio di quelli che erano arrivati nel 2022 nello stesso periodo, cioè 32.737.

L’aumento di arrivi è stato dovuto alla decisione del governo autoritario tunisino, guidato da Kais Saied, di addossare ai migranti subsahariani che in molti casi erano già presenti nel paese la responsabilità dell’enorme crisi economica e sociale in cui la Tunisia si trova da anni. La campagna di Saied ha avuto conseguenze concrete: molte famiglie si sono ritrovate senza casa, sfrattate dalle abitazioni che avevano in affitto, e senza lavoro. Per ridurre il numero di arrivi però l’Unione Europea, su forte pressione del governo italiano di Giorgia Meloni, ha scelto di affidarsi proprio al regime di Saied, con un accordo simile a quello preso con le autorità libiche.

Nell’estate del 2023 l’Unione Europea ha stretto un accordo con Saied per finanziare e dotare di nuovi mezzi la Garde Nationale tunisina, una forza di sicurezza che fra le altre cose svolge anche le funzioni di Guardia costiera. Dall’estate del 2023 a oggi la Garde Nationale ha intercettato in mare con la forza almeno 100mila migranti.

Un agente della Garde Nationale tunisina ferma un’imbarcazione di migranti subsahariani diretta in Italia, 18 aprile 2023 (AP Photo)

In Tunisia i migranti riportati a terra non vengono trasferiti in centri di detenzione come in Libia, bensì abbandonati a migliaia lungo i confini desertici del paese con l’Algeria o la Libia. Spesso in quell’occasione le donne vengono sistematicamente stuprate: una recente inchiesta del Guardian stima che nell’ultimo anno e mezzo centinaia di donne migranti siano state stuprate dalla Garde Nationale tunisina, finanziata e attrezzata con i soldi europei.

Anche in questo caso, gli accordi hanno “funzionato”: gli arrivi via mare dalla Tunisia si sono molto ridotti, cosa che il ministro dell’Interno italiano Matteo Piantedosi ha potuto sottolineare in più occasioni. Ad agosto per esempio in una conferenza stampa di bilancio delle attività del ministero, Piantedosi ha detto che «il rafforzamento della collaborazione con i paesi di origine e transito dei flussi migratori» ha fatto in modo che nel 2024 sia «stata impedita la partenza di quasi 60mila migranti dalle coste di Libia e Tunisia».

Negli anni scorsi accordi simili di minore entità sono stati stretti col Marocco, con l’Egitto e soprattutto più di recente con la Mauritania, da cui da qualche mese salpa gran parte delle persone che cerca di arrivare alle isole Canarie, in Spagna, dalle coste dell’Africa occidentale.

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