Uno screenshot del profilo Instagram di Pis’mo Svobody-Letters of freedom, un’associazione armena che promuove la corrispondenza con i prigionieri politici russi e pubblica le loro risposte

Scrivere ai prigionieri politici russi

«Avevo scoperto la possibilità di mandare lettere ai detenuti in Russia sulla homepage di "Meduza". I prigionieri politici sono quasi mille e tra loro ci sono ragazzini di appena sedici anni, studenti universitari, una tiktoker bionda che immagineresti avvolta da abiti firmati, donne e uomini di mezza età. Molti sono stati condannati a pene ingiuste e sproporzionate: 9 anni per aver messo un like a un post contro la guerra in Ucraina, 6 anni per aver fatto la terapia ormonale, 12 anni per aver donato 30 dollari a una ONG ucraina. La colpa principale di Dmitrij era stata fotografare ponti a Vladivostok. Quando ho visto il drago che aveva disegnato, ho deciso di scrivere a lui»

Lo scorso maggio il profilo Instagram di Pis’mo Svobody-Letters of freedom – un’associazione armena che si dedica alla corrispondenza con i prigionieri politici russi e pubblica le loro risposte – ha annunciato l’arrivo di un pacchetto di lettere di un cinquantenne di Vladivostok, Dmitrij Kulikov. C’era anche un suo disegno dal carcere: un meraviglioso dragone dorato, fatto probabilmente a gennaio per l’inizio dell’anno del drago.

Aspettavo una scusa per scrivere a un prigioniero politico da quando, mesi prima, avevo scoperto che chiunque, da ogni parte del mondo, può inviare lettere ai carcerati russi. Adesso sapevo che avrei scritto a lui. A un uomo che viveva nell’ultima tappa della Transiberiana, al confine – anche culturale, come aveva dimostrato con il suo disegno – con la Cina, e che si dichiarava “fotografo amatoriale”. A giudicare dalle due lettere pubblicate sull’account, sembrava quel tipo di russo pronto a filosofeggiare fino a notte fonda, come ne avevo incontrati tanti quando avevo studiato a Mosca, una di quelle figure tolstojane che esistono in quantità in Russia.

A Mosca avevo trascorso diversi periodi, ogni volta in università diverse. Essere un’italiana che parlava russo attirava molte persone che sembravano affamate di un confronto culturale. Era vent’anni fa: Putin faceva già la guerra in Cecenia, ma si poteva ancora protestare in piazza. Alla prima Biennale d’arte contemporanea di Mosca si respirava ancora un’aria di perestrojka e speranza. In uno dei pensionati in cui avevo alloggiato, una sera, nella cucina comune, un professore di fisica aveva contestato la teoria prevalente secondo la quale il popolo russo abbia bisogno di un leader forte. Dmitrij mi faceva pensare a tutto questo.

Certo, scegliere la persona che si distingueva di più grazie a quel suo dragone dorato, forse era immorale. Avevo scartato tante babuški che a casa avevano lasciato figlie e nipoti, a loro volta abbandonate dagli uomini partiti per la guerra. Ma volevo che Dmitrij scrivesse anche a me della grafica dei crisantemi sui francobolli cinesi degli anni Sessanta o di come per affermare un diritto fossero morte 60 milioni di persone.

Avevo scoperto della possibilità di scrivere ai prigionieri politici russi lo scorso gennaio, sulla homepage di Meduza, testata indipendente russa che il governo considera «agente straniero» e che in Russia è accessibile solo con un’app o tramite VPN, le reti private che permettono di comunicare in modo anonimo anche tra Stati diversi. Una fitta e frequente corrispondenza, spiegava Meduza, offre sostegno morale ai detenuti e rappresenta la loro unica fonte di informazioni da fuori. A volte può essere anche una forma di protezione: chi ha molti contatti con l’esterno è più al riparo dai maltrattamenti dei secondini.

Alcuni link portavano agli elenchi dei prigionieri politici, sempre aggiornati e con nomi, età, capi d’accusa, a volte foto. C’erano ragazzini di appena sedici anni, studenti universitari, una tiktoker bionda che immagineresti avvolta da abiti firmati e non da bandiere pacifiste, ma soprattutto volti come tanti, donne e uomini di mezza età, e nomi seguiti da dati incolori. Ricordo bene di aver letto i numeri in cima alle pagine: nel gennaio scorso circa 600 persone erano detenute in custodia cautelare nelle carceri e nelle colonie penali per motivi politici. Oggi sono poco più di 1000 di cui circa 300  condannate a pene ingiuste e sproporzionate: 9 anni per aver messo un like a un post contro la guerra in Ucraina, 6 anni per aver fatto la terapia ormonale sostitutiva per la riassegnazione di genere, 12 anni per aver donato 30 dollari a una ONG ucraina sono condanne comuni.

Su Meduza era indicato anche un sito, F-PISMO, che permette di inviare e-mail, che poi vengono stampate, nella maggior parte delle carceri e delle colonie penali della Russia. L’articolo diceva che ogni mese vengono spedite dalla centinaia alle migliaia di lettere e cartoline alle prigioniere e ai prigionieri politici in Russia, che rispondono quasi sempre, a distanza di settimane o di mesi, a seconda dei tempi dello smistamento della posta o del lavorio della censura carcerari. Era successo che chi un tempo quelle lettere le scriveva, fosse poi in carcere a riceverle.

Approfondendo la ricerca su Internet avevo trovato diverse lettere di prigionieri politici, pubblicate da gruppi e associazioni internazionali che promuovono questo tipo di corrispondenza e spesso organizzano giornate in cui riunirsi e scrivere tutti insieme. L’hashtag mi aveva portato sul profilo Instagram di Pis’mo Svobody – Letters of freedom, dove mi ero imbattuta nei messaggi di Dmitrij e degli altri detenuti. L’algoritmo mi mostrava i loro post ogni giorno. Alcuni nomi erano ricorrenti, nei mesi potevo seguire la loro storia, gli arbitrari trasferimenti da un carcere all’altro, lungo distanze di pochi o migliaia di chilometri, come in una reminiscenza dell’arcipelago Gulag. E infatti, come nelle lettere dai Gulag, c’erano l’eterno inverno e la cella fredda, l’attesa del primo verde nel disgelo.

«Com’è il tempo da te? Immagino che faccia più caldo di qui». Il tempo atmosferico era la prima e più frequente apertura immaginifica sul mondo di fuori. Le richieste di foto di piante e fiori da paesi più caldi mi facevano pensare alle testimonianze degli astronauti, a cui della Terra manca soprattutto la natura. Qualcuno scriveva che senza quelle lettere sarebbe ammattito dietro le sbarre. Qualcun altro che, quando era ancora in libertà, sapere che avrebbe ricevuto la corrispondenza, nel caso lo avessero arrestato, lo aveva incoraggiato a non mollare. Le domande erano ordinarie, a volte bislacche: «Quali film hai visto? Sei andata a qualche concerto? Quante auto elettriche sono state vendute nel mondo quest’anno? Puoi mandarmi i meme che girano in questo periodo?»

Il tono mediamente prosaico, lieve, delle lettere è in parte motivato dalla necessità di aggirare la censura. Diversi siti forniscono consigli in merito e seguirli significa dare più chance al proprio messaggio di attraversare le sbarre. La politica, la guerra e Putin sono naturalmente argomenti proibiti, ma in questi vademecum si trovano anche raccomandazioni meno scontate che sono un compendio della tragicità e del grottesco della dittatura: l’arbitrio (non usare gli smiley), la praticità (vietate le parole straniere), la paura della cultura (niente citazioni letterarie).

Leggendo le lettere mi facevo sempre più l’idea che, nell’insieme, rappresentassero un nuovo genere letterario, o almeno un nuovo sub-genere di lettere dal carcere, in cui la censura accelera l’intimità. «Com’è andata la festa di compleanno?» era la prima domanda di una lettera. Ma non è solo la censura a far adagiare i contenuti su inezie quotidiane, classifiche sportive, resoconti di viaggi, pranzi in famiglia, a far inviare cartoline colorate, come se si invitasse a una grigliata in giardino persone chiuse in una cella. I vademecum consigliano di scrivere di argomenti positivi, di far sentire i prigionieri parte della vita di fuori, una vita confortante e meno connotata dagli abusi.

La prima lettera è la più difficile, spiega un sito russo. E infatti, dopo poche righe, mi ero già bloccata. Nella mia procrastinazione, mi ero messa a cercare Dmitrij Kulikov su Google. Il primo risultato era la sua scheda con i capi d’accusa, che conoscevo già: aveva partecipato a manifestazioni contro la guerra in Ucraina, ma, a quanto pareva, la sua colpa principale era stata fotografare ponti. A differenza dei nomi di altri prigionieri politici che avevo googlato, il suo compariva in diverse notizie, in particolare in un’inchiesta dell’edizione russa della BBC su alcune attività di controspionaggio al confine orientale russo. Nel solo 2023 erano stati accertati almeno 6 arresti sospetti per i media indipendenti. Altre persone erano state accusate di aver venduto alla Cina informazioni su armi nucleari russe.

Dall’inizio della guerra in Ucraina sempre più cittadini russi vengono arrestati per accuse amministrative e in seguito incriminati per fatti che giustifichino una più grave condanna per tradimento. Era stato facile trovare tra le foto amatoriali di Dmitrij, quelle di alcuni ponti. Lo scorso marzo è stato condannato a 12 anni per aver fotografato infrastrutture strategiche per conto dell’Ucraina. Come ha dichiarato a BBC.ru un’avvocata specializzata in questo tipo di casi: «tra avvocati scherziamo dicendo che in ogni regione c’è una spia». In una sua lettera Dmitrij ha scritto che «il Paese si è diviso tra chi ha avuto la sfortuna di non avere la libertà e chi ha avuto la sfortuna di fare il guardiano», rievocando una Russia staliniana divisa tra repressi e delatori.

In questi anni la guerra ha diviso soprattutto i nuclei familiari, mi dice Giulia De Florio, vice presidente di Memorial Italia, l’associazione del network di Memorial, l’ong russa per i diritti umani e la memoria storica nata a Mosca alla fine degli anni Ottanta e oggi parzialmente chiusa dal governo: «Da una parte la guerra ha compattato la popolazione ucraina, dall’altro ha frammentato quella russa spaccando le famiglie tra chi era favorevole e chi no, a maggior ragione se un membro della famiglia finiva dietro le sbarre». Spesso i prigionieri politici perdono i legami con amici e parenti, che preferiscono tagliare i ponti per delusione, rabbia o paura di essere associati a loro, e quindi smettono di ricevere lettere o assistenza dalle persone che più dovrebbero sostenerle. All’isolamento si somma altro isolamento.

Eppure per i russi intrattenere una corrispondenza con le persone detenute per motivi politici non è pericoloso. Mi spiega Giulia De Florio: «Gli avvocati dei diritti umani assicurano che non ci sono rischi anche perché la definizione di ‘prigioniero politico’ è delle ong, non istituzionale e questo tutela chi scrive. Per il sistema russo i prigionieri politici sono prigionieri come tanti altri, non hanno un’etichetta speciale addosso». La paura di conseguenze è figlia della logica di chi vive in un regime ed è per questo, forse, che scrivere ai prigionieri politici può essere considerato una forma di resistenza. Quando Putin ha invaso l’Ucraina, centinaia di migliaia di russi sono scappati all’estero: per loro pescare da un elenco il nome di un prigioniero politico e scrivergli è stato l’unico modo di sentire di fare la propria parte.

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Prima di riprendere in mano la lettera per Dmitrij sono tornata ai suoi ponti. Vladivostok ne ha due e, se li si cerca su Google Maps, si capisce subito che sono molto fotogenici. Il Russkij Most, lunghissimo, in mezzo alla nebbia o sorvolato dai gabbiani. Lo Zolotoj Most di notte, bianchissimo, ai due estremi della baia che dà sul mar del Giappone. Sono due ponti strallati, scopro, ma prima di perdermi in una ricerca che mi allontanerà di nuovo dalla lettera, mi fermo. Tanto dei ponti non potrò parlare. Se Dmitrij vorrà, lo farà lui.

I due ponti di Vladivostok, lo Zolotoj Most in alto e il Russkij Most (via Google Images)

I detenuti a volte sembrano meno preoccupati della censura di chi scrive loro. Il dissidente Ilya Yashin, liberato in uno scambio di prigionieri con gli Stati Uniti a inizio agosto, scriveva tutto ciò che voleva, eppure le sue lettere uscivano lo stesso dal carcere. Chiedo a Giulia De Florio come sia stato possibile, secondo lei: «I motivi possono essere diversi. I censori possono essere più laschi perché hanno un briciolo di umanità, ricordiamoci che sono sempre persone. Il singolo (e parlo anche dei giudici) può decidere fin dove spingersi con gli strumenti che ha a disposizione. D’altro canto può essere anche una strategia di chi sta al potere: reprimere tutte le voci dei dissidenti non conviene perché la repressione totale attira di più l’attenzione. I post o le lettere dei carcerati non rappresentano una minaccia reale per il governo, ma se queste persone vengono messe totalmente a tacere o scompaiono allora la notizia arriva in Occidente».

Nonostante questo sentivo che la mia lettera – per di più dall’Italia – avrebbe dovuto essere immacolata. Ogni volta che iniziavo dovevo fermarmi. Avrei voluto fare a Dmitrij una domanda innocente: «Com’è vivere nell’estremo est della Russia, al confine con Paesi tanto diversi?», ma già la parola “confine” poteva essere rischiosa in una lettera a una persona condannata per spionaggio. Ecco perché molti finivano per parlare della natura: un argomento sicuro, ma vasto ed evocativo. L’avrei presa molto alla lontana. Forse non ci saremmo mai arrivati. Avrei parlato di me e, per sicurezza, non avrei fatto cenno ai miei soggiorni a Mosca, per il momento.

«Caro Dmitrij, […] sono cresciuta in Sicilia e forse per questo il mio albero preferito è il melograno. Quando sono nata, i miei genitori ne hanno piantato uno. Alle elementari tutti i bambini italiani imparano a memoria una poesia dove il melograno compare in un’immagine dolorosa e struggente. Lì ho capito che era proprio la mia pianta. A proposito, il frutto ha una bellezza orientale, non trova? Non sarebbe mai potuto nascere nel Nord Europa, con quelle corone e i suoi innumerevoli semi, come tanti cuscini color rubino. È un frutto da pascià. Quanto al mio melograno, negli anni mio padre l’ha innestato con altre varietà del Mediterraneo, tuttavia non penso che abbia alterato la pianta originaria. Anch’io, trasferendomi da una città all’altra, sento di essere stata innestata. E lei, Dmitrij?»

Sono ancora in attesa di risposta, ma so che i tempi sono lunghi e che presto o tardi riceverò dal carcere di Vladivostok una busta bianca con il mio indirizzo ingabbiato dentro linee e riquadri neri. Io conosco il russo e posso scrivere facilmente, ma le associazioni si stanno attrezzando per superare anche la barriera linguistica. Il gruppo di difesa dei diritti umani OVD-info traduce e invia gratuitamente messaggi e immagini nelle carceri russe con il progetto Letters across borders. Il suo ultimo, bellissimo progetto, lanciato ad agosto, è un sito dove i prigionieri politici, con i loro indirizzi, compaiono in ordine di chi riceve meno lettere: in ordine di solitudine.

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