L’atollo nell’oceano Indiano in cui quasi nessuno può entrare
Il Diego Garcia è considerato uno dei posti più segreti al mondo e ospita una base militare statunitense su cui girano da sempre molte storie: una giornalista della BBC ci è andata di recente
Il Diego Garcia è l’atollo più grande tra la sessantina di isole e isolotti che compongono l’arcipelago delle isole Chagos e non sarebbe molto diverso da loro se non ospitasse una delle basi militari degli Stati Uniti più grandi e discusse al di fuori del paese. Si trova nel mezzo dell’oceano Indiano e proprio per la presenza della base resta di fatto inaccessibile alla popolazione civile, in particolare ai media: di recente tuttavia la giornalista di BBC News Alice Cuddy è riuscita a visitarlo per seguire il caso di una sessantina di profughi che sono bloccati lì da tre anni, ed è un fatto eccezionale. Come pochissimi giornalisti che ci erano stati prima di lei, Cuddy lo ha descritto come uno dei posti più segreti del mondo.
L’atollo si trova più o meno a metà tra l’Africa orientale e l’Indonesia, circa 1.800 chilometri a sud del subcontinente indiano e 2mila chilometri a nord-est di Mauritius, il paese insulare a est del Madagascar. Si estende su un’area di circa 44 chilometri quadrati ed è composto da una lunga striscia di terra più o meno a forma di mezzaluna che delimita una laguna aperta verso nord. Fa parte del Territorio Britannico dell’Oceano Indiano (o Biot), e nonostante dipenda dal Regno Unito è da tempo al centro di una disputa territoriale con la Repubblica di Mauritius, che probabilmente è arrivata alla conclusione.
Con spiagge bianche, una vegetazione fiorente, coralli e varie specie di animali autoctoni, sul suo sito ufficiale il Biot viene descritto come il territorio «con la più vasta biodiversità marina tra il Regno Unito e i suoi territori d’oltremare». Il Diego Garcia però è tutto fuorché una destinazione turistica. Non lo raggiunge nessun volo commerciale ed è molto complicato arrivarci anche via mare; inoltre per entrarci serve un permesso che di norma viene concesso solo a chi ha legami con le autorità britanniche o con la base militare.
La stessa Cuddy è riuscita ad andarci solo dopo mesi di trattative che hanno coinvolto prima la Corte suprema del territorio e poi il governo statunitense, che inizialmente le aveva impedito di andarci citando «rischi per la sicurezza e per l’efficacia delle operazioni» della base. Cuddy ha raccontato che alla fine il permesso durava solo cinque giorni e aveva limitazioni molto rigide, sia per quanto riguardava la copertura del caso sia i suoi spostamenti. Le è anche stato vietato di scrivere in cosa consistano esattamente queste limitazioni.
Appena arrivati nell’atollo si notano subito gli hangar della base militare su cui sono issate le bandiere di Stati Uniti e Regno Unito, racconta Cuddy. In giro ci sono le tipiche auto della polizia che si potrebbero trovare in una cittadina inglese qualsiasi, assieme a strade chiamate Britannia Way e Churchill Road: ma ci sono anche autobus gialli che ricordano quelli usati nelle scuole statunitensi, si guida a destra e come valuta si usa il dollaro statunitense.
Anche se formalmente è un territorio britannico, la gran parte del personale e dell’area è sotto il rigido controllo degli Stati Uniti: Cuddy doveva sempre indossare un pass rosso per far capire che era una visitatrice, il suo alloggio era sorvegliato 24 ore su 24 e c’erano addetti che prendevano nota di quando usciva e rientrava, sempre sotto scorta. Oltre a ciò che rimane delle strutture per la lavorazione della palma da cocco – la principale attività durante il periodo coloniale – sull’atollo ci sono negozi, bar, cinema e campi da tennis o bowling frequentati dal personale militare, ma anche un museo e un negozio di souvenir in cui alla giornalista è stato vietato entrare.
Naturalmente le è stato impedito di avvicinarsi alle strutture della base militare, da cui arrivano rumori delle esercitazioni già dalla prima mattina, ha spiegato Cuddy.
Erano sottoposti a controlli simili anche gli avvocati arrivati dall’estero per seguire il suo stesso caso, che riguarda un gruppo di profughi di etnia tamil scappati nell’autunno del 2021 dallo Sri Lanka a causa della repressione messa in atto dopo la fine della guerra civile combattuta tra il governo e le cosiddette Tigri Tamil. La barca su cui viaggiavano i profughi era stata soccorsa da una nave della marina britannica e poi portata sull’atollo, da cui sarebbero dovuti andare via nel giro di pochi giorni. In realtà sono trattenuti lì da tre anni: vivono in un campo fatiscente, con pochissime libertà di movimento, e sono stati documentati abusi sessuali nei confronti di alcuni dei 16 minori che fanno parte del gruppo.
Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) la loro è una detenzione ingiusta e arbitraria, come sostengono i loro avvocati, e parte del problema è che data la particolare situazione dell’atollo non si capisce con chiarezza chi ne abbia la giurisdizione.
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Il funzionamento peculiare di questo atollo e la sua particolare giurisdizione si devono in parte a ragioni storiche. L’arcipelago delle isole Chagos venne scoperto all’inizio del Cinquecento da alcuni esploratori portoghesi (uno dei quali dà il nome all’atollo in questione) e fu a lungo una dipendenza di Mauritius, a sua volta una colonia francese. Con il trattato di Parigi del 1814 la Francia cedette Mauritius e le sue dipendenze al Regno Unito, che un secolo e mezzo dopo istituì il Biot, concedendo in cambio i diritti di pesca e l’accesso al territorio ai suoi abitanti. Anche dopo l’indipendenza di Mauritius, nel 1968, il Regno Unito non smise mai di esercitare il proprio controllo sulle isole, che il paese africano considerava appunto come proprie.
Per via della sua posizione all’estremo sud dell’arcipelago e della popolazione relativamente contenuta, il Diego Garcia sembrava anche il posto ideale per costruire una base militare in mezzo all’oceano Indiano, un punto da cui passano numerose rotte commerciali e di enorme importanza per l’influenza sulla regione. Così, nell’ambito di un accordo allora segreto, nel 1966 il Regno Unito cedette il controllo di parte dell’atollo agli Stati Uniti in cambio di un consistente sconto per l’acquisto dei missili nucleari statunitensi Polaris.
Da allora più di mille abitanti furono costretti a trasferirsi a Mauritius o alle Seychelles: nonostante nel 2019 la Corte internazionale di giustizia abbia respinto la richiesta di sovranità del Regno Unito sulle isole Chagos, non hanno ancora ottenuto il diritto di tornarci. Sempre nel 2019 l’ONU aveva chiesto senza successo al Regno Unito di restituire le isole a Mauritius entro sei mesi, con una mozione non vincolante, che il governo britannico non aveva mai rispettato.
Proprio pochi giorni fa i governi dei due paesi hanno infine annunciato uno storico accordo per la cessione dell’arcipelago a Mauritius, con modalità che devono essere ancora chiarite.
La storia e le misure di sicurezza che circondano l’atollo l’hanno reso «una specie di Sacro Graal per i reporter che si occupano di cose militari», ha spiegato il giornalista di Time Massimo Calabresi, che nel 2007 ci si fermò giusto per il rifornimento di carburante dell’aereo del presidente statunitense George W. Bush su cui viaggiava anche lui.
La base militare fu usata per le operazioni militari degli Stati Uniti sia durante la guerra del Golfo tra il 1990 e il 1991, sia nella guerra in Afghanistan e nella prima fase di quella in Iraq, nei primi anni Duemila. Al momento impiega circa mille militari statunitensi e altri 2.500 lavoratori a contratto: da quando esiste sono stati pochissimi i giornalisti ad aver visitato l’atollo, spesso per poche ore o con qualche escamotage.
Calabresi aveva descritto l’atollo come «un paradiso tropicale disperso in una distesa senza fine di oceano ceruleo», con «un sacco di cemento e bombardieri B-2», e aveva scritto che quando aveva cercato di farsi un giro alcuni militari lo avevano fermato perché non ne aveva l’autorizzazione. A metà anni Ottanta invece il giornalista inglese Simon Winchester aveva fatto finta di avere un problema con la sua imbarcazione per poterlo visitare. Ci restò due giorni in cui ebbe a che fare con autorità britanniche che parlando con Cuddy ha definito «incredibilmente ostili»: fu invitato ad andare via e a «non tornare mai più».
Le strutture militari britanniche e statunitensi più vicine si trovano rispettivamente a più di 3mila e quasi 5mila chilometri dalla Diego Garcia, e le attività in corso nella base sono coperte da un livello di segretezza che secondo il professore di Relazioni internazionali al King’s College di Londra Walter Ladwig III è ancora più rigido che in altri luoghi simili. Sempre secondo Ladwig i controlli e le limitazioni imposte per l’accesso all’atollo sembrano inoltre eccessive rispetto alle sue infrastrutture e alle sue capacità, quantomeno in base alle informazioni note.
Proprio a causa della grande segretezza da tempo circolano varie voci, compreso il sospetto che la base sia stata usata dalla CIA (la principale agenzia di intelligence statunitense per l’estero) come località per trattenere, interrogare e torturare persone sospettate di terrorismo durante il periodo della cosiddetta guerra al terrore. Nel 2008 il governo britannico confermò che sull’atollo erano atterrati voli con a bordo sospetti terroristi, dopo anni in cui aveva negato accuse simili.
Stando a quanto disse a Vice News Lawrence Wilkerson, ex collaboratore del segretario di Stato statunitense Colin Powell, nessuna delle fonti aveva detto con chiarezza che sull’atollo c’era un centro di detenzione, ma avevano fatto riferimento al fatto che di tanto in tanto qualcuno ci veniva interrogato: era il 2015 ed era la prima volta che un importante funzionario dell’amministrazione di Bush ammetteva pubblicamente, seppur in maniera molto vaga, che la base era stata impiegata per le operazioni non ufficiali della CIA.
Più di recente l’atollo ha fatto discutere per le dure condizioni di lavoro a cui sono sottoposte le persone migranti impiegate nella base militare per le pulizie o i lavori di manutenzione, che provengono per la maggior parte dalle Filippine, dove la manodopera costa meno, e vengono pagate pochissimo a fronte di turni che a volte sono lunghi anche 12 ore, sette giorni su sette. L’atollo non ha un ospedale e di recente ci sono stati diversi incidenti mortali; spesso inoltre i lavoratori che sviluppano gravi problemi di salute non hanno i documenti necessari per essere portati rapidamente nell’ospedale di Singapore, dove di norma vengono trasferiti i pazienti molto malati.