La tassa sugli extraprofitti sì, la tassa sugli extraprofitti no

Ogni tanto i partiti della maggioranza si agitano e ne discutono, ora di nuovo dopo un’intervista del ministro dell’Economia Giorgetti

I ministri Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti e Francesco Lollobrigida alla Camera il 26 giugno 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
I ministri Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti e Francesco Lollobrigida alla Camera il 26 giugno 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)
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Giovedì il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti ha annunciato che è intenzione del governo introdurre, nella legge di bilancio in preparazione, alcune tasse indirizzate alle aziende che hanno beneficiato di contesti di mercato particolarmente favorevoli e che hanno dunque avuto utili più alti delle aspettative. È un po’ la nuova versione di quella tassa sui cosiddetti «extraprofitti» su cui da oltre un anno il governo sta discutendo, non sapendo bene in che forma introdurla, e anche Giorgetti è stato piuttosto vago sui dettagli della nuova misura. Ha detto che è scorretto parlare di extraprofitti, ha spiegato che l’intenzione è di «tassare i giusti profitti, o meglio gli utili determinati in modo corretto» e che, tra i settori che hanno goduto di condizioni particolarmente positive, a suo avviso c’è quello della difesa.

L’annuncio è stato dato da Giorgetti durante un’intervista a Chiara Albanese, giornalista dell’agenzia di stampa statunitense Bloomberg, in occasione di un convegno sul futuro della finanza in Italia. Non è stato accolto bene dagli investitori. Fino alle 14 il FTSE MIB, il principale indice azionario della borsa italiana, era stato piuttosto stabile, poi subito dopo la pubblicazione dell’intervista ha perso l’1,5 per cento del suo valore, segnale di una certa preoccupazione da parte degli operatori di mercato.

Contestualmente, le parole di Giorgetti hanno provocato reazioni piuttosto confuse nella maggioranza di governo.

I collaboratori della presidente del Consiglio Giorgia Meloni hanno fatto sapere informalmente di non essere stati messi al corrente dell’iniziativa, e che nessuna decisione su nuove tasse è stata presa definitivamente. Alcuni dirigenti di Forza Italia hanno preso le distanze da Giorgetti e hanno detto di essere molto contrari a qualsiasi nuova tassa. Matteo Salvini, cioè il segretario del partito di cui fa parte Giorgetti, la Lega, non si è espresso pubblicamente ma ha fatto sapere attraverso il suo staff di essere un po’ infastidito. In serata ha provato a ridimensionare le dichiarazioni di Giorgetti.

Giorgia Meloni col viceministro dell’Economia Maurizio Leo, di Fratelli d’Italia, a Palazzo Chigi, il 2 novembre 2022 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Poche ore dopo il ministero dell’Economia è stato costretto a diffondere una nota stampa per chiarire l’interpretazione delle parole di Giorgetti. In riferimento alla nuova tassa c’era scritto questo:

Si chiederà uno sforzo alle imprese più grandi che operano in determinati settori in cui l’utile ha beneficiato in qualche modo di condizioni favorevoli esterne affinché contribuiscano con modalità sulle quali è in corso un confronto.

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Stando al merito della questione, le parole di Giorgetti, per quanto ambigue, sono coerenti con l’impianto di politica economica che il governo, tutto il governo, ha definito nel recente Piano strutturale di Bilancio. Quel documento, approvato dal Consiglio dei ministri il 27 settembre, traccia i saldi di finanza pubblica per i prossimi sette anni, e impone un percorso di riduzione del deficit «particolarmente esigente», come ha ricordato lo stesso Giorgetti. Il deficit, cioè il disavanzo nel bilancio annuale dello Stato, quest’anno dovrebbe essere del 3,8 per cento del PIL (il prodotto interno lordo): e il governo, in accordo con le regole fiscali europee del nuovo Patto di Stabilità, si prefigge di ridurlo al 3,2 per cento nel 2025 e al 2,7 per cento nel 2026. Nel complesso, l’indebitamento dello Stato dovrà ridursi in media di quasi 12 miliardi di euro all’anno per i prossimi sette anni, e questi soldi vanno trovati o tagliando le uscite, cioè le spese della pubblica amministrazione, oppure aumentando le entrate, cioè le tasse. Ed ecco che si arriva al punto indicato da Giorgetti.

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Insomma, Giorgetti non ha fatto altro che dare maggiore concretezza a un piano di finanza pubblica molto complicato già approvato dal governo. Semmai hanno sorpreso i modi con cui ha deciso di fare questo annuncio: durante un’intervista, parlando a braccio come ama fare, con frasi poco chiare, espressioni allusive, un tono al tempo stesso perentorio e ironico. Che è poi la cifra di Giorgetti. Tutto ciò ha spiazzato sia gli investitori sia gli esponenti del governo, che non si aspettavano un’uscita simile, perlomeno nei modi.

È però difficile che fosse del tutto imprevisto. L’intervista a Bloomberg era stata registrata mercoledì pomeriggio al ministero dell’Economia, poche ore dopo un Consiglio dei ministri che era stato caratterizzato da uno scambio di battute accalorato tra Giorgetti e alcuni suoi colleghi. È un dettaglio, questo, non irrilevante: durante la riunione Giorgetti aveva ribadito la necessità di ridurre la spesa dei ministeri, fare cioè spending review, per un totale di circa 2 miliardi di euro. Quando alcuni colleghi avevano protestato, dicendo che per loro era impossibile tagliare ancora sul proprio bilancio, Giorgetti aveva reagito un po’ stizzito, ribattendo in sostanza che per fare tornare i conti o si riducono le spese oppure si alzano le tasse.

Di sicuro Giorgetti e i suoi consiglieri, che erano con lui al momento dell’intervista, avranno compreso la portata mediatica delle cose dette a Bloomberg. E dunque dovevano immaginare l’effetto che avrebbero prodotto.

Ma la confusione generata dall’intervista di Giorgetti riflette anche la generale approssimazione con cui il governo da più di un anno si muove intorno all’ipotesi di introdurre una tassa sugli extraprofitti. Il 7 agosto del 2023, in maniera del tutto inaspettata, fu Meloni stessa a voler introdurre in un decreto-legge una misura che andava a tassare gli extraprofitti delle banche. Giorgetti ne fu messo al corrente all’ultimo, e anche i vicepresidenti del Consiglio, Salvini e Tajani, ne vennero a conoscenza a cose fatte.

Meloni ci tenne a rivendicare la correttezza di questo suo metodo, dicendo che aveva deciso da sola senza condividere la sua intenzione con gli alleati per evitare fughe di notizie. Parlò di una «tassazione sui margini ingiusti della banche», riferendosi cioè ai guadagni molto elevati ottenuti nel 2022 e nel 2023 dagli istituti di credito e dagli intermediari finanziari grazie all’aumento dei tassi d’interesse sui mutui e sui prestiti.

La notizia, del tutto inattesa, provocò dure reazioni contrarie nel mondo bancario. Anche Marina Berlusconi, figlia di Silvio Berlusconi, la cui famiglia ha significativi interessi nella banca Mediolanum, criticò seccamente la misura. Giorgetti la definì «una tassa giusta», ma ammise pochi giorni dopo che era probabilmente «inopportuna», che sicuramente avrebbe potuto essere «migliorata» e che era stata comunicata male.

Poi nel corso della conversione in legge la norma fu radicalmente modificata. Se inizialmente era stata pensata come una tassa molto rigida e severa (prevedeva che le banche pagassero allo Stato il 40 per cento sulla differenza tra il margine d’interesse ottenuto nel 2023 e quello ottenuto nel 2021), venne poi ridefinita, attenuata, e di fatto annullata dall’introduzione di una clausola che consentiva alle banche di utilizzare due volte e mezzo la cifra che avrebbero dovuto versare all’erario per aumentare le loro riserve di capitale, cioè per consolidare i propri bilanci. Questa opzione fu adottata da praticamente tutte le banche, e lo Stato finì con l’incassare cifre pressoché nulle dalla misura.

Il ministro Giorgetti all’assemblea annuale dell’ABI, l’Associazione bancaria italiana, col presidente Antonio Patuelli, il 9 luglio 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

Un anno dopo, sempre in estate, si è animato un dibattito simile. A luglio sono iniziate a circolare nuove ipotesi su una nuova tassa sugli extraprofitti, e nel corso delle settimane si è capito che stavolta il governo stava valutando di estenderla anche a imprese di settori diversi da quello bancario. Vari esponenti di governo hanno inizialmente smentito, poi però le ipotesi hanno preso maggiore consistenza. Da un lato c’è l’esigenza di aumentare le entrate per sistemare il bilancio dello Stato, e la tentazione di usare un argomento che potenzialmente porta facili consensi popolari ( “il governo tassa gli utili ingiusti delle grandi aziende”); dall’altro ci sono però difficoltà oggettive nel definire, in un regime di libero mercato, un limite oltre il quale un profitto è “ingiusto” o “straordinario”, e c’è anche il timore del governo di inimicarsi importanti settori industriali e scoraggiare gli investitori.

Questo scombiccherato dibattito è andato avanti inconcludente per settimane, con accuse e rinfacci reciproci tra i partiti di governo. Alla fine il compromesso che sia Forza Italia sia Fratelli d’Italia dicevano di aver trovato era di introdurre non una tassa, ma un «contributo volontario», cioè di fatto che le aziende decidessero spontaneamente di contribuire al bilancio dello Stato. Ma è un compromesso insostenibile nella pratica: o una tassa c’è, e allora viene pagata, oppure una tassa non c’è, e allora non c’è aumento di gettito.

Per questo giovedì Giorgetti ha liquidato l’ipotesi dicendo ad Albanese che «le aziende non fanno beneficenza e quindi i contributi volontari non esistono», e spiegando che la necessità di sistemare i conti pubblici e ridurre il deficit impone «sacrifici a tutti».

Stando alle sue parole un po’ criptiche, quindi, saranno chiamati a contribuire con una ulteriore tassa sui profitti le imprese che operano in settori di mercato redditizi. «Con tutte queste guerre chi produce armi va particolarmente bene», ha aggiunto, lasciando intendere che la tassa potrebbe essere indirizzata a loro. Meloni finora non ha detto nulla. Non è la prima volta che lascia che Giorgetti si assuma la responsabilità di annunciare misure impopolari.