La protesta No TAV è passata attraverso le generazioni

Il movimento contro la linea ferroviaria ad alta velocità in Val di Susa si formò nel 1995 ed è ancora lì, anche grazie alla comunità che si è formata intorno

di Valerio Clari

Un murale nell'osteria La Credenza di Bussoleno (foto Il Post)
Un murale nell'osteria La Credenza di Bussoleno (foto Il Post)
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La Val di Susa, o Valsusa, come preferiscono chiamarla lì, inizia alle porte di Torino e arriva in Francia, attraverso il colle del Moncenisio e quello del Monginevro. È la più ampia e più popolata del Piemonte, con quasi 100mila abitanti, e dall’inizio degli anni Novanta l’autostrada A32 le passa in mezzo, avvicinando la città a località turistiche e sciistiche come Bardonecchia, Sestriere o Sauze d’Oulx, che furono sede di gare durante le Olimpiadi di Torino 2006. Da oltre vent’anni percorrendo le sue strade è difficile non notare scritte, murales e bandiere No TAV. Sono i simboli del Movimento contro la nuova tratta ferroviaria Torino-Lione, ancora in costruzione: dal 1995 manifestazioni e proteste hanno unito una parte della popolazione della valle, arrivando a definire in modo nuovo e stabile la stessa identità della Val di Susa.

Quasi trent’anni dopo le prime manifestazioni e venti dopo l’anno di maggiore conflittualità e maggiori successi, il 2005, il Movimento No TAV resta molto attivo, le sue iniziative sono ancora molto partecipate, e soprattutto il simbolo e il nome sembrano aver superato i confini della battaglia specifica contro la linea ferroviaria, diventando una sorta di marchio e di collettore di istanze anche diverse, unite dall’ambientalismo e dall’antagonismo. Il movimento No TAV è un caso quasi unico: è nato nella stagione dei Social Forum e nel contesto No Global, l’attivismo contro la globalizzazione economica e sociale sviluppatosi alla fine degli anni Novanta; è sopravvissuto al ripiegamento successivo agli scontri e alla repressione del G8 di Genova del 2001; ed è arrivato fino ad oggi, raccogliendo e affiancando elementi delle nuove forme di protesta di ispirazione ambientalista, come i Fridays for Future o Ultima Generazione.

I No TAV oggi appartengono ad almeno tre diverse generazioni, vanno dai pensionati ai ragazzi dei “campeggi studenteschi”. Si sono aperti verso gruppi e movimenti di altre zone e di altri paesi (Francia, soprattutto), ma sono le questioni e le reti locali che hanno permesso loro di restare influenti e attivi anche quando l’attenzione mediatica si è spenta. I presìdi, piccole casupole o strutture più grandi e organizzate, resistono da decenni in vari paesi della valle. Le bandiere, bianche con il simbolo No TAV, sventolano appese a piloni, lampioni e case, da Borgone (a mezz’ora da Torino) fino a Chiomonte, dove c’è il cantiere della galleria.

Valerio Colombaroli è in pensione, dopo decenni in un impiego tecnico al comune di Bussoleno, è un attivista e dice: «Le bandiere non sono sempre le stesse, vanno cambiate ogni sei mesi, si scolorano, si sporcano. Attaccarle lassù è un lavoraccio, ma sono un segno di territorialità: chi passa e le vede sa che ci sono dei No TAV».

Il movimento nacque come mobilitazione locale e spontanea nella valle dopo le prime discussioni sulla creazione di una nuova linea ferroviaria ad alta velocità, all’inizio degli anni Novanta: la prima manifestazione fu nel marzo 1995, negli anni immediatamente successivi emerse una componente anarchica e di estrema sinistra che utilizzò anche metodi di protesta violenti. Uno dei gruppi attivi si faceva chiamare “lupi grigi”, la stampa al tempo li definiva ecoterroristi: nel 1998 Maria Soledad Rosas, Edoardo Massari e Silvano Pelissero (conosciuti come Sole, Baleno e Pelissero), furono arrestati a Torino, accusati di banda armata e associazione eversiva, in una vicenda che portò poi al suicidio in carcere dei primi due. Nel 2002 nel processo a Pelissero la Corte di Cassazione cancellò le finalità eversive e terroristiche.

La protesta No TAV assunse varie forme: a occupazioni e scontri con le forze dell’ordine si affiancarono grandi e partecipate marce e manifestazioni, che nei primi anni Duemila vedevano spesso in testa ai cortei sindaci e amministratori dei paesi interessati. Nel 2005, in occasione dell’inizio dei lavori, ci furono i maggiori scontri, le più grandi manifestazioni e la fase di maggiore attenzione mediatica sulla Val di Susa: dopo gli scontri di Venaus, vicino a Susa, il governo ritirò temporaneamente il progetto e creò un Osservatorio, un tavolo di confronto a cui potevano partecipare tutti gli enti locali (non tutti lo fecero). Il progetto cambiò, l’opposizione del movimento rimase, manifestazioni e proteste proseguirono negli anni seguenti, fino a oggi, accompagnati dai primi processi degli attivisti per violenze durante le manifestazioni e accuse di aggressioni a esponenti politici a favore del TAV.

I cantieri furono protetti stabilmente da forze dell’ordine e militari, le proteste trovarono anche forme creative. Nel 2011 gli attivisti identificarono un terreno vicino a Susa che sarebbe stato interessato dai lavori e 1054 persone lo acquistarono collettivamente, ognuno con una quota. A ottobre sono previste le operazioni per portare a termine le pratiche di esproprio del terreno, dove passerà la nuova tratta. Coinvolgeranno quindi negli atti ufficiali i 1054 proprietari, che hanno annunciato mobilitazioni.

Il presidio sul terreno che sarà oggetto di esproprio (foto Il Post)

Su quel piccolo terreno sorge uno dei “presìdi No TAV”, che sono diventati nel tempo elementi fondamentali per mantenere vivo l’impegno e per unire la comunità. Ce ne sono sei attivi e uno sotto sequestro giudiziario da oltre un anno, a San Didero, di fronte al cantiere del nuovo autoporto: era attivo dal 2020, quando era stato dato in uso al Movimento da alcuni privati che possedevano il terreno. Ci sono un capannone e un paio di prefabbricati, ci organizzavano pranzi, cene, un mercato dei contadini ed eventi. Secondo la questura di Torino fu utilizzato come “base” per un attacco notturno al cantiere di fronte, protetto da alte reti e da pattuglie delle forze dell’ordine 365 giorni l’anno.

Gli altri presìdi sono a Vaie, Borgone Susa, San Giuliano, Venaus e ai Mulini della Val Clarea, il più vicino al cantiere di Chiomonte. Sono strutture molto diverse nella forma e nelle frequentazioni. Quella di Borgone, una casupola prefabbricata in un prato, da circa vent’anni apre tutti i giorni alle 15:30 del pomeriggio ed è diventata il punto di ritrovo della “vecchia guardia” del Movimento: sono militanti arrivati per lo più all’età della pensione nei rispettivi lavori. Si ritrovano per prendere il caffè e parlare, ma con la TAV come argomento ricorrente. C’è anche una telecamera di sorveglianza, perché «prima o poi tutti i presìdi sono stati incendiati», dice Colombaroli. In un paio di presìdi ci sono “custodi” che vivono stabilmente nelle strutture, in quello di Venaus vengono organizzati campeggi per studenti, attivisti e frequentatori dei centri sociali torinesi (e non solo).

L’interno del presidio di Venaus (foto Il Post)

Si presentano altre “lotte” e si ospitano attivisti di altri movimenti: a settembre c’erano i francesi del Marais Poitevin, arrivati dalla Francia centro-occidentale e diretti a Venezia. Tutti i presìdi hanno programmi settimanali che prevedono cene, eventi informativi, serate musicali e mercati agricoli, ma organizzano anche eventi più grandi alcune volte all’anno. Il più grande è il Festival Alta Felicità, che ogni estate mette insieme migliaia di partecipanti. Una birreria a Chianocco e un ristorante a Bussoleno sono altri centri di aggregazione e organizzazione usati tutto l’anno.

Il movimento continua ad avere componenti molto diverse fra di loro: ci sono pensionati e agricoltori, giovani ambientalisti e anarchici, qualche rappresentante delle amministrazioni locali, esponenti della prima ora passati per processi e condanne agli arresti domiciliari, e anche un gruppo di “Cattolici per la vita della Valle”. Paolo Anselmo è uno dei fondatori del gruppo, racconta che nei primi anni erano presenti anche molti parroci «che poi sono stati invitati dalle autorità ecclesiastiche a non partecipare» e che la convivenza con le altre anime della protesta non è problematica: «Noi andiamo in corteo in modo pacifico e preghiamo, ma non giudichiamo chi utilizza altri mezzi di lotta». Hanno anche pubblicato un libro, Prendiamoci cura della casa comune, che confronta passi dell’enciclica di papa Francesco Laudato si’ (un documento sull’ambiente e sui cambiamenti climatici) con gli effetti della linea ferroviaria Torino-Lione.

Gli altri mezzi di lotta, più raccontati e appariscenti, riguardano ciclici “attacchi” ai cantieri. Per lo più si limitano alla pratica della cosiddetta “battitura”: attivisti si presentano nei pressi delle alte reti che proteggono i cantieri, e battono contro le strutture metalliche, facendo rumore. Sono quasi sempre proteste simboliche, a cui le forze dell’ordine rispondono spesso con lanci di lacrimogeni, altre volte i manifestanti provano a rompere parti delle reti o a penetrare all’interno. A settembre in una serata di grande pioggia c’erano almeno duecento fra ragazzi e ragazze alla riunione all’aperto, con una cena in piedi sotto gli ombrelli che ha preceduto una delle ultime battiture, a cui ha poi partecipato un numero più ristretto di persone. Per i manifestanti queste proteste possono implicare ripercussioni legali; per TELT, la società italo-francese che ha l’appalto per progettare, costruire e poi gestire la sezione di confine della nuova ferrovia, causano un aumento notevole dei costi per proteggere la sicurezza dei cantieri.

Ci sono poi altre due componenti molto attive che hanno contribuito alla sopravvivenza e alle attività del movimento negli ultimi venti-trent’anni: la commissione tecnica e la squadra legale. La commissione tecnica Torino-Lione dell’Unione Montana Valle Susa comprende professionisti, studiosi e professori specializzati in vari argomenti inerenti alla Torino-Lione, dall’ingegneria edile alla geologia, dall’economia alla tutela ambientale: redigono studi, analizzano progetti e documenti, intervengono nell’Osservatorio e hanno partecipato anche ad audizioni alla Camera e al Senato. Cercano insomma di fornire pareri e giustificazioni documentate per sostenere l’opposizione al progetto. Lo descrivono come un impegno a titolo gratuito ma anche piuttosto gravoso, soprattutto perché in alcuni casi dura da decenni. Lo stesso discorso vale per la squadra legale, un gruppo di avvocati che si è occupato della difesa dei molti militanti oggetto di multe, denunce civile e penali, processi: l’assistenza legale gratuita e le sottoscrizioni organizzate per rispondere alle richieste di danni o alle multe hanno spesso reso economicamente sostenibili iter legali altrimenti troppo dispendiosi.

La fatica per una protesta che dura da più di due decenni – e che in alcuni casi ha assorbito parti importanti delle vite di chi l’ha condotta – è uno degli elementi ricorrenti nei discorsi degli attivisti che provano a definire la situazione attuale. Loredana Bellone è stata a lungo sindaca di San Didero (2004-2019) e spesso in prima linea nelle proteste: «Per fortuna la vecchia guardia ha seminato bene e oggi ci sono molti giovani che con attenzioni e modi di fare diversi stanno continuando la lotta». Dice che l’approccio forse è meno di contrapposizione diretta e istintiva, più ragionato e con uno studio maggiore delle mosse proprie e dell’altra parte: «Senza i giovani probabilmente ci avrebbero preso per sfinimento».

Media e politici hanno spesso inserito le proteste No TAV all’interno della categoria cosiddetta NIMBY, acronimo inglese per Not In My Back Yard, letteralmente “non nel mio giardino”. Sono proteste locali che nascono per il rifiuto di opere più o meno impattanti nella propria area di competenza, chiedendo genericamente che non venga fatta lì, ma al massimo altrove. Il Movimento per lo più rifiuta questa etichetta, dicendo di opporsi alla nuova linea ferroviaria in quanto inutile e non giustificata: per questo non vorrebbe che fosse costruita “altrove”, ma che non fosse costruita affatto. La componente “mio giardino” è però – se non altro – un fattore di motivazione importante: nelle zone della valle interessate dal passaggio della ferrovia il Movimento è forte e partecipato; nelle altre, come l’alta Val di Susa, lo è molto meno o è assente.

Valter Di Cesare, un altro attivista “storico”, racconta che ci sono stati un paio di momenti in cui il Movimento ha pensato di essere vicino a un successo definitivo e all’abbandono del progetto: il primo fu nel 2006, quando cadde il terzo governo presieduto da Silvio Berlusconi, pochi mesi dopo l’apertura dell’Osservatorio. Il successivo governo di Romano Prodi, sostenuto anche da un partito che era stato sempre contrario al progetto come Rifondazione Comunista, sembrò inizialmente meno convinto nel portare avanti l’opera. Durò però meno di due anni, e alla sua caduta un altro esecutivo Berlusconi la rilanciò.

L’altro momento chiave è più recente, fra il 2018 e il 2019, con il primo governo di Giuseppe Conte: il Movimento 5 Stelle fece dell’opposizione al TAV una delle sue battaglie politiche sin dagli esordi, ma nella sua prima esperienza di governo rinunciò subito ai propositi più battaglieri (nonostante fossero stati ribaditi in campagna elettorale) per la forte opposizione dell’alleato di governo di allora, la Lega di Matteo Salvini, che sosteneva con convinzione la realizzazione della nuova linea ferroviaria.

I rapporti con la politica sono sempre stati difficili e contrastati: negli anni di maggiore attenzione mediatica gli esponenti nazionali che facevano visite in Val di Susa erano numerosi. Oggi fra le forze parlamentari è dichiaratamente contraria all’opera solo l’Alleanza Verdi e Sinistra, ma fra gli attivisti c’è una certa disillusione nei confronti di possibili sponde politiche. C’è un po’ di fatalismo anche quando si tratta di valutare le possibilità di successo futuro, allo stato attuale dei lavori (peraltro piuttosto parziale). Dice Di Cesare: «Noi di sicuro non ci arrendiamo, e continuiamo a mettere dei granellini di sabbia negli ingranaggi di TELT e del treno. Non lo fermiamo, ma gli facciamo perdere tempo. E se non riusciremo a fermarlo noi, lo farà la montagna». Il riferimento è alle possibili difficoltà che i lavori potranno incontrare: lo dice mentre apre una enorme cartina, che racchiude i progetti passati e quelli attuali, ed espone quelli che a suo parere sono criticità ed errori progettuali. Non ha mai studiato ingegneria, ma in Val di Susa in molti ripetono scherzando la stessa cosa: «In vent’anni qui siamo tutti diventati ingegneri edili».

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