Il governo italiano ha idee un po’ confuse sulla missione militare in Libano

Da una parte chiede all'ONU di rafforzarla, dall'altra teme per l'incolumità dei circa mille soldati italiani impiegati, e sta valutando di ritirarli

Mezzi militari UNIFIL presidiano il confine tra Israele e Libanese a Marjayoun, il 2 febbraio 2024 (Ali Hashisho/Xinhua via ZUMA Press)
Mezzi militari UNIFIL presidiano il confine tra Israele e Libanese a Marjayoun, il 2 febbraio 2024 (Ali Hashisho/Xinhua via ZUMA Press)

L’invasione del Libano da parte dell’esercito israeliano, iniziata martedì scorso, ha rianimato il dibattito in parlamento sull’impiego del contingente militare italiano che si trova in quell’area. L’Italia infatti partecipa da decenni alla missione UNIFIL, istituita dall’ONU nel 1978 e rinnovata nel 2006 con lo scopo di garantire la definizione e il rispetto del confine tra Israele e Libano, e favorire il raggiungimento di una tregua stabile e pacifica tra i due paesi. Attualmente vi sono impiegati tra i 1.000 e i 1.100 soldati italiani; ce ne sono poi altri 15 impegnati in un’altra missione bilaterale, MIBIL, che hanno il compito di addestrare le forze di polizia libanesi.

Martedì pomeriggio, durante una riunione convocata d’urgenza a Palazzo Chigi (la sede del governo) dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, e a cui hanno partecipato vari ministri e i dirigenti dei servizi segreti, si è discusso proprio del peggioramento della situazione in Libano, analizzando i vari scenari e le possibili soluzioni. Al momento è stata accantonata l’ipotesi di un ritiro precipitoso del solo contingente italiano (perché tra gli altri che partecipano a UNIFIL per ora non lo ha fatto nessuno). Non è stato però escluso che, con l’inasprirsi del conflitto, si possa dover sospendere la missione: in quel caso si attenderebbe tuttavia una decisione collegiale delle Nazioni Unite o quantomeno dei principali paesi che fanno parte di UNIFIL. I ministri degli Esteri e della Difesa, Antonio Tajani e Guido Crosetto, riferendo in parlamento mercoledì hanno spiegato che sono stati già aggiornati i piani di evacuazione, che sono state già fatte delle esercitazioni e che in caso di necessità il contingente sarebbe in grado di smobilitare nel giro di un paio di giorni, con l’uso di mezzi aerei e di navi.

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Nelle indicazioni date dal governo, però, è emersa una sostanziale contraddizione. Da un lato i consiglieri di Meloni e dei ministri Crosetto e Tajani sostengono l’ipotesi di un ritiro, dall’altro invece gli stessi ministri e altri esponenti del governo hanno più volte chiesto, anche di recente, un rafforzamento del mandato della missione: il governo italiano chiede cioè all’ONU di rivedere le regole d’ingaggio dei militari per consentire loro di operare con maggiore prontezza e decisione, come una forza militare autonoma dalle autorità libanesi, e nello stesso tempo ne valuta il ritiro. Entrambe le prospettive comunque sembrano al momento abbastanza improbabili.

I ministri della Difesa e degli Esteri, Guido Crosetto (a sinistra) e Antonio Tajani (a destra), alla Camera, il 19 luglio 2023 (Roberto Monaldo/LaPresse)

La missione UNIFIL nacque inizialmente per garantire il ritiro pacifico dell’esercito israeliano dal Libano, nel 1978 (Israele aveva invaso il Libano in ritorsione contro una serie di attentati compiuti da miliziani palestinesi che avevano la base operativa nello stesso Libano). Nel 2006 Israele invase di nuovo il Libano, in risposta a massicci lanci di missili e razzi da parte del gruppo politico e militare Hezbollah. A quel punto l’ONU decise di rafforzare UNIFIL con la risoluzione 1701, che tra le altre cose disciplina l’operato dei militari che ne fanno parte.

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Gli obiettivi della missione sono molti e ambiziosi. Tra i principali: favorire una distensione dei rapporti diplomatici tra Israele e Libano; scoraggiare le incursioni militari verso nord dell’esercito israeliano e le attività militari di Hezbollah; fare in modo che l’area meridionale del Libano, tra il fiume Leonte e il territorio israeliano, sia sostanzialmente demilitarizzata, e che gli unici autorizzati a portare armi siano, oltre ai militari di UNIFIL, quelli delle autorità governative libanesi; prevenire il traffico illegale di armi, finalizzato perlopiù a rifornire Hezbollah; assistere la popolazione civile che si trova in quell’area.

Sono tutti obiettivi molto difficili da mettere in pratica. Anzitutto perché UNIFIL è obbligata a operare solo in collaborazione con l’esercito ufficiale libanese (diverso da quello di Hezbollah), che però è male addestrato e ritenuto militarmente poco affidabile. In secondo luogo perché in quell’area Hezbollah è un interlocutore obbligato e difficilmente aggirabile quando ci sono negoziati o trattative da portare avanti. E poi perché lo stesso “confine” da monitorare è difficilmente individuabile, nel senso che molte zone sono contese tra Libano e Israele e le carte geografiche utilizzate dagli uni e dagli altri per rivendicare la titolarità su alcuni villaggi sono tra loro discordanti. Per questo è stata istituita una “blue line”, cioè una linea immaginaria che grosso modo dovrebbe valere come demarcazione tra i due paesi: ma è un confine che va definito e costruito metro per metro, e infatti uno dei compiti dei militari di UNIFIL è di piazzare lungo questa linea delle torrette che indichino chiaramente la frontiera.

Se da una parte la presenza dei militari dell’ONU ha probabilmente scongiurato negli anni un’evoluzione più violenta degli scontri tra Israele e Hezbollah, è anche vero che a distanza di diciotto anni dalla sua rifondazione la missione ha raggiunto solo in minima parte i suoi obiettivi: le tensioni tra le parti non sono mai finite e l’esercito ufficiale libanese è ancora del tutto inadeguato a fronteggiare quello israeliano, anzi. In larga parte è ancora succube di Hezbollah, che nel frattempo ha consolidato le sue posizioni nell’area e ha intensificato la sua attività militare.

Tutto ciò ha portato il ministro della Difesa Crosetto a invocare già da tempo una ridefinizione del mandato di UNIFIL, dando più poteri e nuove regole d’ingaggio ai militari dell’ONU. Con lo stesso obiettivo il ministro degli Esteri Tajani ha sollecitato il Consiglio di sicurezza dell’ONU, esortando il rappresentante permanente dell’Italia alle Nazioni Unite, l’ambasciatore Maurizio Massari, a parlarne con Jean-Pierre Lacroix, il vicesegretario dell’ONU che si occupa delle missioni di “peacekeeping”, cioè appunto le missioni militari di pace come UNIFIL.

La richiesta del governo italiano sembra però un tentativo con poche speranze, visto che per modificare in maniera strutturale il mandato di UNIFIL servirebbe un voto all’unanimità da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, tra i cui membri permanenti ci sono Cina e Russia che verosimilmente si opporrebbero (i membri permanenti hanno diritto di veto). Inoltre, dare più potere ai militari di UNIFIL li porterebbe, in questa fase, a esporsi maggiormente al rischio di restare coinvolti negli scontri in corso tra Israele e Hezbollah nel sud del Libano, e questo è evidentemente molto in contrasto coi timori espressi dallo stesso governo italiano sulla sicurezza e sull’incolumità dei soldati italiani impiegati in quell’area.

Significativamente, la missione MIBIL – che è una missione bilaterale Italia-Libano, su cui dunque il nostro governo può decidere autonomamente – è stata quasi del tutto congelata. Il contingente impiegato per addestrare le forze di polizia locali, che aveva come base Beirut, è stato ridotto da 100 a 15 unità nei giorni scorsi, dopo i bombardamenti israeliani sulla capitale libanese. Questo dice molto della cautela con cui Meloni vuole muoversi, evitando per quanto poissibile il rischio che i militari italiani restino coinvolti in qualche attacco.

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La situazione di UNIFIL è diversa. Ne fanno parte 50 paesi di ogni parte del mondo e il contingente italiano è il più numeroso dopo quello indonesiano, ma a differenza di quest’ultimo ha un ruolo politico e diplomatico di primissimo piano, insieme a quello francese. Da quando sono iniziati gli intensi attacchi israeliani in Libano tutti i militari di UNIFIL hanno progressivamente interrotto le loro attività, e da martedì sono al riparo: ogni contingente nella sua base (in tutto le basi sono una cinquantina, dislocate tra il fiume Leonte e il territorio israeliano). Ci si limita a fare delle operazioni di monitoraggio e di reporting, come spiega il portavoce della missione Andrea Tenenti: i militari salgono sulle torrette, osservano quello che succede, si confrontano tra loro per capire come evolve lo scenario. Solo nel pomeriggio di giovedì alcuni contingenti prevedono di tornare a pattugliare il territorio, ma tutto dipenderà dalla situazione sul campo.

L’esercito israeliano ha chiesto agli alti comandi di UNIFIL, guidati dal generale spagnolo Aroldo Làzaro, di partecipare a quelle che Israele definisce «incursioni limitate», cioè di accompagnare, almeno in alcuni tratti, l’avanzata delle truppe israeliane nel territorio libanese: i contingenti dell’ONU hanno rifiutato, perché accompagnare in qualche modo l’invasione israeliana in Libano non sarebbe coerente col mandato che hanno. Hanno anzi ribadito che ogni incursione a nord della “blue line” costituisce una violazione della risoluzione 1701. Da questo punto di vista, dunque, i rischi concreti per i militari di UNIFIL sembrano limitati (per quanto in casi come questi la sicurezza sia sempre relativa).

Giorgia Meloni in visita alla base Millevoi a Shama, in Libano, il 22 gennaio 2023 (Filippo Attili/Palazzo Chigi/LaPresse)

Per proseguire con l’invasione, le truppe israeliane – 45mila soldati, con carri armati e veicoli corazzati – dovranno risalire verso nord, passando inevitabilmente vicino alle basi dell’ONU: Hezbollah, per rallentarne l’avanzata, potrebbe lanciare dei colpi di artiglieria da lunga distanza, e non si può dunque escludere che qualcuno di questi finisca fuori bersaglio e colpisca una caserma o un deposito di munizioni UNIFIL. Mercoledì per esempio è stata colpita per sbaglio la base del contingente nepalese, vicino Meiss Ej Jabal, lungo la parte orientale della “blue line”.

La base italiana, dove si trovano al momento 1068 militari, è invece una quarantina di chilometri più a ovest e più a sud, nella cittadina di Shama. Finora non è stata interessata da attacchi e non ha corso rischi significativi. Se l’avanzata israeliana proseguirà, nel giro di pochi giorni la base italiana si troverà stabilmente a sud della linea del fronte, dunque in una posizione di relativa tranquillità. Il ministro Crosetto ha parlato col suo omologo israeliano, per avere rassicurazioni sul fatto che i rischi nell’area intorno alla base vengano ridotti il più possibile.

Nonostante la situazione compromessa e la sostanziale impossibilità di mantenere la piena operatività, i vari contingenti di UNIFIL continuano a svolgere, secondo Tenenti, almeno tre funzioni fondamentali. Quello di aiuto alla popolazione civile, quello di deterrente rispetto a una ulteriore escalation – nel senso che la presenza dei militari dell’ONU scoraggia dal fare azioni ancor più violente di quelle già effettuate – e quello diplomatico, tenendo aperto un canale di dialogo con entrambe le parti, cioè le autorità israeliane e quelle libanesi. Sono le uniche due con cui i comandi di UNIFIL possano parlare, anche se poi, ufficiosamente, c’è un confronto costante e inevitabile anche con esponenti di Hezbollah.