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  • Giovedì 3 ottobre 2024

Quando e perché i giapponesi si inchinano

Spiegato da Flavio Parisi, che vive tra di loro da vent'anni, nel suo libro "Cadere sette volte, rialzarsi otto"

Una donna e un uomo giapponesi si inchinano sulla soglia di un albergo tradizionale
Due membri del personale di un ryokan, un albergo tradizionale, si inchinano dopo che un cliente se ne è andato, Kyoto, Giappone, 2016 (Jeremie Souteyrat/laif/contrasto)

Il Giappone e i giapponesi sono spesso descritti e raccontati come bizzarri e molto diversi da altri paesi e persone del mondo, un po’ per esotismo e un po’ perché, anche a causa della lontananza tra la lingua giapponese e quelle europee, la cultura giapponese ci arriva solo in una piccola parte. Per questa stessa ragione ci sono cose del Giappone che crediamo di conoscere e invece sappiamo male. Molte sono spiegate da Flavio Parisi, insegnante di italiano ai cantanti d’opera a Tokyo e collaboratore del Post, nel suo primo libro: si chiama Cadere sette volte, rialzarsi otto. Il Giappone e il giapponese per autodidatti (il titolo fa riferimento a un modo di dire che descrive bene i processi di apprendimento) ed è appena stato pubblicato da Utet. Ne pubblichiamo un estratto in cui si parla della gestualità dei giapponesi – che gesticolano in modo analogo agli italiani – e di quando e perché si inchinano.

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Mi ero trasferito in Giappone da pochi giorni, e abitavo in via provvisoria con altre persone in situazioni provvisorie come la mia. Forse per questo alcuni giapponesi che avevo conosciuto quando studiavo a Venezia chiesero a dei loro amici, per me dei perfetti sconosciuti, di portarmi in giro a vedere qualche bel posto: devono essersi inteneriti immaginando questo povero straniero malinconico, lontano da casa e desideroso di passare i fine settimana in compagnia. E così una domenica siamo partiti per fare un giro in macchina verso la costa, vicino a Kamakura. Si trattava di uno di quei viaggi senza un obiettivo preciso, fatti quasi solo per godersi il paesaggio dall’abitacolo dell’auto – un’attività che poi avrei scoperto avere un nome preciso, doraibu (ドライブ, dall’inglese “drive”).

Uscendo dalla città, siamo passati vicino al parcheggio di un centro commerciale da cui si affacciava una macchina guidata da una signora anziana pronta a immettersi sulla strada. Il mio nuovo amico e la signora hanno incrociato gli sguardi, la signora ha piegato la testa in un inchino portando il mento quasi a toccare il petto, lentamente, e, con mia grande sorpresa, la nostra macchina si è fermata per darle la precedenza. Ero vagamente spaventato perché ho pensato che io, fossi stato il guidatore, avrei invece proseguito provocando forse un incidente, e ho chiesto in modo enfatico cosa stesse succedendo.

L’amico mi ha spiegato che la signora con il gesto del capo ringraziava, anticipatamente, per la cortesia di lasciarla immettere sulla strada nonostante la precedenza non fosse sua. È stato un caso da manuale in cui conoscere la comunicazione extraverbale di popoli lontani ti può salvare la vita – o almeno risparmiarti la scocciatura di una constatazione amichevole.

Negli anni ho poi cominciato a guidare anche io in Giappone, e ho capito che quando la signora si è immessa davanti a noi annunciandolo con l’inchino deve aver sicuramente ringraziato usando una tecnica tipica: la lampeggiata veloce delle quattro frecce di posizione. È un segno di riconoscenza quasi obbligato nel caso si passi davanti a qualcuno che aveva la precedenza, ed è il motivo per cui nelle automobili giapponesi il tasto delle quattro frecce è così facile da raggiungere, utile mentre si conduce l’auto, non solo da fermi.

Nell’immaginario di tutto il mondo noi italiani siamo dei gesticolatori fenomenali, e questo ci ha fatto meritare imitazioni spesso esagerate e approssimative. Che anche i giapponesi gesticolino molto è invece un fatto poco noto ma, secondo me, incontestabile. Esiste un codice delle mani con significati molto precisi: per esempio mettere una mano tesa, verticale, di fronte alla faccia significa chiedere scusa o permesso quando si deve passare tra due persone che stanno parlando.

Questa posizione, battezzata da alcuni miei amici italiani “la pinna” perché assomiglia al passaggio di uno squalo rasente alla superficie del mare, è usatissima negli ambienti affollati come i vagoni della metropolitana, quando si vuole scendere chiedendo il permesso e aprendosi un varco tra la gente. Spesso si accompagna con un breve movimento della testa in avanti, non un inchino ma una protrusione in avanti, quasi una piccola beccata aviaria. Questa combinazione significa “chiedo scusa / permesso / allora se non c’è problema io me ne andrei” a seconda della situazione. È interessante che la “beccata” ha nella lingua giapponese un nome che corrisponde al suono onomatopeico: ペコ, peko.

Il codice non verbale, in Giappone, è molto esteso. Tra i suoi gesti base ci sono il “no, non si può fare” espresso dai due indici incrociati davanti alla faccia e, nel caso di un no più categorico, dai due avambracci, sempre incrociati. Il “va bene” è invece una o fatta unendo le punte delle dita sulla testa tenendo le braccia allargate in un gesto un po’ da ballerina. Penso che questo sia un ingrandimento del gesto, più internazionale, dell’“ok” con pollice e indice che formano un cerchio. Altre posizioni codificate delle mani, anche se non troppo eleganti e ormai utilizzate solo da uomini oltre la sessantina, si riferiscono alle relazioni con l’altro sesso e includono per esempio mostrare il mignolo disteso per intendere “ragazza”, “fidanzata” e l’opposto in cui il pollice è aperto (come il segno dell’autostop in Occidente) per dire “ragazzo”, “uomo”.

Ma il gesto più tipico e appariscente, imprescindibile per ambientarsi in Giappone, è sicuramente l’inchino. Il movimento in sé è facile, ma interpretarne le sfumature potrebbe richiedere un po’ di tempo: la profondità a cui si spinge la testa dimostra il rispetto e la riconoscenza che si vogliono esprimere, e ovviamente la differenza di grado tra le persone che si salutano. Inoltre le donne quando lo fanno in un contesto formale tengono le mani sovrapposte sul grembo, incrociate, con il palmo di una appoggiato sul dorso dell’altra, mentre gli uomini rimangono come sull’attenti, con le braccia lungo il corpo.

L’inchino è anche parte delle cerimonie religiose, lo si fa per salutare le divinità ai templi o ai santuari ed è il movimento più pericoloso che si può incontrare nelle affollate stazioni di Tokyo a sera, quando la gente si saluta indietreggiando e inchinandosi in profondità nel mezzo di un flusso di altre persone in movimento – impegnate a loro volta a evitare di sbattere contro chi non ha resistito a congedarsi come si deve dai commensali dopo una cena. D’altra parte l’inchino è una cosa talmente inscindibile dalla comunicazione in Giappone che quasi tutti lo fanno persino durante le conversazioni al telefono: un amico mi ha spiegato come sua madre sia convinta che la persona all’altro capo possa percepire il movimento della testa, in qualche modo.

Se “la pinna” e gli inchini sono un automatismo, lo sono a pieno diritto anche moltissime espressioni verbali che i giapponesi usano quotidianamente, anche decine di volte al giorno. Entrare in un negozio o in un ristorante significa essere accolti da un «Irasshaimase» spesso urlato con un entusiasmo che appare spropositato, se non ci si è abituati. La parola in sé significa “benvenuto”, ma è più un automatismo, un suono che il cliente giapponese è così abituato a sentire che se non ci fosse ne sentirebbe la mancanza. La risposta del cliente non è necessaria, magari basta un piccolo peko con un sorriso accennato. Il sorriso invece è obbligatorio per commessi e commesse che devono sfoderare il cosiddetto eigyō sumairu (営業スマイル) o “smile delle vendite”, rassicurante e un po’ finto.

Invariabilmente, i giapponesi che viaggiano all’estero si trovano in una posizione un po’ “decaduta”: da possibili clienti venerati come divinità (non è un’esagerazione, esiste il proverbio お客様は神様, okyaku sama ha kami sama: “il cliente è un dio”) si ritrovano a dover salutare per primi i commessi e spesso sforzarsi di attirare la loro attenzione se hanno bisogno di assistenza durante gli acquisti. Saggiamente quasi tutti, dopo un piccolo shock, capiscono che si tratta di una differenza nelle abitudini comunicative, un codice diverso, e non si offendono se, a differenza del loro paese, i commessi non li salutano ringraziandoli anche quando non hanno comprato niente.

Frasi formulari come «Irasshaimase» sono importantissime per interagire con il prossimo. L’espressione yoroshiku onegai shimasu (宜しくお願いします), per esempio, è onnipresente all’inizio di ogni attività fatta con altri. Si usa per presentarsi, per dare inizio a un lavoro, per richiedere attenzione e in generale per stabilire una comunicazione. Letteralmente si potrebbe tradurre con “mi raccomando a te/voi” ma non ha un vero significato perché in realtà ne ha troppi.

Esattamente come otsukaresama desu (お疲れ様です), una sorta di “grazie per l’impegno, bel lavoro!” scambiato tra tutti quelli che hanno concluso un’attività di qualsiasi genere, dalla gara sportiva alla giornata di lavoro. Viene usato anche dalle bariste più esperte quando servono la prima birra agli impiegati appena usciti dall’ufficio: «otsukaresama desu» è il loro “ecco, sarai stanco per il duro lavoro della giornata, dai che anche per oggi è finita!”.

Altra parola ineludibile è sumimasen (すみません), che copre qualsiasi evenienza dal “chiedo scusa” al “grazie”, spesso usato come “scusa per esserti incomodato per me”. Sumimasen si usa molto al momento di ricevere un regalo, in aggiunta al classico arigatō (ありがとう, grazie), per specificare che “non c’era bisogno, ti sei voluto disturbare!”. Sumimasen ha una forte potenza sonora, secondo me, e si presta al messaggio quasi subliminale quando, per esempio, si vuole scendere dal treno affollato e si lancia un fulmineo “sms”, cioè un sumimasen ridotto a sole consonanti sibilanti sparate a fil di labbra. A quel punto la gente che ci circonda, senza nemmeno pensarci, si aprirà in due ali e ci lascerà passare.

Più in là nella scala delle scuse c’è la parola gomen, che si usa per chiedere perdono. Nella versione più formale, gomen nasai (ごめんなさい), serve per chiedere umilmente scusa e nei casi estremi si pronuncia inginocchiati di fronte alla persona a cui si chiede il perdono.

I giapponesi che hanno passato molto tempo a contatto con gli italiani, lavorandoci insieme o convivendo, spesso concordano sul fatto che ci sia un blocco che ci impedisce di chiedere scusa e ammettere i nostri torti. Per risolvere una controversia o anche un piccolissimo malinteso, in Giappone è previsto che entrambe le parti riconoscano l’errore da parte propria per passare oltre. Qui le scuse non si negano a nessuno, si ricevono anche quando si telefona a un negozio o a un ufficio comunale dicendo che dal sito non si trova facilmente l’informazione cercata: la risposta «Ci scusi tanto, evidentemente la pagina web è poco chiara, cercheremo di migliorarla» mi lascia sempre un po’ in imbarazzo.

In Italia, di sicuro, non ho mai visto conferenze stampa in cui il presidente di un grosso gruppo industriale chiede scusa e resta inchinato anche per un minuto insieme a tutto il consiglio direttivo mentre il pubblico guarda e i fotografi scattano di continuo in un fragore di otturatori. Non è raro che lo stesso debbano fare i politici o gli amministratori pubblici, cosa che da che ho memoria penso di non aver mai visto succedere da noi.
Può sembrare un po’ forzato mettere qui un dato che sicuramente ha tantissime altre cause, ma in Italia in media ogni anno si fanno il doppio delle cause civili che in Giappone, e infatti in tutto il paese ci sono meno di 50 000 avvocati, mentre in Italia (che ha la metà della popolazione) sono circa 240 000. I giapponesi sono abituati a mediare, a cercare una soluzione che di solito si trova attraverso le scuse di entrambe le parti.

© 2024, De Agostini Libri

La copertina del libro di Flavio Parisi