Siamo scarsi a comprendere le persone che non la pensano come noi
Eppure siamo quasi certi di saper prevedere le loro opinioni, secondo uno studio sulle convinzioni politiche dei partecipanti
La polarizzazione del dibattito pubblico, uno dei temi più raccontati e discussi degli ultimi anni, ha portato a una sovraesposizione mediatica di opinioni politiche contrapposte e spesso rappresentate senza sfumature. L’accresciuta familiarità delle persone con quelle rappresentazioni potrebbe anche indurle a credere di conoscere abbastanza bene il modo di pensare di chi ha un punto di vista opposto rispetto al loro. Ma quelle supposizioni sono il più delle volte sbagliate, contrariamente alle aspettative di chi le fa, come sostiene uno studio pubblicato ad agosto sulla rivista Scientific Reports.
Lo studio è stato condotto da Bryony Payne e Caroline Catmur, ricercatrici in psicologia cognitiva al King’s College di Londra, e Geoff Bird, ricercatore e professore di neuroscienze cognitive all’Università di Oxford. Il loro obiettivo era studiare il tipo di processi cognitivi che inducono le persone a trarre conclusioni sbagliate sulle opinioni di altre persone. Per farlo hanno reclutato 256 statunitensi, equamente divisi tra persone con idee politiche di sinistra e persone con idee di destra, e hanno misurato quanto fossero capaci di prevedere le convinzioni politiche degli individui del loro stesso gruppo e quelle degli individui dell’altro gruppo.
«Volevamo capire se le persone fossero meno portate a comprendere quelle con cui non erano d’accordo politicamente, e se ne fossero a conoscenza», ha detto al sito Nautilus Payne, che insieme alla sua collega Catmur lavora all’Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience del King’s College, uno dei più importanti centri di ricerca d’Europa sulla salute mentale e sulle neuroscienze.
Per suddividere i partecipanti in due gruppi, Payne, Catmur e Bird hanno sottoposto a ciascuno una serie di 24 affermazioni sui loro valori familiari, etici, religiosi e di altro tipo, e hanno chiesto di esprimere quanto le condividessero su una scala da 1 (molto in disaccordo) a 5 (molto d’accordo). Tra le altre c’erano affermazioni come “l’aborto dovrebbe essere proibito”, “il capitalismo avvantaggia tutte le classi sociali”, “le politiche di welfare hanno un effetto negativo sulla società”, “i poveri sono poveri a causa di cattivi comportamenti”, “sono contrario/a alla pena di morte”, “i matrimoni tra persone dello stesso sesso dovrebbero essere ammessi”.
Per ogni affermazione, a ciascun individuo veniva subito presentata la risposta anonima data da un altro individuo. Se i due avevano un’opinione simile, venivano considerati parte dello stesso gruppo, altrimenti finivano in due gruppi diversi. A ogni partecipante veniva quindi chiesto di immaginare la risposta data dall’altra persona a una seconda affermazione, e di esprimere il livello di attendibilità che attribuiva alla propria ipotesi sulla risposta dell’altra persona, in una scala da «per niente» a «estremamente» sicuro/a.
Per farsi un’idea migliore prima di confermare l’ipotesi iniziale, i partecipanti potevano anche scegliere di ricevere ulteriori risposte che quell’altra persona aveva dato ad altre affermazioni, fino a un massimo di cinque. Dopodiché potevano eventualmente aggiornare la loro previsione iniziale e riformulare anche il giudizio sull’attendibilità della previsione. Ciascun partecipante ha completato questo esercizio per 24 persone diverse.
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I risultati dello studio hanno mostrato che i partecipanti erano inclini a cercare più informazioni sulle persone con cui non erano d’accordo, come prevedibile, ma nonostante questo le loro previsioni erano comunque errate nella maggior parte dei casi. In media ci prendevano poco più del 50 per cento delle volte quando l’altra persona era del loro stesso gruppo. L’accuratezza scendeva al 39 per cento quando l’altra persona apparteneva all’altro gruppo, nonostante questo tipo di ipotesi fosse più “informata” rispetto a quelle formulate per le risposte di persone del proprio gruppo.
In generale i partecipanti tendevano a dirsi abbastanza sicuri della loro capacità di indovinare correttamente le risposte altrui. In media si attribuivano un’attendibilità del 74 per cento, per le supposizioni che riguardavano persone del loro gruppo, e del 72 per cento, per quelle relative a persone dell’altro gruppo. «Le persone proprio non hanno consapevolezza di quanto siano scarse in questa cosa», ha detto Payne.
Uno degli aspetti più preoccupanti emersi dallo studio, secondo le autrici e l’autore, è che i risultati confermano quelli di altre ricerche sull’influenza degli stereotipi nelle nostre valutazioni quotidiane. Quando immaginiamo le opinioni di persone che consideriamo appartenenti a gruppi diversi dal nostro, che sia per convinzioni politiche, per origine etnica o per provenienza geografica, tendiamo a pensare che le loro menti siano relativamente semplici, ha detto Payne. Utilizziamo quindi gli stereotipi come scorciatoie cognitive, per dedurre principi e valori condivisi da quelle persone.
Lo studio mostra peraltro che questi pregiudizi influenzano la ricerca stessa di informazioni sulle persone di cui non condividiamo le opinioni, in questo caso disincentivandola. L’esperimento permetteva infatti di richiedere al massimo cinque risposte aggiuntive date dall’altra persona, per conoscerla meglio. Ma generalmente i partecipanti ne chiedevano meno di cinque, limitandosi alla quantità di informazioni che consideravano sufficiente per fare una valutazione più accurata. In altre parole, smettevano di chiedere informazioni aggiuntive prima di avere il quadro più completo possibile delle opinioni dell’altra persona.
Secondo Catmur, Payne e Bird la conclusione più significativa che è possibile trarre dello studio è che gli errori nella valutazione delle opinioni altrui non derivano da una ridotta propensione a considerare le menti delle persone estranee al gruppo (i partecipanti chiedevano in effetti più informazioni su quelle persone che su quelle del loro gruppo), ma da una peggiore rappresentazione di quelle menti. «Più siamo sicuri di poterle capire, più è probabile che ci sbagliamo», ha detto Payne.
La scarsa capacità di comprendere come la pensano le persone diverse da noi potrebbe essere in parte il risultato della polarizzazione stessa, che porta ad avere meno interazioni con i membri del gruppo opposto. Questo porta a sua volta ad avere meno esperienza nella rappresentazione delle loro menti e a una ridotta comprensione di come potrebbero variare. I risultati dello studio, ha aggiunto Catmur, suggeriscono che le persone sono tuttavia disposte a riconsiderare le loro valutazioni, una volta informate dei loro errori.
Conversare con persone con convinzioni diverse dalle nostre potrebbe servire a mettere in discussione le nostre ipotesi reciprocamente sbagliate. «Sebbene non esistano soluzioni rapide in un contesto reale, se tutte le persone interagissero con un gruppo di persone più eterogeneo, parlassero direttamente con loro e imparassero a conoscerle, è probabile che ci capiremmo meglio», ha concluso Catmur.
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