Yuval Noah Harari nel suo ufficio a Tel Aviv, il 30 marzo 2023 (AP Photo/Oded Balilty)

Yuval Noah Harari la fa sempre semplice

È uno degli storici più letti e influenti al mondo, ma i suoi ambiziosi libri continuano a essere criticati per le interpretazioni sbrigative e sensazionalistiche di fenomeni molto complessi

Da circa dieci anni lo storico israeliano Yuval Noah Harari è uno degli scrittori di maggior successo in Italia e nel mondo, e uno degli intellettuali più apprezzati e consigliati da grandi imprenditori della Silicon Valley, un ex presidente degli Stati Uniti (Barack Obama) e altre persone eccezionalmente influenti. Nato nel 1976, è diventato famoso dopo aver pubblicato in inglese nel 2014 un libro di saggistica intitolato Sapiens, uscito in ebraico tre anni prima. È un racconto dell’evoluzione della specie umana dalla sua origine fino alla rivoluzione informatica: fu un successo clamoroso, con oltre 20 milioni di copie vendute in tutto il mondo.

Dopo i successivi Homo Deus, una storia delle più grandi conquiste tecnologiche e culturali dell’umanità, del 2016, e 21 lezioni per il XXI secolo, un saggio su 21 temi della contemporaneità, del 2018, a settembre Harari ha pubblicato il suo quarto libro: Nexus. Breve storia delle reti di informazione dall’età della pietra all’IA.

Il libro ha ricevuto recensioni in parte positive, per la lucidità delle analisi e l’acutezza delle intuizioni che propone. In sostanza, la tesi che sostiene è che la principale differenza tra le dittature e le democrazie sia il modo in cui gestiscono le informazioni. Le dittature sono più interessate a controllarle che a verificarle, e le democrazie più interessate a condividerle, valutarle e correggerle tramite reti pubbliche, che non a controllarle.

Come i due saggi precedenti, anche il nuovo libro di Harari ha ricevuto tuttavia qualche critica per il fatto di riflettere posizioni vagamente luddiste e, in generale, una certa inclinazione al catastrofismo nella lettura del presente e soprattutto del futuro: temi verso cui si è progressivamente spostato l’interesse di Harari rispetto ai tempi di Sapiens, che si concentra fondamentalmente sul passato. A proposito dell’intelligenza artificiale, per esempio, Harari scrive in Nexus: «Per migliaia di anni profeti, poeti e politici hanno usato il linguaggio per manipolare e rimodellare la società. Ora i computer stanno imparando a farlo. E non avranno bisogno di inviare robot assassini a spararci. Potrebbero manipolare esseri umani per fargli premere il grilletto».

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A parte le tendenze catastrofiste presenti nelle sue pubblicazioni più recenti, alcuni critici hanno individuato anche nel nuovo libro di Harari un aspetto più generale che è considerato il punto di forza e allo stesso tempo uno dei principali limiti del suo approccio alla scrittura, fin dall’uscita di Sapiens: la tendenza a semplificare fenomeni complessi e a concentrare l’attenzione solo su quelli che servono a sostenere certe tesi e a rendere avvincente il racconto. È un rischio in parte inevitabile per qualsiasi autore o autrice che si misuri con l’ambizione di raccontare la storia dell’umanità in 500 pagine. Che è più o meno la lunghezza dei libri di Harari, da molti apprezzato per il suo stile semplice e discorsivo, ma da altri criticato per la perentorietà, la mancanza di sfumature e il sensazionalismo di alcune sue interpretazioni.

Per quanto isolate, le critiche di altri storici e di persone che per lavoro fanno o si occupano di ricerca fanno emergere in generale una questione che non riguarda soltanto Harari, e che è centrale in tutta la divulgazione: la difficoltà di sintetizzare e rendere popolare il racconto della scienza, incluse le scienze umane, senza ridurne la complessità.

Altre critiche, più ampie, si concentrano inoltre sull’eccezionale livello di autorevolezza che pensatori come Harari – ma vale anche per autori più divisivi di lui, tra cui Jordan Peterson – raggiungono per effetto del loro successo trasversale. Oggetto delle critiche è la disinvoltura con cui alcuni di loro, indipendentemente dalle loro competenze specifiche, condividono ipotesi e previsioni sul futuro che sono poi spesso accolte dogmaticamente in molti ambiti dell’industria culturale. «Abbiamo qui una mente capace di pensare come più o meno nessun altro sul pianeta», disse di Harari nel 2017 il capo delle conferenze TED Chris Anderson, prima di una conversazione in cui gli rivolse domande su qualsiasi argomento, dalla politica all’economia al cambiamento climatico al problema filosofico della coscienza.

Yuval Harari al Fast Company European Innovation Festival organizzato da Gucci a Milano, il 9 luglio 2019 (Claudio Lavenia/Getty Images for Fast Company)

Lo storico dell’università di Oxford Steven Gunn, peraltro relatore della tesi di dottorato di Harari, disse al New Yorker nel 2020 che Harari aveva probabilmente beneficiato della scelta inusuale di trattare un arco di tempo estremamente ampio e di occuparsi di argomenti ben al di là dei consueti interessi dei divulgatori di storia del XX secolo. Questo approccio aveva permesso al suo libro di maggior successo, Sapiens, di ricevere soltanto qualche critica puntuale e piuttosto marginale, e di evitare critiche accademiche più articolate e complete, disse Gunn: perché «nessuno è un esperto del significato di tutto, o della storia di tutti, su un periodo lungo».

Il libro, secondo Gunn, poneva domande sufficientemente ampie e generiche da non lasciare spazio a obiezioni centrate contro le ipotesi formulate da Harari. Lo stesso articolo del New Yorker che riportava l’opinione di Gunn, in mezzo alle altre, forniva già nel titolo una misura dell’ambizione dell’autore di Sapiens: «La storia di tutti, di tutti i tempi, secondo Noah Harari».

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In Nexus la parte dedicata al racconto e all’analisi di eventi storici è limitata alle prime 200 pagine, in cui Harari passa rapidamente dalle tavolette d’argilla assire all’epidemia di colera in Europa nel XIX secolo al pogrom degli ebrei in Romania nel 1941 al genocidio dei rohingya in Myanmar. Lo fa in un modo abbastanza vertiginoso e nemmeno con particolare competenza, ha scritto il New York Times, e dà «l’effetto di un volo in cui la persona seduta accanto a te è colta, sovreccitata e determinata a raccontarti la sua Teoria del Tutto».

Harari sostiene che le reti di informazioni siano le strutture fondamentali delle società, e che il controllo di quelle informazioni – non necessariamente ancorate alla realtà delle cose – dia origine a finzioni, fantasie e delusioni di massa, che possono portare a sviluppi catastrofici come il nazismo e lo stalinismo. Fa l’esempio del Malleus Maleficarum, “Il martello delle malefiche”, un manuale per smascherare e uccidere le streghe, scritto in Austria nel 1480 dal frate domenicano Heinrich Kramer. Senza l’invenzione della stampa qualche decennio prima, scrive Harari, le folli idee di Kramer – un tipo «mentalmente squilibrato» e già emarginato dalle autorità ecclesiastiche locali – non si sarebbero mai diffuse in Europa, alimentando una frenetica caccia alle streghe.

Alla seconda parte del libro è dedicata l’analisi dei rischi dell’intelligenza artificiale, che secondo Harari si differenzia dalla stampa e dalle tecnologie precedenti perché «è la prima tecnologia in grado di prendere decisioni e generare idee da sola», e perché «le IA sono membri a pieno titolo delle nostre reti informative, essendo dotate di una loro agentività». Nei prossimi anni, prosegue Harari, «tutte le reti – dagli eserciti alle religioni – acquisiranno milioni di nuovi membri IA, che elaboreranno i dati in modo diverso dagli esseri umani» e prenderanno decisioni che gli esseri umani difficilmente prenderebbero.

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L’idea che gli esseri umani possano diventare uno strumento dell’intelligenza artificiale (o «aliena», come la definisce Harari) anziché il contrario, con effetti catastrofici, di solito trova spazio più che nella divulgazione nella fantascienza, genere di cui peraltro Harari è appassionato. Le sue interpretazioni di molti fenomeni contemporanei e le sue ipotesi sul futuro hanno rafforzato tra molti suoi critici l’impressione che il suo pensiero, perlomeno da Sapiens in poi, sia diventato del tutto sovrapponibile a quello di molti “apocalittici” nella secolare disputa tra apocalittici e integrati, definita negli anni Sessanta dal semiologo Umberto Eco.

Da questo punto di vista, nelle stesse tecnologie in cui autori come lo psicologo evoluzionista Steven Pinker individuano opportunità di progresso e miglioramento delle condizioni di vita della specie umana, Harari individua un rischio di disastri inimmaginabili. E finisce per promuovere un’interpretazione del presente che legittima indirettamente atteggiamenti conservatori e luddisti, genericamente avversi ad agenti «alieni» futuri ma poco o per niente concentrati sugli agenti attuali. «È strano, in una critica a una tecnologia guidata in gran parte da multinazionali in cerca di profitto, che il capitalismo sia appena citato», ha scritto il Guardian recensendo Nexus.

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Anche in Sapiens, il suo libro più famoso e apprezzato, Harari fa riferimento in alcuni passaggi a condizioni ancestrali della specie umana descritte come migliori e preferibili rispetto a quelle immediatamente successive lungo l’evoluzione biologica. Sostiene, per esempio, che poco prima dell’invenzione dell’agricoltura gli umani vivessero tutto sommato meglio, considerati i loro problemi iniziali di adattamento evolutivo al nuovo contesto, tra cui l’aumento delle zoonosi causato dalla costante vicinanza ad altre specie animali.

Per sostenere questo racconto Harari formula però in modo alquanto perentorio ipotesi che nella ricerca sono discusse. Scrive che gli umani arrivarono al vertice della catena alimentare «così in fretta da non permettere all’ecosistema di equilibrare le cose», e in modo «troppo veloce» – qualche decina di migliaia di anni – rispetto ad altri animali che impiegarono «milioni di anni per giungere al vertice della loro piramide alimentare». Ma l’ipotesi del disallineamento evolutivo tra presunti tratti biologici fondamentali della specie umana e ambiente, per quanto popolare, è da tempo contestata da diversi ricercatori che la considerano basata su un’idea semplicistica della relazione tra biologia e cultura, che trascura i modi in cui gli esseri umani trascendono normalmente i limiti posti dall’ambiente e modificano le pressioni selettive a cui sono esposti.

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Nonostante i limiti di alcuni esempi, Sapiens fu largamente apprezzato per la capacità di Harari di maneggiare e sviluppare nozioni eterogenee, alcune delle quali prese in prestito da importanti autori statunitensi come l’antropologo Marvin Harris e il biologo e fisiologo Jared Diamond. La tesi principale del libro – non del tutto originale, ma esposta con chiarezza e grande capacità di sintesi – è che gli esseri umani siano diventati la specie dominante sulla Terra per la loro attitudine a immaginare e raccontare storie, facoltà che permise loro di cooperare in gruppi sempre più numerosi.

Secondo Harari la capacità umana di credere in cose completamente immaginarie fu la condizione necessaria per l’esistenza di religioni, economie e nazioni: in definitiva, la ragione del dominio umano sulle altre specie.

È relativamente facile concordare sul fatto che solo l’Homo sapiens può parlare di cose che non esistono veramente, e di mettersi in testa cose impossibili appena sveglio. Non riuscireste mai a convincere una scimmietta a darvi una banana promettendole che nel paradiso delle scimmiette, dopo morta, avrà tutte le banane che vorrà. […] Anche formiche e api possono lavorare insieme in grandi numeri, ma lo fanno in forme estremamente rigide e solo all’interno di strette parentele. I lupi e gli scimpanzé cooperano in maniera molto più flessibile rispetto alle formiche, ma lo possono fare solo con piccoli numeri di altri individui che conoscono intimamente. I sapiens sono in grado di cooperare in modi estremamente flessibili con un numero indefinito di estranei.

D’altra parte, la libertà e la disinvoltura con cui Harari gestì le fonti e i dati citati in Sapiens gli procurarono – già prima che le tendenze catastrofiste emergessero nei libri successivi – l’accusa di «populismo scientifico», secondo una definizione della neuroscienziata e giornalista scientifica Darshana Narayanan in un articolo pubblicato nel 2022 sul bimestrale statunitense Current Affairs.

Narayanan scrisse che il libro di Harari, secondo diversi neuroscienziati e biologi evoluzionisti, conteneva errori «numerosi e sostanziali, che non possono essere liquidati come pignolerie». Citò alcuni passaggi introduttivi molto poco rigorosi sul piano scientifico, tra cui la parte in cui Harari mette a confronto l’evoluzione «troppo rapida» della specie umana con quella di altre specie. In quel passaggio Harari definisce leoni e squali «creature maestose» e «infuse di un’assoluta sicurezza», e gli umani «schiappe della savana», animali «pieni di paure e di ansie» riguardo alla posizione che occupano nel mondo: fatto che li rende «doppiamente crudeli e pericolosi».

«Harari sta forse insinuando che, se ci fossimo presi il nostro tempo per arrivare in cima alla catena alimentare, questo pianeta non avrebbe avuto guerre o cambiamenti climatici causati dall’essere umano?», si chiese Narayanan. Altre parti da cui emerge lo stile narrativo avvincente ma l’approccio non scientifico dell’autore, secondo Narayanan, sono quelle in cui Harari attribuisce un «linguaggio» ad animali non umani come le api e i cercopitechi, mostrando di non avere del tutto chiare le varie ragioni per cui la comunicazione verbale umana e i codici della comunicazione animale sono gruppi convenzionalmente distinti nella semiotica.

Nell’ultima parte di Sapiens Harari allude inoltre a scenari futuri in cui l’ingegneria genetica e altre forme di bioingegneria potrebbero permettere di modificare non soltanto la fisiologia o l’aspettativa di vita degli esseri umani, ma le loro «capacità intellettuali ed emozionali». Che secondo Narayanan è un’idea molto ingenua di bioingegneria, un argomento su cui diversi psichiatri, biochimici e altri scienziati che non sono genetisti tendono a esprimersi sottostimando molto l’influenza dell’ambiente e assecondando un’idea dei geni intesi come agenti causali delle vite umane. «I nostri geni non sono i nostri burattinai, che muovono i fili giusti al momento giusto per controllare gli eventi che ci creano», scrisse Narayanan.

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Secondo Narayanan il principale pericolo del populismo scientifico di Harari deriva dalla sua tendenza a pronosticare il futuro dell’umanità, e di farlo sotto l’attenzione di politici ed «élite decisionali» che subiscono enormemente la sua influenza. La sua narrazione e quella di altri autori di successo come lui sono in gran parte ripulite da sfumature o dubbi, e «come scienziata so quanto sia difficile trasformare questioni complesse in una narrazione accattivante e accurata», scrisse Narayanan. Ma il desiderio collettivo di ascoltare «una sorta di profeta che attraversa coraggiosamente molteplici discipline per fornire risposte semplici, leggibili e sicure», per quanto comprensibile, non può superare la necessità collettiva di scoprire se le ipotesi di quelle «guide sagge» siano fondate.

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