Truman Capote fotografato nel 1965 a Milano dove era arrivato per trattare con l'editore Garzanti il contratto del suo nuovo libro <i>In Cold Blood</i>. (Keystone/Getty Images)

L’altro libro sul male di Truman Capote, nato cent’anni fa

«È un segreto ben custodito, ma a distanza di quattordici anni da A sangue freddo, Capote decise di addentrarsi di nuovo in una terra di nessuno per raccontare una serie di omicidi e cercare il senso del mistero dietro a un gesto criminale. Una serie di persone comincia a ricevere per posta una piccola bara di legno, intagliata a mano, che all’interno custodisce una fotografia dove sono ritratte. È un avvertimento. Di lì a poco, le persone vengono assassinate con metodi agghiaccianti»

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A un certo punto della sua vita Truman Capote decise di andare in un luogo sperduto al centro dell’America dove erano accaduti alcuni delitti efferati e scrivere un libro sul male.

No, non sto parlando di A sangue freddo. Sto parlando dell’altro.

È un segreto ben custodito, ma a distanza di quattordici anni dal capolavoro che l’aveva consacrato, Capote decise di addentrarsi in un territorio analogo. Si tratta di un breve excursus intorno a una catena di terribili omicidi. Sono cento pagine in cui Capote, coinvolto da un amico, si avventura di nuovo in una terra di nessuno per cercare il senso del mistero dietro a un gesto criminale. Una serie di persone comincia a ricevere per posta una piccola bara di legno, intagliata a mano, che all’interno custodisce una fotografia dove sono ritratte, scattata di nascosto per la strada. È un avvertimento. Di lì a poco, le persone vengono assassinate con metodi agghiaccianti: bruciate vive in cantina, assalite dentro l’automobile da serpenti a sonagli, e così via. Truman Capote – che qui, a differenza dell’altro libro, appare in prima persona – viene convocato come osservatore da un amico sceriffo, convinto della colpevolezza di un certo personaggio.

Il libro venne intitolato, appunto, Bare intagliate a mano, Handcarved coffins, e il sottotitolo recitava Cronaca vera di un delitto americano. Insomma, una sorta di sequel tematico-stilistico di In Cold Blood. Con una piccola decisiva differenza in confronto al capolavoro del 1966 (che pure ha diverse piccole contraffazioni): Bare intagliate a mano è inventato di sana pianta, tutto quanto, dalla prima all’ultima riga. L’amico di Truman Capote non esisteva. I delitti non sono mai avvenuti. L’ipotetico omicida, piazzato lì con nome e cognome, non ha mai respirato su questo pianeta. L’unica cosa vera di quel breve libro era, be’, Truman Capote. Il libro venne spacciato per attendibile, ma collocato nell’ultima raccolta pubblicata in vita, Musica per camaleonti (1980), quasi nascosto dentro una serie di racconti di tenore completamente diverso che precedevano e seguivano queste cento pagine.

Come era arrivato Capote, di cui cadono adesso i cento anni dalla nascita, a scrivere quella scheggia insolita? E perché nasconderla così?

Il vero nome di Truman Capote – che era nato il 30 settembre 1924 a New Orleans, in Louisiana, sud degli Stati Uniti, e passò l’infanzia girando nell’America rurale – era Truman Streckfus Persons (“Persons”, per certi versi una maledizione nella culla: una moltitudine di personaggi in un uomo che si sarebbe lentamente dissolto). La madre si separò presto dal padre e lo fece adottare dal nuovo compagno, Capote. In realtà come figlio non era stato per niente voluto. Passò gli anni decisivi dell’infanzia senza di lei, un’alcolista poi morta suicida («La persona che più mi ha fatto male nella vita»), chiuso in camere d’albergo mentre la madre andava a uomini.

Da ragazzino venne lasciato alla cuginanza: ossia un tizio scapolo e tre sorelle nubili, la maggiore delle quali non si allontanava mai da casa ed era considerata «una sempliciotta», forse con qualche ritardo. Fu lei – Sook – a diventare la migliore amica di Truman ragazzino e a restare come personaggio memorabile in alcuni dei suoi migliori racconti. Il ritorno dalla madre, a otto anni, a New York, gli fece male e bene. Male perché lei cercò di estirpargli l’omosessualità a furia di cure e psichiatri: il risultato fu che gli divenne impossibile nasconderla, anzi la ostentò e rivendicò con una naturalezza del tutto aliena da sensi di colpa (non gradiva i panni della vittima e, se parlava di quando al cinema da giovane gli era successo di masturbare un professore, lo faceva come se fosse una cosa come un’altra). Bene perché c’era New York, verticale e scintillante, un mondo a cui voleva a tutti i costi appartenere e che non smise mai di disprezzare. Odiava la scuola, non gliene fregava nulla di apprendere: teneva solo alla scrittura. Trovò lavoro come fattorino al New Yorker e intanto scriveva, scriveva, scriveva. A 21 anni pubblicò il primo fenomenale racconto (Miriam) e cominciò a farsi strada. Dal ’48 al ’58, l’ascesa fu irresistibile. Dopo Colazione da Tiffany, il film con Audrey Hepburn, Capote era all’apice. Non bastava.

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Quel nanerottolo dalla voce chioccia imbottito di Martini – un metro e sessanta con la testolona dei pupazzi, soprannominato “Tiny Terror” – ritagliò dall’edizione del New York Times del 16 novembre 1959 una notiziola di cronaca nera sul quadruplice omicidio di un ricco agricoltore e della sua famiglia e si trasferì in Kansas per raccontare la nostra fratellanza con chi pratica il male. Sapeva bene che cos’erano la povertà e l’abbruttimento, eppure non era detto che fosse in grado di raccontare quella violenza stolida. Non solo ci riuscì: fece molto di più. In Cold Blood fondò un nuovo genere, divenne un marchio immortale. Ancora oggi è sufficiente che una qualsiasi persona dedita alla scrittura si occupi di un fattaccio, su una gazzetta locale o per un grande editore, perché il libro di Capote venga tirato in ballo. Ad ogni modo fu il momento culminante di un’ascesa irresistibile.

Di lì a poco Capote ebbe il mondo ai suoi piedi. Subito dopo la pubblicazione diede il famoso ballo in bianco e nero, ossia il suo ricevimento di matrimonio con l’alta società. Come nelle migliori parabole, non poteva che cadere, e decadere. E così fu, un passo falso dopo l’altro, fino alla pubblicazione su rivista del famigerato capitolo La Côte Basque, 1965, in cui svelava i fatti intimi di riconoscibilissime amiche, e al crollo verticale nella vodka mattutina, nella cocaina serale, nelle comparsate in televisione sbronzo, nel sesso violento con un amante approfittatore, in tutto ciò che lo portò a non terminare un grande fantomatico romanzo, Preghiere esaudite, e a morire a soli 59 anni.

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Eppure, l’altezza da cui Capote arrivava ci ha ingannati rispetto a quella fase. Certo, i racconti dei primi anni andrebbero letti tutti i mesi, come un lenitivo (altro che perfidia: provate a non ridere e a non piangere con il Ricordo di Natale); L’arpa d’erba ha una bellezza incantata così inaccessibile e misteriosa da essere stato quasi dimenticato; la nonfiction è esemplare, con vette assolute come il ritratto di Marlon Brando; Colazione da Tiffany è la novella perfetta (al di là del film: i paragrafi, le singole parole, gli occhi di Holly Golightly «clear as rain water»); di A sangue freddo abbiamo detto.

Ma tutto il discorso sul periodo finale si è cristallizzato intorno a tre cose: l’impasse creativo, la relazione interrotta con il jet-set newyorkese e l’alcol. Fu un momento di crisi profonda che viene raccontato in un libro di Laurence Leamer (Capote’s women, Garzanti, traduzione di Albertine Cerutti, pp. 342, € 20) e in una bella serie tv di Gus Van Sant (Feud: Capote vs. The Swans, Disney+). Ed è vero: non riusciva a mettere a fuoco la Grande Opera, eppure Capote – come nota giustamente Leamer nel suo libro – è soprattutto un miniaturista. Una riga vale un libro. Quando riusciva a reggere per più di cento pagine arrivava un’opera d’arte, ma non a caso nella sua versatilità (continuò a lavorare per il teatro, per la radio, per la televisione, per il cinema) scrisse quasi sempre cose brevi.

Forse nel momento di decadenza in cui decise di ritornare a scrivere del male, ma inventandolo da zero, ebbe paura e si rifugiò in un genere che gli aveva portato fortuna. Forse nutriva l’umanissima speranza di mentire per arrivare di nuovo alla verità. Forse fu debole. In seguito, quando era già morto, si parlò di truffa, come se vilmente avesse cercato la morbosità voyeuristica del pubblico. E un po’ è così. Forse fu proprio per pudore che nascose il libro dentro Musica per camaleonti, dove a spadroneggiare c’era il celeberrimo ritratto di Marilyn Monroe.

Eppure Bare intagliate a mano fa storia a sé. È diverso da A sangue freddo. Mescola diversi stili. È più diretto, pieno di dialoghi cinematografici, di descrizioni fulminanti, con un finale aperto modernissimo. «Volevo che il racconto fosse veloce come il morso di un serpente a sonagli», disse Capote. E lo è. Il nostro scrittore in crisi s’inventò un finto true crime: ambiguo, irrisolto, con personaggi fantastici. Nel pozzo della crisi più profonda della sua vita, Capote sfoderò un piccolo capolavoro di inquietudine ed equilibrio narrativo, che non a caso venne immediatamente opzionato dal cinema. Esistono un paio di stesure del copione scritto da William Peter Blatty, l’autore dell’Esorcista, e pensato per Michael Cimino. In seguito si parlò di registi come Jonathan Demme e Sidney Lumet, ma i dissidi sul finale della storia e le pastoie di Hollywood fecero saltare tutto. Quest’anno, in occasione del centenario della nascita, l’editore l’ha giustamente ripubblicato in un volume autonomo con la mia traduzione (Garzanti, pp. 108, 16 €). È un esperimento, un’allucinazione, un tentativo assurdo: una scheggia dark degna di True Detective.

In Bare intagliate a mano c’è la consueta, immensa grazia stilistica. C’è il grande vuoto spazio americano. C’è Capote che si immerge nel delitto e poi scappa in Svizzera e poi a Venezia e poi a Istanbul, per poi tornare sul fattaccio, come se non riuscisse più a staccarselo di dosso. Come se la morte, in fondo tanto imminente, gli risultasse più prossima del bel mondo. Ma insomma, eccolo qua il vecchio Truman, di nuovo in forma, di nuovo alle prese con la desolazione, a inventarsi una strana storia.

C’è qualcosa di interessante nel fatto che Capote dia il meglio nei racconti sulla provincia misera dove era cresciuto o sull’alta società newyorkese fredda e sprezzante: entrambi i luoghi si collocano fuori dal tempo, in un non-conformismo naturale e autonomo. A Manhattan dominano i soldi di chi è up to date, fuori domina il disagio di disadattati che trovano un proprio mondo di sogno, lontano dalla società (cuori semplici, per dirla con l’amatissimo Flaubert). In mezzo stava lui, sempre in bilico: cenava con gli Agnelli come se fossero i balordi della sua infanzia («È stato abbastanza divertente», commentava in una lettera a Beaton. «Però che gente assurda») e guardava ai balordi come se fossero un regno incantato.

In fondo, come osserva giustamente il suo biografo, quando Capote in un brano descrisse Tennessee Williams, descrisse – come spesso capita – sé stesso: «C’è qui un ometto tarchiato con un temperamento drammatico che, come una delle sue eroine alla deriva, cerca attenzione e solidarietà sciorinando bugie, cui crede per metà, a perfetti estranei. Estranei perché non ha amici, e non ha amici perché le sole creature di cui ha compassione sono i suoi personaggi e sé stesso – tutti gli altri sono soltanto pubblico». Ma forse Truman non aveva compassione nemmeno per sé stesso. Si considerava un genio, certo, ma si tolse di mezzo in gran fretta.

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