Non sarà facile per il centrosinistra vincere i referendum
C'è grande entusiasmo per quelli sul Jobs Act, sull'autonomia e sulla cittadinanza: ma dal 1995 solo 4 su 29 hanno raggiunto il quorum
Nella primavera del 2025 ci saranno verosimilmente tre referendum. Negli ultimi mesi sono state infatti raccolte le firme necessarie – almeno 500mila – per indire dei referendum abrogativi in tre diversi settori: uno per cancellare il Jobs Act, la legge sul lavoro introdotta nel 2015 dal governo di Matteo Renzi; uno sull’autonomia differenziata, per cancellare la legge introdotta lo scorso giugno dal governo di Giorgia Meloni che consente di attribuire maggiori poteri alle regioni; e infine uno sulla concessione della cittadinanza, per ridurre da 10 a 5 gli anni in cui uno straniero deve risiedere in Italia prima di poterla chiedere.
Le raccolte delle firme sono state promosse in varie modalità da partiti, associazioni e movimenti di centrosinistra, con i partiti che si collocano in quell’area che hanno mostrato una sostanziale compattezza in opposizione al governo di destra. Anche per questo, al di là del merito dei quesiti in discussione, i tre referendum stanno assumendo un valore più largamente politico: appaiono, cioè, come delle iniziative che possano mettere in difficoltà il governo, che in effetti guarda con ostilità a queste proposte.
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La prima fase del referendum, cioè la raccolta delle firme, è stata un discreto successo: sia per il consistente numero di adesioni (in particolare, per quello sul Jobs Act promosso dalla CGIL, ci sono stati oltre 4 milioni di sottoscrizioni), sia per la rapidità con cui, per il quesito sull’autonomia e ancor più su quello sulla cittadinanza, si è raggiunto il risultato minimo delle 500mila firme. Il successo finale, però, appare al momento molto meno scontato. Perché un referendum abrogativo sia valido, infatti, serve che si raggiunga il quorum, cioè che vada a votare più della metà degli aventi diritto, e che i favorevoli al quesito risultino la maggioranza dei votanti. Ma i tassi di astensionismo ormai strutturalmente elevatissimi e una generale disaffezione popolare nei confronti dei referendum rendono questo obiettivo complicato.
In parte l’esito dei referendum potrà essere condizionato dalla data in cui verranno indette le consultazioni. La legge prevede che i quesiti debbano prima superare il giudizio della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale (che dovranno verificare rispettivamente la validità delle firme raccolte e l’ammissibilità dell’iniziativa sul piano giuridico e costituzionale); poi il prossimo febbraio spetterà al governo, d’intesa col presidente della Repubblica, individuare il giorno per il voto, che dovrà comunque essere compreso tra il 15 aprile e il 15 giugno. I promotori dei referendum stanno già invocando, in linea con quanto succede di prassi in questi casi, quello che viene chiamato election day, cioè di votare per tutti e tre i referendum in uno stesso giorno, perché questo ovviamente aumenterebbe le possibilità di raggiungere il quorum. Non è detto che il governo acconsentirà.
In ogni caso, perché i referendum siano validi, dovranno andare a votare più di 25,5 milioni di persone, cioè appunto più della metà dei 50,86 milioni di aventi diritto (in cui sono compresi anche i 4,7 milioni di elettori residenti all’estero). È un numero molto alto: non solo in termini assoluti, ma soprattutto in rapporto al livello di partecipazione al voto ormai consolidato in Italia. Significherebbe che a votare per un referendum abrogativo sarebbero più delle persone che hanno votato alle ultime elezioni europee del giugno 2024, quando l’affluenza è stata del 48,3 per cento.
Anche a livello storico, i precedenti testimoniano una difficoltà sempre maggiore a raggiungere il quorum in occasione dei referendum. Su 77 referendum abrogativi fin qui svolti (i primi nel maggio del 1974, gli ultimi nel giugno del 2022), è stato raggiunto il quorum in 39 occasioni: 35 di questi però sono concentrati tra il 1974 e il 1995. Da quel momento in poi, su 29 referendum, solo 4 (quelli svoltisi nel giugno del 2011) sono stati validi (anche se poi non hanno avuto grandi effetti concreti).
Questo progressivo disinteresse verso i referendum ha varie ragioni. Anzitutto, negli anni Settanta e Ottanta, la partecipazione al dibattito politico e l’affluenza elettorale erano in generale più alte, e l’Italia era anzi uno dei paesi occidentali col più alto tasso di affluenza media. Inoltre, le prime iniziative riguardarono temi estremamente sentiti dalle persone e che generarono accalorati dibattiti sui media: il divorzio nel 1974, il finanziamento pubblico ai partiti nel 1978, l’aborto nel 1981, la scala mobile (cioè l’adeguamento automatico degli stipendi all’inflazione) nel 1985, tutti quesiti su cui i votanti furono numerosissimi (tra il 77 e l’87 per cento), e che valsero a dare una grande legittimazione all’istituto del referendum.
Proprio la sua fortuna è stata però poi anche il motivo del declino del referendum, nel senso che di questo strumento si è finito un po’ con l’abusare, proponendo quesiti su temi di interesse meno trasversale (l’ordinamento giudiziario, le carriere dei magistrati o quelle dei giornalisti, l’installazione e il passaggio delle condutture elettriche sui terreni…) o su cui era estremamente difficile per molte persone farsi un’opinione informata (come per esempio sulla procreazione assistita). Ma soprattutto, più nel complesso, era cambiato l’approccio degli italiani alla vita politica: ci sono stati sempre di più un disinteresse verso il dibattito giornalistico e parlamentare, una crescente sfiducia nei confronti dei partiti e un tasso di affluenza che di conseguenza tendeva a scendere costantemente.
Contestualmente è cambiata nel tempo anche la tattica politica di chi è contrario all’approvazione del referendum. Se per buona parte degli anni Settanta e Ottanta anche chi si opponeva all’approvazione del quesito faceva campagna per favorire le proprie ragioni, spingendo comunque il proprio elettorato di riferimento ad andare a votare, nel corso degli anni si è via via affermato il principio per cui chi è contrario alla proposta referendaria suggerisce di disertare la consultazione, o più semplicemente evita di parlarne. Una sorta di boicottaggio, ovviamente del tutto legittimo, che però disincentiva la partecipazione.
Questa difficoltà a raggiungere il quorum sta diventando ancor più eclatante da quando, a partire dal 2021, in Italia è stata introdotta la possibilità di raccogliere le firme per indire la consultazione anche in formato digitale. Per i promotori è molto più agevole ed economico raggiungere la soglia delle 500mila sottoscrizioni: non serve più allestire gazebo in giro per le città, avere volontari che passano ore a raccogliere ed autenticare le firme, con costi e impegni notevoli. Ma la maggiore facilità di ottenere adesioni rende ancor più evidente le complicazioni sul raggiungimento del quorum: si rischia insomma di avere un numero sempre maggiore di quesiti referendari che sempre più raramente hanno come esito un referendum valido, svilendo ancora di più un istituto che è considerato tra i più preziosi della democrazia.
Anche per queste ragioni, nella scorsa legislatura c’erano state varie proposte in parlamento per rendere la norma sui referendum più in sintonia coi tempi che corrono. Tra gli altri, il deputato del Partito Democratico Stefano Ceccanti aveva suggerito di innalzare da 500 a 800mila il numero di firme necessarie per indire il referendum e però di rendere flessibile il quorum, prevedendo cioè la validità della consultazione a patto che andasse a votare più della metà di coloro che avevano votato alle ultime elezioni politiche nazionali. Nessuna di queste proposte è stata però approvata in parlamento.