Un'operazione di spostamento di rifiuti nucleari all'ITREC di Rotondella (ANSA/ ELISABETTA GUIDOBALDI)

La grossa inchiesta per disastro ambientale in Basilicata

Secondo l'accusa un ex centro di gestione di scorie nucleari a Rotondella avrebbe riversato acque con sostanze cancerogene – ma non radioattive – nel mar Ionio e in un fiume vicino

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Sedici persone sono indagate in un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Potenza per disastro ambientale sull’ITREC di Rotondella, in Basilicata, un impianto per la conservazione e lo studio delle scorie nucleari in dismissione da tempo ma ancora in attività. Secondo i magistrati ci sarebbero state gravi violazioni nella gestione dei rifiuti: fra le altre cose l’impianto avrebbe riversato senza gli adeguati trattamenti acque contaminate anche da cromo esavalente e tricloroetilene, sostanze cancerogene (ma non radioattive) nella falda acquifera, nel vicino fiume Sinni e nel mar Ionio.

Le accuse includono attività organizzata finalizzata al traffico illecito di rifiuti, disastro ambientale, inquinamento ambientale e falso. Tra gli indagati ci sono dirigenti dell’ITREC e della Sogin (la società statale che ha il compito di smantellare gli impianti nucleari e gestire i rifiuti radioattivi, fra cui l’ITREC) e funzionari del comune di Rotondella, della provincia di Matera e dell’Azienda regionale per la protezione dell’ambiente della Basilicata (Arpab).

Secondo l’accusa alcuni dirigenti della Sogin avrebbero aspettato un anno, dalla scoperta della contaminazione nel 2014 al 2015, prima di comunicare alle autorità competenti la forte presenza di cromo esavalente e tricloroetilene nelle acque circostanti all’impianto. E lo avrebbero fatto nel tentativo di evitare i costi di gestione dei rifiuti, e le ripercussioni politiche e pubbliche sull’immagine della società. In diversi casi i dirigenti dell’impianto avrebbero disattivato volontariamente le pompe che evitano la diffusione nella falda acquifera delle acque contaminate, secondo l’accusa per risparmiare sui costi energetici e di gestione dei rifiuti liquidi che sarebbero stati prodotti. In questo modo però la contaminazione si sarebbe estesa alla falda acquifera nelle zone circostanti all’impianto.

Sogin avrebbe poi presentato dati falsificati e documenti datati a comune, provincia e regione, a cui infatti viene contestato di non aver eseguito i controlli adeguati. In questo modo, cioè non divulgando i dati sulla contaminazione, la società avrebbe ottenuto un’autorizzazione a scaricare in mare acque reflue radioattive entro una certa quantità, e nel fiume Sinni l’acqua derivante dai suoi processi produttivi. Avrebbe anche scaricato nel fiume l’acqua piovana che passava dall’impianto senza trattarla, cosa che richiede un’apposita autorizzazione (ma non è chiaro se l’ITREC fosse autorizzato o meno).

Con un comunicato la Sogin ha respinto le accuse e contestato la ricostruzione delle indagini. Ha detto che le contaminazioni non sono state causate dal suo impianto, e che le ha denunciate subito dopo averle rilevate nel 2015, come sarebbe testimoniato dagli atti di diverse conferenze dei servizi (incontri tra diverse pubbliche amministrazioni con lo scopo di approvare grandi progetti e concedere autorizzazioni). Ha anche precisato che il suo scopo è la tutela dell’ambiente, e non la produzione di profitti.

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