“Emily in Paris” ha portato il product placement a un altro livello

La serie di Netflix è piena di pubblicità, anche vere e proprie, e ha sperimentato metodi creativi per promuovere marchi e prodotti: succede anche a causa delle difficoltà della piattaforma

Caricamento player

La seconda parte della quarta stagione di Emily in Paris è su Netflix dal 12 settembre e chi ha un abbonamento che prevede inserzioni pubblicitarie (quello più economico) potrebbe avere notato che, mettendo in pausa una puntata, compare tra le molte pubblicità anche una che invita a usare Google Lens, l’applicazione di Google che identifica cosa viene fotografato e lo cerca online, per trovare dove comprare abiti e oggetti presenti nella serie. È la parte più evidente di un nuovo approccio alla pubblicità che Netflix sta sperimentando da qualche anno e soprattutto con questa serie.

(Netflix)

Emily in Paris è per molti versi la produzione perfetta per questo tipo di tentativi. Racconta di una ragazza di Chicago che va a vivere e lavorare a Parigi, in un’agenzia di marketing per prodotti di lusso. La protagonista è caratterizzata da un gusto molto particolare e una gran cura nel vestire (giudicato da molti ridicolo) e molto di ciò che viene raccontato coinvolge marchi di lusso, oggetti di design e abiti eleganti. Da sempre la serie fa un grande utilizzo del product placement, un espediente non nuovo e molto usato che prevede l’uso di marchi reali nella storia, i quali pagano per essere in evidenza nelle immagini promozionali e per essere associati ai protagonisti (che funzionano quindi come dei testimonial). La stessa Netflix in passato aveva sfruttato altre serie, come Stranger Things, per collaborare con Coca-Cola (che per l’occasione rimise in commercio la New Coke, che era venduta all’epoca in cui è ambientata la storia), o The Witcher, per collaborare con il marchio di prodotti per l’igiene personale Old Spice, che aveva commercializzato delle fragranze paradossali e ironiche ispirate al Medioevo.

La quarta stagione di Emily in Paris però ha aumentato nettamente le trame e gli intrecci che prevedono di mostrare e nominare dei marchi noti (il fatto che la protagonista lavori nel marketing lo rende naturale: basta fare in modo che se ne debba occupare per lavoro) e in diversi casi, visto il successo della serie, alcuni hanno creato prodotti appositi. Baccarat per esempio ha creato un profumo che poi è stato messo in vendita, e così ha fatto il marchio di streetwear Ami Paris, che nella serie è cliente dell’agenzia della protagonista (che poi finisce con il suo fidanzato in una sua pubblicità del marchio). E anche i marchi o i prodotti che semplicemente compaiono nella serie, lo fanno in maniere più sfacciate di prima.

Nell’ultima puntata della quarta stagione, in cui Emily incontra il regista di uno spot del vero nuovo modello elettrico di Renault 5 (interpretato da Raoul Bova), si vede non solo il set della pubblicità che stanno girando, ma proprio il prodotto finito e quindi, di fatto, una pubblicità di quell’auto dall’inizio alla fine. Il sito di informazione automobilistica Drive ha inoltre individuato diversi modelli di auto di lusso, alcune anche rare, che compaiono in modi evidenti in questa seconda parte della quarta stagione.

Queste e molte altre soluzioni, anche più sperimentali, sono parte di un tentativo di Netflix di posizionarsi come una delle prime scelte per i marchi che desiderano farsi pubblicità nelle serie o nei film. Peter Naylor, che è stato il vicepresidente della vendita degli spazi pubblicitari a Netflix fino al luglio scorso, ha detto a The Ankler: «È ormai risaputo che lo streaming non sia più un settore profittevole come una volta. E tutti in questo momento stanno cercando di capire come fare soldi più velocemente».

– Leggi anche: Quelle serie che odiamo, ma guardiamo lo stesso

Il problema di Netflix è che è stata una delle ultime piattaforme a incorporare la pubblicità, quindi ha meno esperienza. Inoltre il livello di abbonamento che la prevede non ha poi così tanti abbonati: 40 milioni, su un totale di 278. Sempre secondo diverse persone che lavorano per marchi che trattano con Netflix, sentite da The Ankler, il problema della piattaforma  è anche che non è ancora certa di quel che vuole. Viene raccontato di come i prezzi per gli spazi partano alle volte da cifre fuori mercato e in breve calino anche fino a diventare un quinto, o come spesso la piattaforma non dia risposte riguardo eventuali collaborazioni perché fatica a decidere quanto voglia collaborare con certi marchi. Altre volte ancora i dirigenti prendono decisioni salvo poi ritrattare poco dopo. E questo anche se spesso è Netflix a rincorrere i marchi, e non il contrario, come si potrebbe pensare.

Anche per questo, vista la naturale abbondanza di prodotti di consumo nelle sue storie e la facilità di inserimento di marchi reali, Emily in Paris viene usata per provare molti modi diversi di trarre profitto da un prodotto audiovisivo. Non solo è la prima serie Original Netflix (quelle che si possono trovare in esclusiva su Netflix) “brought to you by Google”, cioè per la quale è stato venduto uno spazio nel titolo a un marchio. È anche la prima serie in cui la cui protagonista, Emily (interpretata da Lily Collins), è anche la protagonista di uno spot di Google Lens. Nella pubblicità, trovandosi con le stesse scarpe di un’altra donna, Emily usa Lens per comprarne al volo un altro paio che vede per strada.

Oltre a Google, per questa stagione Netflix ha annunciato di avere chiuso un accordo di collaborazione per la serie con altri sei grandi marchi: la compagnia area Aeromexico, le aziende di moda Louis Vuitton, Rimowa (entrambe parte del gruppo LVMH) e Gucci, l’azienda di cosmesi COTY, il sito di e-commerce giapponese Rakuten e la linea di bevande Kaiku Caffè Latte.

Per un marchio che volesse entrare nelle puntate di Emily in Paris, venendo menzionato e facendo parte della trama, Netflix prevede quattro tipologie di collaborazione a livello sempre maggiore di collaborazione. Il livello base è essere presente nella serie e costa circa 500.000 dollari; in alternativa il marchio presente nella serie può creare un’offerta limitata o un prodotto che porti il marchio Emily in Paris, e questo diminuisce il costo di apparire nella serie; oppure il marchio può offrire in cambio del posizionamento uno sforzo di promozione della serie attraverso i suoi mezzi, che può essere così forte da azzerare il costo per il piazzamento pubblicitario (è il caso di Google per questa stagione); infine il marchio incluso nella serie può creare un prodotto appositamente per la storia e poi venderlo nei suoi negozi, come ha fatto Baccarat, guadagnandoci.

Se le visualizzazioni della serie si rivelano superiori all’obiettivo fissato, i brand devono poi pagare un extra a Netflix, e invece nel caso le vendite di un certo prodotto possano essere ricondotte al piazzamento (ad esempio se c’è un aumento a seguito dell’uscita delle puntate) Netflix prende una percentuale su quelle vendite.

Il marchio di valigie di lusso Rimowa, che ha accettato di lasciare che la produzione della serie modificasse una sua linea di valigie da 1.000 dollari per la trama (in una puntata Emily suggerisce che la Rimowa faccia una collaborazione con uno stilista inventato che è un personaggio della storia), ha registrato una crescita di traffico sul proprio sito quando la puntata è andata in onda. Sebbene quelle valigie siano una versione modificata per la serie, Rimowa ha messo in evidenza un modello molto simile per offrire la possibilità di acquistare una valigia analoga. I dati di vendita non sono stati divulgati.

– Leggi anche: Di sitcom come Friends non ce ne sono più

Oppure in maniera ancora più clamorosa la collaborazione della serie con la catena di fast food McDonald’s ha previsto non solo che Emily venisse convinta che un loro panino, tradizionalmente un modo di mangiare popolare e a basso costo, possa essere un lusso, ma ha anche riportato in vendita la McBaguette, panino venduto in edizione limitata in Francia nel 2012 e di nuovo adesso (per un periodo limitato) a seguito dell’uscita della puntata in cui lo si vede.

La compagnia di rivendita di abiti di lusso Vestiaire Collective è stata contattata da Netflix dopo che gli sceneggiatori avevano scritto una scena in cui un personaggio porta un suo vestito di lusso da loro per rivenderlo, e ha collaborato. Quintessential brands, un conglomerato del settore degli alcolici, ha commercializzato un cocktail già pronto, una variazione sul Kir Royale chiamato Chamère (come nella serie), con etichette che richiamano il design di Emily in Paris, a partire dalla puntata in cui Emily lo beve e se ne innamora. Prodotti che vengono trasformati in trame, e parti di trama che sono trasformate in prodotti, insomma.

Come detto però a fronte di una grande inventiva e molta sperimentazione, il caso di Emily in Paris dimostra anche quanti sforzi Netflix sia costretta a fare per avvicinare dei marchi e per trarre un profitto maggiore dalle proprie produzioni, cosa che viene spesso ricordata dai centri media, cioè le società che si occupano di fare da intermediari tra chi offre spazi pubblicitari e chi vuole acquistarli. Altre piattaforme in diretta concorrenza, come Prime Video, sono più aggressive e prevedono inserzioni pubblicitarie che vengano viste da tutti gli abbonati, non solo da una parte. Inoltre proprio la grande abbondanza di marchi a pagamento in Emily in Paris e la vendita di tanti spazi, inserzioni e occasioni di promozione corre il rischio di svalutare il posizionamento su Netflix, perché non più esclusivo ma anzi affollato.

Netflix è di gran lunga la piattaforma di streaming con più abbonati nel mondo, quella con le serie o i film più visti. Nelle classifiche aggregate di quali siano i contenuti più visti su tutte le piattaforme i suoi occupano sempre una gran parte della top 10. Tuttavia è anche una società che non ha alle spalle una grande azienda come invece Amazon, Disney o Apple, e i suoi guadagni vengono solamente dallo streaming. Per tantissimi anni il continuo aumento di abbonati gli ha dato sicurezza economica e fornito investimenti e rialzo in borsa, ma nel 2021 l’arrestarsi della crescita degli abbonamenti ha portato gli analisti finanziari a decidere di non valutare più le piattaforme in base a quanti abbonati hanno ma, come per tutte le altre aziende, in base al profitto. Questo ha portato a una forte crisi delle piattaforme. Anche per questo ora Netflix più di tutte è costretta a ricorrere a maniere rapide e dirette per guadagnare di più dalle proprie produzioni.

Continua sul Post