OpenAI ha bisogno di molti soldi
La società che sviluppa e mantiene ChatGPT sta cambiando per essere più attraente per gli investitori e raccogliere gli enormi capitali di cui ha bisogno per tenere in piedi la baracca
Negli ultimi giorni OpenAI, l’azienda sviluppatrice di ChatGPT, ha subito molti cambiamenti e defezioni che rischiano di cambiarla per sempre. Questa settimana nel giro di poche ore la direttrice tecnica Mira Murati ha annunciato di voler lasciare l’azienda e diversi media hanno rivelato che la società abbandonerà il suo status di non profit, cioè di azienda senza scopo di lucro. Il co-fondatore e amministratore delegato dell’azienda Sam Altman ha confermato l’uscita di Murati e annunciato anche quelle di Bob McGrew e Barret Zoph, responsabili della ricerca per l’azienda, ma non ha ancora ufficializzato la notizia sulla trasformazione societaria, che però ha come fonti diverse persone informate sui fatti, secondo Reuters e Bloomberg.
«Rimaniamo concentrati nel costruire AI che giovino a tutti, e stiamo lavorando col nostro consiglio di amministrazione per assicurarci che siamo ben posizionati per riuscire nella nostra missione. Il non profit è il fulcro della nostra missione e continuerà a esistere», ha detto un portavoce di OpenAI, che non smentendo la ristrutturazione – ma soltanto garantendo che continuerà a esistere una parte non profit della società – l’ha di fatto confermata.
Il fatto che tre persone di rilievo – soprattutto Murati – abbiano lasciato OpenAI nelle stesse ore in cui si è configurato un grande cambiamento societario non sembra essere casuale. Come ha scritto Bloomberg, infatti, la riorganizzazione aziendale di OpenAI non ha solo un valore simbolico ma consentirebbe all’azienda di ottenere nuovi investimenti e garantirebbe ad Altman una partecipazione azionaria del 7% nella società. Quest’ultimo punto, unito al crescente controllo diretto che Altman ha accumulato in OpenAI, potrebbe aver rovinato i rapporti tra lui e gli altri membri, costringendoli (o spingendoli) ad andarsene.
Il clima all’interno di OpenAI è teso da anni. L’inatteso successo di ChatGPT ha innescato una corsa agli investimenti che ha reso OpenAI una delle aziende più interessanti del settore tecnologico. Al tempo stesso, l’azienda ha sempre rivendicato un approccio cauto e aperto (da cui il suo stesso nome) nello sviluppo delle intelligenze artificiali, che però oggi è in aperto contrasto con l’enorme interesse nei confronti della tecnologia. Anche per questo, nel novembre del 2023 Sam Altman fu licenziato dal consiglio di amministrazione della società, che lo accusò di «non essere stato sempre sincero nelle sue comunicazioni con il consiglio». Altman fu reintegrato pochi giorni dopo e in seguito a quella crisi il consiglio di amministrazione fu in parte rinnovato e ampliato, eliminando anche alcune voci più critiche e caute, e dando più potere ad Altman.
Il mese prima del suo licenziamento temporaneo, nell’ottobre del 2023, l’edizione statunitense di Wired aveva messo in copertina i quattro leader di OpenAI: da sinistra a destra, Ilya Sutskever, Sam Altman, Mira Murati e Greg Brockman (tutti co-fondatori tranne Murati). Di questi, l’unico che è ancora attivamente in OpenAI è Altman: Sutskever ha lasciato lo scorso maggio per fondare la startup Safe Superintelligence (SSI), Brockman ha preso un periodo di pausa dalla società, Murati se n’è andata questa settimana. A questi nomi vanno aggiunti quelli di un altro co-fondatore, John Schulman, che ha da poco lasciato OpenAI per la rivale Anthropic; Andrej Karpathy, che ha lasciato per Tesla, per poi tornare a OpenAI per pochi mesi nel 2023; e Jan Leike, anche lui ad Anthropic. Della squadra di undici persone che fondarono l’azienda nel 2015, oltre ad Altman, è rimasto solo il ricercatore polacco Wojciech Zaremba.
Nonostante l’abbandono dello status da non profit sia un cambiamento profondo per la società, è da anni che OpenAI agisce come un ibrido molto particolare. Inizialmente, infatti, nacque come società senza scopo di lucro con la missione dichiarata di «promuovere e sviluppare un’intelligenza artificiale amichevole (friendly AI) in modo che l’umanità possa trarne beneficio». Per riuscirci avrebbe contato sui fondi garantiti dagli imprenditori e co-fondatori Elon Musk e Reid Hoffman, che promisero di finanziare la non profit con circa un miliardo di dollari nel corso di alcuni anni.
Secondo una ricostruzione del sito Semafor, però, nel 2018 i rapporti tra Musk e Altman si incrinarono quando Musk tentò di prendere il controllo della società; dopo non esserci riuscito, ne uscì e smise di finanziarla. OpenAI fu costretta a cercare nuovi investitori e cominciò a collaborare soprattutto con Microsoft, azienda con cui oggi ha un’alleanza commerciale (Microsoft ha investito circa 13 miliardi in OpenAI negli ultimi anni). In seguitò a questi cambiamenti, nel 2019 OpenAI cambiò struttura aziendale, aprendo una divisione a scopo di lucro e diventando «un ibrido tra una non profit e un’azienda a scopo di lucro, quello che noi chiamiamo azienda a “profitto massimo”», come si legge nel sito della società.
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A fine agosto il Financial Times ha riportato che OpenAI stava discutendo ulteriori «cambiamenti alla struttura aziendale» per agevolare la raccolta di investimenti (la notizia fu subito smentita dalla società). Da tempo, infatti, OpenAI sta trattando con investitori e fondi per accumulare nuovi capitali: lo scorso febbraio il sito The Information ha raccontato che OpenAI aveva cercato di ottenere nuovi investimenti raggiungendo una valutazione complessiva di circa 100 miliardi di dollari, ma aveva incontrato la diffidenza di alcuni investitori. Oggi secondo The Information OpenAI sarebbe in trattativa anche con MGX, un fondo degli Emirati Arabi Uniti dedicato all’industria delle AI, per ulteriori investimenti che la porterebbero a una valutazione di 150 miliardi di dollari.
Secondo Reuters, però, «la sua valutazione dipenderà dalla capacità dell’azienda di sovvertire la propria struttura aziendale e rimuovere il limite di profitto per gli investitori». Questo tetto ai profitti degli investitori era stato introdotto nel 2019, quando OpenAI adottò il modello ibrido profit/non profit, con la promessa che tutti i guadagni oltre un certo limite sarebbero stati «ceduti alla parte non profit per il beneficio dell’umanità». Il tetto al profitto per ciascun investitore era stato fissato a cento volte il suo investimento, ma anche prima del cambiamento aziendale rivelato in questi giorni era destinato ad aumentare del 20% a partire dal prossimo anno. OpenAI ha quindi smesso di essere una non profit “pura” nel 2019 e da allora ha adottato un modello ibrido sempre più sbilanciato a discapito della sua originale natura senza scopo di lucro.
I dettagli della riorganizzazione societaria che porterà OpenAI a diventare una società profit a tutti gli effetti non sono ancora noti, né le tempistiche, ha scritto Reuters. Dovrebbe comunque rendere l’azienda una società “benefit”, uno status societario che si dà come obiettivo, assieme al profitto economico, un impatto positivo sulla collettività e sull’ambiente.
Per ottenere i fondi di cui ha bisogno per sviluppare nuovi modelli linguistici – e soprattutto coprire i costi operativi di quelli esistenti – OpenAI ha però bisogno di molti soldi: secondo Bloomberg, starebbe raccogliendo proprio in questi giorni un giro di investimenti da 6,5 miliardi di dollari. E potrebbero non bastare visto che la concorrenza è sempre più agguerrita e i margini di guadagno si stanno riducendo (questa settimana Google ha dimezzato il prezzo del suo chatbot Gemini).
Gli investimenti necessari sono destinati a crescere anche perché il progresso dei modelli linguistici sta facendo aumentare sia i costi di sviluppo che quelli del loro funzionamento. In una recente intervista l’amministratore delegato di Anthropic Dario Amodei ha spiegato che alcuni modelli linguistici esistenti o in fase di sviluppo costano ormai un miliardo di dollari e si aspetta che il costo aumenti fino a dieci – o addirittura cento – miliardi di dollari nei prossimi anni.
I cambiamenti interni a OpenAI vanno quindi contestualizzati in questa continua ricerca di capitale, che spiegherebbe anche alcune novità proposte proprio in questi giorni dall’azienda. Questo mese, infatti, OpenAI ha presentato o1, il suo primo modello dotato di «capacità di ragionamento», in grado di rispondere a domande più complesse del solito. L’uscita sembra essere stata calcolata per facilitare le trattative con gli investitori e dimostrare che «nel corso dei prossimi decenni saremo in grado di fare cose che sarebbero sembrate magia ai nostri nonni», come ha scritto Altman stesso in un saggio pubblicato questa settimana sul suo sito personale.
Nel post Altman ha raccontato il prossimo avvento dell’«era dell’intelligenza», la cui portata sarà paragonabile a quella della rivoluzione industriale o dell’agricoltura. Per riuscirci, però, ha scritto, sarà necessario «abbassare il costo del calcolo e renderlo abbondante, cosa che richiede molta energia e chip». Affinché questo succeda serviranno fondi e investimenti continui e crescenti, senza i quali «le AI diventeranno una risorsa molto limitata per cui si faranno delle guerre e che sarà ad uso pressoché esclusivo dei più ricchi».