Cosa c’è dietro le divisioni dell’opposizione sulle nomine della Rai
Il PD si è astenuto, il M5S e Alleanza Verdi e Sinistra si sono messi d'accordo con il governo: sembra perderci il PD, ma non è detto
Le votazioni alla Camera e al Senato per l’elezione dei quattro consiglieri di amministrazione della Rai scelti dal parlamento sono state caratterizzate dalla plateale divisione dei partiti di opposizione, soprattutto quelli che si collocano nell’area del centrosinistra. Il Partito Democratico ha disertato il voto, in segno di protesta contro l’attuale gestione della tv pubblica, e lo stesso hanno fatto Italia Viva e Azione; il Movimento 5 Stelle e Alleanza Verdi e Sinistra, al contrario, hanno partecipato al voto mettendosi d’accordo coi partiti di maggioranza, e hanno così ottenuto l’elezione di due consiglieri scelti da loro (uno ciascuno).
La divisione è rilevante a livello politico per almeno due motivi. Il primo è la manifestazione della debolezza del cosiddetto “campo largo”; il secondo è la disinvoltura con cui il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, soprattutto quando si parla di Rai e di altre nomine parlamentari, costruisce intese con la destra, evidenziando peraltro come la presidente del Consiglio Giorgia Meloni possa contare sul sostegno di una parte dell’opposizione nelle aule di Camera e Senato almeno su alcuni temi, quando serve.
Il voto di giovedì è avvenuto al termine di un lungo stallo politico. La legge prevede che il Consiglio di amministrazione (CDA) della Rai sia composto da sette membri. Oltre al presidente e all’amministratore delegato, indicati dal governo su proposta del ministero dell’Economia, e oltre a un consigliere eletto dai dipendenti della Rai, gli altri quattro sono appunto di nomina parlamentare: due li vota la Camera, e due il Senato. Ciascun parlamentare può esprimere un solo nome sulla scheda, e i due che prendono più voti in ciascuna camera vengono eletti. Per la modalità del voto, questi scrutini richiedono che maggioranza e opposizione trovino un’intesa di massima sui voti da indicare, e per prassi consolidata, almeno un componente del CDA viene riservato ai partiti di opposizione, così da garantire almeno formalmente un certo grado di pluralismo all’interno della tv pubblica.
In questo caso il parlamento ha eletto due componenti indicati dalla maggioranza e due dall’opposizione. Alla Camera sono stati indicati Federica Frangi e Roberto Natale, rispettivamente con 174 e 45 voti: la prima, giornalista del Tg2 e attiva nel sindacato indipendente di orientamento conservatore Lettera 22, era sostenuta dalla maggioranza di destra e indicata in particolare da Fratelli d’Italia; il secondo è un giornalista e sindacalista di lungo corso, ex segretario dell’USIGRAI (il sindacato dei giornalisti Rai) e presidente della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, poi scelto da Laura Boldrini come suo portavoce durante il suo mandato di presidente della Camera; è stato votato da M5S e Alleanza Verdi e Sinistra (AVS).
Al Senato sono stati eletti Antonio Marano, con 97 voti, e Alessandro di Majo, con 27. Marano è un ex deputato della Lega e sottosegretario al ministero delle Poste nel primo governo di Silvio Berlusconi, ha avuto una lunga carriera di dirigente in Rai ed è ora direttore commerciale della Fondazione Milano-Cortina, che si occupa dell’organizzazione delle Olimpiadi invernali del 2026: il suo nome è stato proposto proprio dalla Lega e votato dai partiti di destra. Alessandro di Majo è un avvocato considerato molto vicino a Conte ed è stato confermato nel CDA su indicazione del M5S, coi voti dei senatori del partito e di quelli di Alleanza Verdi e Sinistra.
Per le nomine proposte dal ministero dell’Economia invece sono stati scelti Simona Agnes, attuale consigliera uscente che Forza Italia vorrebbe da tempo come prossima presidente della Rai, e Giampaolo Rossi, l’attuale direttore generale che Fratelli d’Italia vuole promuovere amministratore delegato, cioè nel ruolo apicale dell’azienda. Formalmente le ha proposte il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti a Meloni, che le ha approvate.
A queste scelte la coalizione di destra è arrivata dopo molte difficoltà, con i partiti di governo che per mesi non erano riusciti a mettersi d’accordo e avevano posto veti reciproci sulle rispettive candidature. E proprio alla luce di questa tensione, nonostante il mandato dell’attuale consiglio di amministrazione fosse di fatto scaduto a luglio, Meloni aveva deciso di rinviare tutto a dopo l’estate. All’inizio le opposizioni erano riuscite a mettere in evidenza le divisioni e i tentennamenti della destra, mostrandosi indisponibili a discutere possibili accordi sulle nomine. Col passare delle settimane però si è capito che quella compattezza stava progressivamente venendo meno, soprattutto tra i due principali partiti di opposizione, PD e M5S, che da tempo stanno faticosamente provando a mantenere in piedi un’alleanza politica, finora perlopiù in certe tornate elettorali o su certi temi specifici.
Se il PD ha continuato a denunciare la presunta deriva autoritaria e filogovernativa della Rai, il M5S invece ha attenuato un po’ la propria ostilità, dicendosi pronto a collaborare per cambiare la legge che disciplina il funzionamento della Rai (una promessa fatta dai partiti di governo che il PD invece ha respinto e descritto come strumentale).
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Così il giorno prima del voto, mercoledì sera, Elly Schlein ha riunito i parlamentari del PD per spiegare perché avrebbe dato loro mandato di astenersi. Molti dirigenti del partito a lei vicini, come il capogruppo al Senato Francesco Boccia o l’ex ministro Dario Franceschini, hanno provato a lungo a farle cambiare idea in modo da poter eleggere un membro del consiglio d’amministrazione in quota PD, proponendole vari nomi da votare (tra gli altri, quelli del giornalista Goffredo De Marchis e dell’ex senatore Salvatore Margiotta): lei però è rimasta convinta della sua posizione, d’accordo con il suo portavoce e principale confidente politico Flavio Alivernini.
In un breve intervento all’assemblea dei parlamentari convocata a Montecitorio, ha spiegato che ne faceva una questione di coerenza: avendo a lungo denunciato la condotta dei dirigenti Rai e avendo in generale condannato le ingerenze dei partiti nella gestione dell’azienda, vedeva il fatto di escludere qualsiasi trattativa politica per le nomine come l’unica soluzione possibile. Sulla scelta di Conte di partecipare al voto, che già il giorno prima era ormai chiara, Schlein ha detto invece – pur senza nominarlo direttamente – che sulle convergenze con la destra ognuno si sarebbe preso le proprie responsabilità, e ha invitato i suoi parlamentari a non rispondere a eventuali provocazioni da parte dei membri del Movimento 5 Stelle.
Quella di Schlein è una scelta che ha una forte connotazione elettorale. Astenendosi dal voto per il consiglio di amministrazione della Rai, potrà ora rivendicare di essere l’unica leader politica a non essere scesa a compromessi solo per ottenere incarichi, e a non aver ceduto alle logiche della cosiddetta «lottizzazione» delle aziende pubbliche e della Rai in particolare. Al tempo stesso, però, questa decisione espone il PD a dei rischi notevoli. Restare fuori dal consiglio di amministrazione della Rai significa perdere un certo grado di controllo o almeno conoscenza diretta sulle dinamiche dell’azienda; significa avere meno forza negoziale per favorire le carriere dei giornalisti e dei dirigenti più vicini al centrosinistra e all’opposizione, alcuni dei quali potrebbero cercare invece protezione da parte del M5S; significa verosimilmente perdere spazio e visibilità nei programmi. Il PD potrebbe insomma vedere ridotto il proprio peso politico e sindacale all’interno della Rai.
La scelta del PD è stata condivisa anche da Italia Viva, il cui leader Matteo Renzi sta facendo di tutto per guadagnare credito nell’elettorato antimeloniano e agli occhi della stessa Schlein, dopo aver deciso di rendersi disponibile ad alleanze con il centrosinistra e soprattutto il PD. Lo stesso alla fine ha fatto Azione di Carlo Calenda.
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Conte invece ha puntato a ottenere la conferma del suo consigliere già in carica, di Majo appunto, e a proporsi come interlocutore obbligato della destra per le prossime nomine. L’elezione della presidente Agnes dovrà essere infatti ratificata dalla commissione parlamentare di Vigilanza, l’organismo di 42 tra deputati e senatori che vigila sulla gestione dell’azienda e che è peraltro presieduta dalla senatrice del M5S Barbara Floridia: per raggiungere quel quorum la destra ha bisogno di almeno tre voti da parte delle opposizioni. Inoltre, aver offerto una sponda parlamentare alla destra, e aver contestualmente confermato un proprio consigliere, consentirà a Conte di avere voce in capitolo nella promozione dei dirigenti all’interno dell’organigramma dell’azienda, nella definizione dei palinsesti e nell’attribuzione dei programmi a giornalisti vicini al M5S; e magari potrà rivendicare esplicitamente la nomina di un giornalista gradito alla direzione di un telegiornale.
Insieme a Conte, ha deciso di partecipare al voto anche Alleanza Verdi e Sinistra. È stata una decisione dibattuta internamente, in realtà: la componente di Sinistra italiana guidata da Nicola Fratoianni avrebbe infatti voluto assecondare l’astensionismo del PD, ma alla fine ha avuto la meglio quella dei Verdi del leader Angelo Bonelli.