In Giappone è stato assolto l’uomo che era stato condannato a morte più di cinquant’anni fa
Un nuovo processo ha evidenziato che le prove contro Iwao Hakamada, oggi 88enne, erano state falsificate
Giovedì un tribunale di Shizuoka, nel Giappone centrale, ha assolto da tutte le accuse l’ex pugile professionista Iwao Hakamada, che nel 1980 era stato condannato alla pena di morte in via definitiva per quattro omicidi compiuti nel 1966 di cui si diceva innocente. Hakamada, che ha 88 anni, ha passato quasi mezzo secolo in carcere e, se si calcola la prima sentenza del 1968 come inizio della sua detenzione, è considerato il detenuto rimasto più a lungo in attesa dell’esecuzione della propria condanna a morte al mondo.
Il suo è stato uno dei casi di cronaca giudiziaria più noti e discussi del Giappone, l’unico paese del G7 assieme agli Stati Uniti in cui è ancora prevista la pena capitale.
I fatti per cui era stato condannato Hakamada risalgono al 30 giugno del 1966, quando a Shizuoka, a sud-ovest di Tokyo, fu trovata morta la famiglia di quello che allora era il suo capo. La polizia interrogò Hakamada ma non avendo trovato prove o possibili moventi lo rilasciò: un mese dopo tuttavia gli investigatori lo arrestarono di nuovo sulla base di alcune tracce di benzina e sangue trovate sul suo pigiama, accusandolo di aver accoltellato il suo capo, la moglie e i loro due figli, di aver incendiato la loro casa e di aver rubato del denaro.
Dopo venti giorni di detenzione e interrogatori, che secondo quanto denunciato dai suoi avvocati e da alcune ong erano durati anche 15 ore di fila, Hakamada confessò. Durante il primo processo tuttavia si dichiarò non colpevole, e più avanti disse di essere stato picchiato, torturato e costretto a confessare.
Nell’agosto del 1967, 14 mesi dopo l’omicidio, nella fabbrica in cui lavorava furono poi trovati alcuni indumenti insanguinati in una cisterna di miso, un condimento a base di soia fermentata. Secondo l’accusa quei vestiti erano della persona che aveva ucciso la famiglia: Hakamada fu giudicato colpevole di omicidio e incendio doloso e condannato a morte nel settembre del 1968 nonostante le accuse fossero piene di incongruenze, e senza che fossero mai indagate altre persone. La condanna fu ratificata in secondo grado dall’Alta Corte di Tokyo e infine dalla Corte Suprema giapponese nel 1980. Subito dopo la sentenza definitiva, Hakamada fu trasferito nel braccio della morte, dove rimase per circa 35 anni, fino al 2014, quando fu scarcerato.
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Subito dopo la condanna definitiva Hakamada cominciò la battaglia legale per ottenere un nuovo processo sulla base di una confessione che a suo dire era stata forzata e di prove che i suoi legali ritenevano non attendibili. La procura giapponese sosteneva che le macchie di sangue sui vestiti erano di color rosso scuro, mentre i suoi avvocati sostenevano che dopo essere state immerse per oltre un anno nella cisterna ne sarebbero dovute uscire scolorite. Inoltre, alcuni di questi vestiti erano più piccoli della taglia indossata da Hakamada: per l’accusa però si erano ristretti proprio perché immersi nel liquido.
Nel tempo il suo caso cominciò ad attirare attenzioni anche al di fuori del Giappone, e nel 2008 i suoi avvocati ottennero che il sangue presente sugli indumenti trovati nella cisterna fosse sottoposto a un test del DNA: il sangue risultò non compatibile né con quello di Hakamada né con quello delle persone uccise, con il risultato che nel 2014, dopo quasi cinquant’anni di detenzione, Hakamada fu scarcerato in attesa di un nuovo processo. Il giudice Hiroaki Murayama stabilì che «i vestiti non erano quelli dell’imputato» e che era «ingiusto trattenerlo ulteriormente, visto che la possibilità della sua innocenza era diventata ragionevolmente chiara».
Nel 2018 l’Alta Corte di Tokyo tuttavia dichiarò il test del DNA non ammissibile e il caso finì alla Corte Suprema del Giappone, che accolse l’appello della difesa nel 2020. La Corte Suprema rimandò così il caso all’Alta Corte di Tokyo, invitandola a valutare se la condanna alla pena di morte dovesse essere considerata valida, e quindi eseguibile, oppure se celebrare un nuovo processo incentrato proprio sull’attendibilità della prova principale per cui era stato condannato, come ha infine stabilito nel marzo del 2023.
Giovedì il tribunale di Shizuoka ha stabilito che Hakamada è innocente e ha anche concluso che gli investigatori avevano prodotto prove false a suo carico. A causa delle condizioni di salute precarie gli era stato concesso di non essere presente in tribunale, dove però si erano presentate 500 persone per assistere alla lettura del verdetto, alla quale molte di loro hanno esultato gridando “banzai”, cioè “urrà” in giapponese.
Quello che ha coinvolto Hakamada è il quinto caso nella storia recente del Giappone in cui una sentenza di condanna a morte viene ribaltata in seguito a un nuovo processo. Adesso comunque la procura potrebbe fare appello contro la decisione del tribunale.
A causa di quasi cinquant’anni di detenzione, così come per il fatto che in Giappone una condanna a morte può essere eseguita anche con poche ore di preavviso, la sua salute fisica e mentale si è molto deteriorata. Per decenni insomma per Hakamada ogni giorno poteva essere l’ultimo. Da tempo non è più in grado di esprimersi, né sembra comprendere dove si trovi, e in tribunale al suo posto si è sempre presentata la sorella Hideko, di 91 anni, che anche giovedì ha festeggiato l’assoluzione davanti a decine di giornalisti. Dalla vicenda è stato tratto anche un film.