Un calciatore che parla di salute mentale non è cosa da poco
In un'intervista a “Cronache di spogliatoio”, Robin Gosens ha cercato di normalizzare l'idea che anche gli sportivi ricchi e di successo possano avere problemi psicologici
Mercoledì 25 settembre il media sportivo Cronache di spogliatoio ha pubblicato su YouTube una lunga intervista al calciatore tedesco della Fiorentina Robin Gosens: non era la solita intervista a un calciatore, perché Gosens ha parlato per quasi 45 minuti di psicologia, di benessere e di salute mentale, temi che in relazione al calcio si stanno cominciando ad affrontare solamente negli ultimi anni e che sono ancora parecchio inesplorati, soprattutto in Italia. Che i calciatori possano avere, come chiunque altro, problemi di salute mentale e periodi complicati dal punto di vista psicologico viene considerata da molti una cosa quasi inaccettabile, perché in contrasto con l’idea che comunemente si ha di loro, cioè quella di persone privilegiate, che guadagnano tanti soldi e che per questo dovrebbero più che altro sentirsi fortunate.
Gosens da diversi anni viene seguito da una psicoterapeuta e ha lui stesso una laurea in Psicologia; nell’intervista ha provato a smontare questa narrazione: «Nel calcio e nella società i problemi mentali sono un tabù, ho la sensazione che vengano ancora visti come debolezza, quindi i calciatori e le persone in generale scelgono di stare muti, di non parlare, che però è la cosa peggiore che possano fare», ha detto all’inizio dell’intervista. Pur essendo consapevole dei vantaggi di cui godono i calciatori, per il lavoro che fanno e per quanto guadagnano, secondo Gosens «la gente deve capire che un giocatore con tanti soldi può avere problemi a livello familiare, mentale, per i quali non basta comprare una medicina: con tanti soldi non ti puoi comprare la salute».
L’intervista completa di Cronache di spogliatoio a Robin Gosens
Non era praticamente mai successo che un calciatore che gioca in Italia si esponesse tanto sul tema e che lo facesse con questa competenza, cercando di normalizzarlo e di rendere accettabile che anche sportivi forti e ricchi possano avere difficoltà: Gosens peraltro va talmente contro lo stereotipo da arrivare a far capire che non solo la loro condizione privilegiata non dà una soluzione ai problemi, ma anzi spesso potrebbe esserne in parte la causa, così come il lavoro e la condizione di ciascuno può essere causa di problemi simili per qualsiasi persona. Le pressioni e le aspettative sui calciatori sono sempre più alte, le critiche di tifosi e stampa difficili da gestire senza gli strumenti giusti; per questo Gosens sostiene l’importanza che ogni squadra sia seguita da uno psicologo che possa aiutare i giocatori a parlare e ad aprirsi.
L’ex calciatore inglese Clarke Carlisle, che per anni ha sofferto di depressione ed è stato uno dei primi a parlare apertamente della questione, una volta disse che «per un club di calcio sei solo un asset, stanno investendo soldi su di te, e per farlo controllano tutti gli aspetti possibili della tua vita. Ti dicono cosa pensare, come pensare, come elaborare una situazione, con chi parlare, cosa dire, come dirlo, cosa non dire, da chi stare lontano. Ti modellano su un’immagine e una vita confezionata dal tuo datore di lavoro, per l’intera durata del tuo contratto: questo ti deforma la mente».
Oggi diverse squadre stanno inserendo nel loro staff professionisti e professioniste con il compito di dare sostegno psicologico ai giocatori sin dalle giovanili, anzi soprattutto quando sono ragazzini o bambini e devono affrontare il distacco da casa, le prime pressioni esterne e soprattutto convivere con l’idea che potrebbero non riuscire a diventare calciatori di successo (in pochi ce la fanno): «Un giovane in questo mondo giustamente fa fatica, perché deve ancora crescere e deve avere la libertà di fare errori», ha detto Gosens. Il rischio però è che questo sostegno finisca per essere percepito non come un aiuto, un’occasione di dialogo, ma come uno dei tanti aspetti che un calciatore deve considerare per riuscire a rendere al meglio, come l’allenamento, la nutrizione o la tattica; che lo psicologo non serva insomma a migliorare il benessere mentale della persona ma solo le prestazioni, perché alla fine l’unica cosa che ci si aspetta da un calciatore è quella: che giochi bene.
Questa ossessione per la performance si inserisce anche, nel calcio, in un contesto di mascolinità tossica ancora molto presente, per il quale mostrarsi vulnerabili o deboli viene giudicato male. È un’altra condizione da superare, secondo Gosens, che parlando di quando in estate non è stato convocato dalla Nazionale tedesca per gli Europei in Germania ha detto: «È stato un sogno talmente grande che non mi vergogno a dire che ho pianto».
Ultimamente in Italia sono nate anche alcune iniziative collettive: per esempio l’Associazione italiana calciatori (una sorta di sindacato dei calciatori) e la Lega Pro (che rappresenta la Serie C) nel 2022 hanno proposto You’ll never walk alone, un programma di affiancamento psicologico per calciatori professionisti «nato con l’intento di seguire l’uomo-calciatore nell’intero percorso della carriera, aiutandolo a maturare consapevolezza delle proprie potenzialità e imparare ad affrontare i propri limiti». La FIGC, la Federazione calcistica italiana, oggi organizza corsi formativi per psicologi del calcio, il mestiere che Gosens vorrebbe fare una volta terminata la carriera di calciatore (oggi ha 30 anni; in Italia ha giocato anche nell’Atalanta e nell’Inter).
È più a livello di dibattito, però, che questioni del genere sono ancora trattate come un tabù: oggi si parla con maggiore frequenza del benessere fisico dei calciatori e del fatto che si giochi troppo (anche su questo, comunque, spesso le esigenze dei giocatori non vengono prese troppo sul serio dall’opinione pubblica), ma la parte psicologica è ancora poco considerata nell’analisi calcistica. I calciatori stessi non ne parlano, in parte anche perché sanno di non trovare un ambiente favorevole a farlo, e quindi è difficile inserire questo aspetto nel discorso: un’intervista come quella di Cronache di spogliatoio è un caso eccezionale per queste ragioni, anche quando Gosens dice cose apparentemente banali come «ci si dimentica che non siamo solo giocatori ma siamo anche umani, abbiamo problemi, non sempre ci alziamo con il piede giusto, di conseguenza ci sono giorni in cui non stiamo bene».
Rispetto all’Italia, in Inghilterra e negli Stati Uniti il discorso pubblico sulla salute mentale di calciatori e atleti è già più avanzato: ne parlano più persone e la cosa sta cominciando a essere accettata. Lo scorso anno il centrocampista inglese Dele Alli aveva dato un’intervista all’ex calciatore e oggi opinionista televisivo Gary Neville, nella quale parlava della sua infanzia complicata, degli abusi subiti, della sua depressione e dei problemi con l’alcol e la droga. Fino a quel momento, Alli era stato spesso giudicato come un calciatore che aveva sprecato un grande talento per mancanza di carattere e di impegno (nella serie tv All or nothing Tottenham Hotspur, uscita su Prime Video, il suo allenatore José Mourinho lo definiva «pigro»).
L’intervista ha cambiato la percezione che le persone avevano di lui e soprattutto ha proposto un calciatore sotto una luce diversa, innescando almeno all’estero un dibattito utile e fruttuoso. In Italia la gran parte dei media aveva generalmente recepito l’intervista di Alli dando risalto alle parti più private e scabrose, ma apparentemente più con l’intento di soddisfare qualche curiosità che non di parlare del problema nel merito.
Tra quelli che invece si erano distinti c’era il sito sportivo Rivista Undici, che aveva pubblicato un articolo cercando di fare qualche ragionamento più generale e sostenendo fin dal titolo che quell’intervista avrebbe dovuto «cambiare il calcio e i calciatori». Citava la storia di Alli come potenzialmente positiva per arrivare a proporre con il calcio anche «un modello di uomo moderno e non predatorio, non tossico, non violento, che sappia trovare uno spazio in sé anche per la fragilità, per la vulnerabilità, per la paura»: un modello quindi molto diverso da quello proposto abitualmente dal calcio. In un modo più immediato e meno sistemico, invece, sosteneva che occasioni come questa fossero utili per «normalizzare la richiesta di aiuto, dalle dipendenze come da qualunque altro tipo di problema di salute mentale».
L’intervista di Dele Alli con Gary Neville, uscita sul canale The Overlap