La contraddizione dei marabù
«La discarica di Dandora in Kenya, la più grande dell'Africa orientale, ha preso forma intorno a regole precise: come nei gironi infernali più si va verso il centro, più ci si avvicina al male, alle violenze, alla possibilità di un non-ritorno. Più si rimane all’esterno, nel primo girone, dove i materiali selezionati vengono lavati e pressati in modo da creare le balle di rifiuti da consegnare alla mafia, più si rimane vicini alla terraferma. C’è un piccolo ponte che si sopraeleva sul fiume e, come Caronte, porta dentro l’inferno della discarica dove donne e bambini lavorano chine tra i rifiuti tra centinaia di marabù»
La prima volta che ho visto un marabù in vita mia è stato in Kenya, quando sono entrata nella discarica di Dandora, la più grande di tutta l’Africa orientale, un’enorme distesa collinare di rifiuti, una balena di tossine e soprusi dove centinaia di persone, tra cui molte donne e bambini, lavorano chine tra gli scarti umani, fiancheggiate dai marabù. La seconda volta che ho visto un marabù in vita mia è stato in Uganda, durante una breve crociera sul Nilo, quando l’ho osservato con un binocolo e una macchina fotografica, da tutta un’altra prospettiva.
Il marabù è un uccello della famiglia delle cicogne di enormi dimensioni (può raggiungere l’altezza di un metro e mezzo e un’apertura d’ali fino a tre metri). Il suo ruolo è essenziale in diversi ecosistemi del continente africano, nella savana e nelle aree umide, perché è onnivoro e si ciba soprattutto di carogne degli altri animali. Con la formazione di grandi insediamenti urbani la sua presenza si è estesa nelle città, attratto dagli scarti di cibo prodotti quotidianamente dagli umani, un po’ come è successo con i gabbiani a Roma. Lo si incontra spesso nelle periferie, dove i rifiuti vengono lasciati per strada: gli avanzi dell’uomo sono sempre stati la sua sussistenza, ma con l’aumento dello spreco alimentare, il marabù ha conquistato terreno soprattutto nelle aree urbane più povere, come negli slum di Nairobi in Kenya, le baraccopoli dove ormai fa parte del paesaggio.
Capisci di non trovarti più in una normale periferia, ma di esserti addentrato all’interno di uno slum grazie a un elemento evidente e a un altro invisibile, ma presente, eccome. Quello evidente sono le case. In una baraccopoli, così come si evince dal nome, non esistono case permanenti. Le piccole abitazioni, spesso composte da una sola stanza, sono costruite con materiali di fortuna, come lamiere e altri materiali leggeri. Il motivo è direttamente legato al secondo elemento, quello invisibile: l’area dello slum è interamente gestita dalla mafia locale che detta le regole nel territorio, nonostante il suolo sia governativo, e decide quale famiglia possa o non possa vivere in una determinata baracca. I mafiosi decidono anche a quanto ammonta l’affitto. La mafia detta il suo “piano regolatore”: se qualcosa non funziona, la baracca si demolisce. Ecco perché per costruire le case si usano materiali leggeri: la mafia deve mantenere il potere di buttarle giù quando vuole e “ricostruirle” per un’altra famiglia bisognosa.
Oltre a pagare l’affitto per vivere in qualche metro quadrato circondato da lamiere, nello slum si pagano l’elettricità e l’acqua, sempre alla mafia. L’elettricità arriva in quasi tutte le case, con delle “bollette” fisse da pagare; l’acqua viene comprata a tanica, ogni sabato, giorno in cui si lavano anche i vestiti e ci si rifornisce in base alle proprie possibilità. I bagni non esistono. Come mi ha raccontato un abitante della baraccopoli di Korogocho, dove vivono tra le 150 e le 200 mila persone e dove sorge Dandora: «I bagni non sono la loro priorità. Avere una casa è l’unica cosa che importi». Anche perché avere un bagno sarebbe un altro costo da pagare alla mafia. Di giorno gli abitanti usano i bagni pubblici, mentre per la notte hanno inventato i “flying toilet”: fanno i loro bisogni in un sacchetto che il mattino dopo lanciano “in volo” verso la discarica.
Gli slum non hanno leggi, perché tutto quello che riguarda il diritto qui non arriva; ma hanno codici, perché tutto il potere della mafia qui regna. Per questo chi vive qui è quasi sicuramente un lavoratore della discarica di Dandora, che è il cuore economico delle attività della mafia locale; per questo non si può uscire di casa dopo il tramonto se non si vuole essere derubati o subire violenze; per questo la polizia non viene in soccorso se succede qualcosa e infatti si sa che chi è ricercato dalla polizia si nasconde nella sezione A di Korogocho, dove nessuno arriverà mai.
Lo slum di Korogocho, che in lingua swahili significa «confusione», è nato intorno alla discarica, se ne nutre e al contempo la alimenta. Questi slum di Nairobi si sono formati nel corso del tempo come contenitori di vite arrivate dai “rural”, l’entroterra del paese, nella seconda metà del Novecento con la speranza di poter far fortuna nella capitale. Quello che doveva essere il sogno di Nairobi si è trasformato, invece, in un incubo senza fondo: arrivati in città senza alcun tipo di competenza e istruzione, sono stati assoldati come manodopera a basso costo dalla mafia locale per raccogliere materie prime da rivendere per il riciclo. La struttura della discarica di Dandora ha preso forma intorno a regole precise, come avviene per i gironi infernali: più si va verso il centro, più ci si avvicina al male, alle violenze, alla possibilità di un non-ritorno. Più si rimane all’esterno, nel primo girone, dove i materiali selezionati vengono lavati e pressati in modo da creare le balle di rifiuti da consegnare alla mafia, più si rimane vicini alla terraferma. C’è un piccolo ponte che si sopraeleva sul fiume e, come Caronte, porta dentro l’inferno della discarica, dove sono entrata due volte grazie all’organizzazione di volontariato Una Mano per un Sorriso – For Children.
La discarica è divisa per aree, ognuna gestita da un “chief”, un boss che seleziona i lavoratori e rivende i materiali. All’interno della discarica i lavori principali sono due: la ricerca di un determinato materiale e il riciclo di materie prime, che vengono lavorate secondo un processo ormai meccanico: prima si raggruppa, poi si lava, si pesa, si pressa e infine si consegna. Quello che mi ha subito colpito è stata la quantità di bambini e la quantità di marabù. Sono tantissimi. I bambini non possono permettersi di andare a scuola e la discarica è la loro unica possibilità di guadagno. Si muovono da adulti, perché sono stati obbligati a pensare, vivere e lavorare da adulti. Ma sono piccoli, quindi riescono a entrare meglio nei cumuli di rifiuti stratificati, che possono anche essere delle vere montagne, per cercare il materiale richiesto. I bambini sono anche le vittime più frequenti nella discarica, perché molti di loro vivono all’interno delle montagne di rifiuti e possono morire schiacciati dalle ruspe o per i tanti incendi appiccati per smaltire spazzatura e lasciare spazio a quella nuova. Sopra le loro teste, sui sentieri che i bambini percorrono per raggiungere la propria area, ci sono loro, i «korongo», i marabù che con quelle loro gambe lunghe si destreggiano tra i rifiuti in cerca di avanzi di cibo o carcasse di animali morti. Non avrei mai pensato di rincontrarli quest’estate, durante un viaggio turistico in Uganda, dove sono chiamati «marabou stork» o «kalooli».
Dopo una mattinata di safari, il programma dell’agenzia prevedeva un giro in barca sul Nilo che, secondo la guida, sarebbe stata l’esperienza più incredibile di tutta la vacanza: durante la minicrociera io e gli altri turisti “mzungu”, “uomini bianchi”, come ci chiamano loro, avremmo visto gli elefanti bagnarsi nell’acqua, i coccodrilli, gli ippopotami e molti altri animali. Verso la fine della traversata, il comandante della piccola barca ha annunciato con gioia la presenza di un altro animale tipico del paese. Davanti a me, tra i pellicani e gli aironi, in tutta la sua altezza e bruttezza, ho rivisto il marabù.
Non potevo credere che quell’uccello potesse essere associato alla bellezza, alla natura, perfino al turismo. La contraddizione è diventata ancora più forte quando altri turisti sono scattati in piedi stupiti e ammaliati per fotografarlo e farsi selfie con i marabù sullo sfondo, eccitandosi ancora di più quando la guida ha spiegato che la loro funzione è molto simile a quella degli avvoltoi. Ci ha chiesto di osservare la lunghezza delle zampe e la maestosità delle ali, ma intanto pensavo che servivano per volare via facilmente dai fuochi della discarica e per non sprofondare nei cumuli di rifiuti, dove invece i bambini sprofondano. Gli altri vedevano una rarità da fotografare, io vedevo solo donne chine a lavare plastica sporca circondate da marabù in cerca di cibo o li vedevo volare sopra le teste dei bambini che andavano a scuola nella baraccopoli.
Dopo meno di due giorni sono tornata a Korogocho, dove mi sono fermata fino alla fine del mese di luglio. Dal tetto del palazzo che ospita i volontari e le attività pomeridiane degli studenti delle medie, ho rivisto le baracche dello slum di Korogocho, il fiume e la discarica di Dandora. Sulle montagne di rifiuti si vedevano muoversi macchioline. Non ho capito se fossero marabù o persone.