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  • Mercoledì 25 settembre 2024

A Milano inizia un nuovo processo per un sequestro del 1975

Cristina Mazzotti morì dopo aver passato 28 giorni in una botola in cui non poteva stare in piedi, oggi per quella storia sono imputati quattro uomini calabresi

Una foto di Cristina Mazzotti (ARCHIVIO/A3/CONTRASTO)
Una foto di Cristina Mazzotti (ARCHIVIO/A3/CONTRASTO)
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A Milano inizia oggi un processo che riguarda una storia avvenuta 49 anni fa, nel 1975. Giuseppe Calabrò, Antonio Talia, Giuseppe Morabito e Demetrio Latella sono accusati di omicidio volontario aggravato come conseguenza di sequestro di persona. La persona in questione è Cristina Mazzotti, una ragazza che nel 1975 era diciottenne e che morì dopo un mese di prigionia. Secondo le accuse gli uomini sarebbero stati gli esecutori del sequestro: prelevarono la ragazza dall’auto su cui stava viaggiando con due amici, per poi consegnarla alle persone che la tennero sotto sequestro nelle settimane successive.

Per il rapimento e l’omicidio della ragazza furono già condannate 13 persone, di cui 4 all’ergastolo, fra custodi, centralinisti che si occupavano di comunicare con i genitori e altri complici.

Cristina Mazzotti viveva a Milano ed era figlia di un industriale del settore dei cereali, Elios Mazzotti, molto agiato ma non così ricco come la banda dei sequestratori pensava. La sera del 30 giugno stava tornando alla villa di famiglia a Eupilio, nell’alta Brianza comasca, dopo essere stata a una festa. Durante il tragitto l’auto su cui viaggiava assieme a una ragazza e un ragazzo venne fermata da una Alfa Romeo Giulia e da una Fiat 125, da cui scesero due persone. I sequestratori chiesero chi delle due ragazze fosse Cristina Mazzotti, lei rispose subito e gli altri due ragazzi vennero bendati e legati. Le ruote dell’auto, una Mini Minor, furono squarciate. Riuscirono a liberarsi e a dare l’allarme dopo due ore.

Mazzotti fu portata in una cascina di Castelletto Sopra Ticino, in provincia di Novara, e chiusa in una botola all’interno di un garage. Il vano era alto un metro e mezzo, largo altrettanto e lungo poco più di due metri. La ragazza non poteva stare in piedi. Le venivano dati due panini al giorno, per l’aria c’era solo un piccolo tubo di plastica di cinque centimetri di diametro. Restò in quelle condizioni 28 giorni: i rapitori le davano sia sedativi sia eccitanti per «sostenerla», così dissero al processo. Secondo le accuse la sua morte fu causata dall’impossibilità di muoversi e dalla combinazione di farmaci.

Il padre pagò un miliardo e 50 milioni di lire per il riscatto (quasi 7 milioni di euro di oggi), quando però la ragazza era già morta. Furono proprio quei soldi a permettere di risalire alla banda, dopo che un direttore di una banca in Svizzera segnalò una grossa operazione sospetta. In questo modo si risalì a Libero Ballinari, fino ad allora conosciuto come un piccolo criminale, che venne fermato a Lugano. Interrogato, rivelò che il sequestro era stato realizzato da una banda mista di lombardi e calabresi. Della gestione della richiesta di riscatto si era occupato, dalla Calabria, Antonino Giacobbe, affiliato alla ‘ndrangheta. La gestione logistica del rapimento era stata invece di Giuliano Angelini, che comandava un gruppo di sei o sette persone.

Durante il processo, iniziato nel 1976 a Novara, emerse che Angelini era un appassionato di medicina e che era stato lui a somministrare alla ragazza il miscuglio di calmanti ed eccitanti. Questi ultimi le venivano dati soprattutto quando Mazzotti doveva comunicare con la famiglia.

(ARCHIVIO/A3/CONTRASTO)

Il primo elemento per accusare i quattro uomini considerati esecutori del sequestro, tutti legati alla criminalità calabrese ma residenti in Lombardia, fu identificato solo nel 2007, quando l’impronta di una mano sulla Mini Minor fu ricondotta a Latella, nel frattempo coinvolto in altre vicende giudiziarie. Subito dopo Latella confessò spontaneamente di aver rapito la ragazza, e menzionò Calabrò e Talia come complici. Morabito, accusato di aver messo a disposizione una delle auto usate dai rapitori, è stato coinvolto nelle indagini solo successivamente.

A quel tempo però il pubblico ministero che seguiva le indagini chiese l’archiviazione del caso, dato che il reato di sequestro di persona era già caduto in prescrizione, e dato che anche quello di omicidio lo sarebbe stato se fosse stata riconosciuta anche una sola attenuante agli imputati. Nel 2021 però l’avvocato Fabio Repici, che aveva seguito un altro processo in cui era accusato Latella, aveva segnalato che una sentenza della Corte di Cassazione stabiliva che non c’è prescrizione per l’omicidio volontario, con qualunque attenuante. L’indagine è quindi stata riaperta e Latella ha ripetuto i nomi delle persone di cui aveva già parlato nel 2007, aggiungendo quello di Antonio Romeo, che poi però è stato escluso dalle indagini. Inizialmente seguita dalla procura di Torino, l’indagine è passata a quella di Milano per competenza territoriale. L’anno scorso la giudice dell’udienza preliminare (gup) di Milano ha autorizzato l’avvio del processo iniziato mercoledì.

Latella ha 70 anni ed è nato a Reggio Calabria. Negli anni Settanta era uno degli uomini di fiducia di Angelo Epaminonda detto “il tebano”, uno dei più importanti capi della criminalità organizzata nella storia di Milano. Calabrò, 74 anni, di San Luca, sempre in provincia di Reggio Calabria, fu fra i capi del narcotraffico in Lombardia, soprannominato “u duttoricchiu” perché da ragazzo diede qualche esame all’università. Morabito è un boss della ‘ndrangheta trasferitosi nella provincia di Varese. Talia, 73 anni e originario di Africo, nel reggino, ha precedenti per crimini legati al traffico di droga e alle armi.

Nel periodo che va dalla metà degli anni Settanta alla metà degli anni Ottanta vennero sequestrate in Italia 489 persone. Il rapimento di Cristina Mazzotti suscitò molta emozione per la sua giovane età, perché fu la prima donna sequestrata nel Nord Italia e perché fu la prima a essere uccisa durante il sequestro.