Cosa significa la revisione dei conti pubblici fatta dall’ISTAT

E perché, anche se migliora un po' la situazione, non rende meno complicato il lavoro del governo in vista della legge di bilancio

Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti alla Camera, il 17 luglio 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)
Il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti alla Camera, il 17 luglio 2024 (Mauro Scrobogna/LaPresse)

Lunedì mattina l’ISTAT, l’Istituto nazionale di statistica, ha diffuso una relazione che contiene la revisione dei conti pubblici relativi al triennio che va dal 2021 al 2023: una correzione dei calcoli e delle stime sull’economia nazionale che viene fatta in ogni Stato membro dell’Unione Europea ogni cinque anni, col coordinamento dell’istituto di statistica europeo (EUROSTAT) e della Banca Centrale Europea (BCE). Nel complesso, la revisione dei conti pubblici effettuata dall’ISTAT è positiva, per l’Italia e per il governo: la crescita dell’economia tra il 2021 e il 2023 si rivela più consistente di quanto precedentemente stimato, col prodotto interno lordo (PIL) che aumenta in termini assoluti di quasi 100 miliardi in tre anni, e un deficit (cioè il disavanzo annuale) che nel 2023 è leggermente inferiore a quanto previsto.

Ma queste variazioni non consentono al governo di rivedere in maniera significativa la politica economica dei prossimi mesi e dei prossimi anni, che dovrà restare estremamente prudente ed evitare eccessivi aumenti della spesa pubblica.

La revisione è dovuta al fatto che ciclicamente vengono introdotti nuovi parametri o metodi di calcolo, e dunque le statistiche effettuate sulla base dei vecchi criteri devono essere aggiornate. Inoltre, spesso alcuni dati sulla crescita economica o sull’impatto che alcune misure hanno sul bilancio nazionale vengono definiti in base a stime probabilistiche, per cui queste revisioni – che avvengono ogni cinque anni ma prevedono correzioni annuali e semestrali – servono anche a rivedere a posteriori quelle simulazioni, stabilendo con maggiore esattezza le conseguenze reali di quei provvedimenti.

Quello pubblicato lunedì era un documento molto atteso dal governo. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti aveva infatti deciso di rinviare alcuni importanti documenti finanziari proprio in attesa che l’ISTAT pubblicasse i risultati, e questo ha comportato anche una modifica del calendario inizialmente concordato con il parlamento e con la Commissione Europea. Ora, sulla base della relazione dell’ISTAT, il ministero dell’Economia aggiornerà il Piano Strutturale di Bilancio (PSB), cioè il piano che indica le principali linee di politica economica che l’Italia dovrà seguire nei prossimi sette anni, e poi la legge di bilancio per il 2025, cioè il provvedimento che stabilirà come utilizzare la spesa pubblica per l’anno prossimo.

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Entrambi i documenti andranno approvati dal Consiglio dei ministri e poi dal parlamento, e contemporaneamente concordati con la Commissione Europea. Lo stesso ministro Giorgetti ha definito le revisioni dei conti pubblicate dall’ISTAT «di lieve entità», e ha chiarito che «non cambiano i principi e il quadro del Piano Strutturale di Bilancio».

La revisione dell’ISTAT offre comunque dati confortanti. In particolare il PIL nominale del 2021, cioè il valore della ricchezza prodotta in Italia calcolata tenendo conto anche dell’aumento dei prezzi causato dall’inflazione, è risultato superiore di 20,5 miliardi di euro rispetto alle precedenti stime del marzo scorso. Anche nel 2022 il PIL è stato rivisto al rialzo di 34,2 miliardi, e nel 2023 di 42,6 miliardi. Semplificando parecchio, insomma, si può dire che tra il 2021 e il 2023 l’economia italiana sia cresciuta di circa 97 miliardi in più rispetto a quel che era stato considerato fino a qualche mese fa.

Ma questi non sono soldi in più che il governo si ritrova a poter utilizzare d’ora in avanti: quella cifra varrà semmai a migliorare retroattivamente i saldi di finanza pubblica italiana, e in particolare consentirà una revisione al ribasso del debito pubblico, che è il cumulo dei passivi di bilancio anno dopo anno.

Il presidente dell’ISTAT Francesco Maria Chelli presenta il rapporto annuale dell’istituto per il 2024 alla Camera, il 15 maggio 2024 (Roberto Monaldo/LaPresse)

La revisione dei dati coinvolge praticamente tutti i settori dell’economia italiana: dall’industria al commercio, dall’edilizia al turismo, dalle esportazioni ai consumi delle famiglie. E gli effetti di queste singole voci si riflettono poi sui dati complessivi di crescita e di indebitamento, che sono poi quelli più importanti da tenere d’occhio per capire l’andamento complessivo dell’economia italiana e lo stato di salute del bilancio nazionale.

La revisione dell’ISTAT ha riguardato innanzitutto il 2021: per quell’anno, applicando i nuovi parametri di calcolo, la variazione del PIL è stata corretta al rialzo, non più una crescita dell’8,3 per cento ma dell’8,9 per cento. Ciò dimostra dunque che l’impatto della crisi economica generata dalla pandemia di Covid, che nel 2020 aveva causato una riduzione del PIL di circa il 9 per cento, è stato quasi compensato nell’anno seguente. Anche nel 2022 la revisione produce un aumento della crescita, con un PIL in aumento del 4,7 per cento, in rialzo di sette punti decimi di punto rispetto alle precedenti stime.

Quanto al 2023, il discorso è apparentemente un po’ più complesso: la revisione infatti determina un ribasso di due decimi (non più lo 0,9 per cento di crescita, ma lo 0,7 per cento) in termini relativi, ma un aumento del PIL in termini assoluti. Questo avviene perché le variazioni del PIL si calcolano prendendo come base di riferimento l’anno precedente: l’aumento sostanzioso della crescita del PIL nel 2021 e nel 2022 fa sì che in termini relativi la crescita nel 2023 sia un po’ meno consistente. Ciononostante nel 2023 il PIL è cresciuto in termini assoluti di 43 miliardi in più rispetto alle previsioni. Questo dato, unito a quello dei due anni precedenti, è rilevante a livello statistico anche perché è un piccolo record: il PIL del 2023 «si è attestato a un livello per la prima volta superiore al massimo raggiunto prima della crisi finanziaria del 2008», scrive l’ISTAT.

Il ricalcolo delle variazioni del PIL, insieme alle revisioni sull’entità della spesa pubblica adeguata all’inflazione, determina anche modifiche nel calcolo del deficit, che si rivela un po’ meno consistente del previsto ma comunque alto. In particolare, cala il deficit registrato sia nel 2022 (dall’8,6 all’8,1 per cento sul PIL), sia nel 2023 (dal 7,4 al 7,2 per cento sul PIL), proprio per effetto della maggiore crescita economica. Significa, in termini assoluti, che le varie amministrazioni pubbliche si sono indebitate per 161,5 miliardi nel 2022 e di 152,7 miliardi nel 2023.

Il ministro dell’Economia Giorgetti insieme al governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta, durante la riunione dei ministri delle Finanze del G7 a Stresa, il 24 maggio 2024 (Antonio Calanni/AP Photo)

La revisione dell’ISTAT definisce, nel complesso, una situazione un po’ meno travagliata della nostra finanza pubblica, che però resta delicata: di conseguenza sarà particolarmente complicato per il governo definire il Piano Strutturale di Bilancio e la legge di bilancio per il 2025.

La crescita di oltre 90 miliardi del PIL dell’ultimo triennio consentirà con ogni probabilità la revisione al ribasso del debito pubblico. Lo scorso aprile il governo lo aveva stimato al 137,8 per cento del PIL: è una cifra che supera i 2.900 miliardi di euro, secondo i calcoli effettuati da Banca d’Italia, e che verosimilmente nei prossimi mesi supererà i 3.000 miliardi. L’Italia ha il più alto debito pubblico in rapporto al PIL tra i Paesi sviluppati dopo il Giappone: è un grosso peso per l’economia nazionale e costituisce un disincentivo a investire in Italia per molti operatori di mercato.

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Ridurre questo debito, sia pur di poco, potrebbe aumentare la fiducia dei mercati finanziari cosiddetti verso l’Italia. D’altra parte il rapporto dell’ISTAT non consente in alcun modo al governo di aumentare la spesa pubblica per finanziare le misure su cui i partiti di maggioranza puntano di più a fini elettorali. Le nuove regole fiscali europee definite nel Patto di Stabilità e Crescita entrato in vigore lo scorso aprile, infatti, impongono politiche di riduzione del deficit e del debito molto severe, e su quelle la variazione della crescita degli ultimi tre anni avrà ripercussioni minime, se non nulle.

L’Italia, avendo un debito pubblico superiore al 60 per cento, dovrà comunque impegnarsi per sette anni a partire dal 2025 a ridurlo di almeno un punto percentuale all’anno. Che sia del 137,8 per cento, o poco meno, non fa quindi differenza. E lo stesso vale per il deficit. La revisione dell’ISTAT porta il deficit del 2023 al 7,2 per cento del PIL, due decimi in meno rispetto alle precedenti stime: vuol dire che il ministero dell’Economia, nel definire il percorso di riduzione del deficit, partirà da una soglia lievemente più bassa, ma comunque significativamente più alta – la più alta tra i paesi che hanno l’euro – del limite previsto dai parametri europei, che è del 3 per cento del PIL. Essendo il deficit italiano ben superiore a questa soglia, il governo dovrà definire un percorso di riduzione costante e continuativa del deficit di mezzo punto percentuale all’anno fino al 2031 (ma ha già garantito alla Commissione che intende portarlo sotto la soglia del 3 per cento già a partire dal 2026).

Non potranno esserci neanche scostamenti rispetto a un percorso già concordato a grandi linee con la Commissione sull’altro parametro fondamentale preso in esame dal nuovo Patto di Stabilità, la spesa primaria netta, cioè quella stimata senza tenere conto di alcuni fattori (gli interessi sul debito pubblico, le misure legate alla disoccupazione che variano di anno in anno, e altri provvedimenti straordinari).

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Considerando tutti questi parametri, di qui al 2031 l’Italia dovrà dunque ridurre l’indebitamento di 12-13 miliardi all’anno. Sono soldi che i vari governi dovranno trovare riducendo la spesa improduttiva, aumentando le tasse oppure stimolando la crescita economica. E la revisione dell’ISTAT non aiuta poi molto: vale una riduzione di appena qualche centinaio di milioni all’anno.