Lo stupro come arma di guerra nella Repubblica Democratica del Congo
Nei campi profughi intorno a Goma, tra le città più coinvolte negli scontri tra ribelli ed esercito congolese, l'80% delle donne ha subito violenza sessuale
Dall’inizio dell’anno nella Repubblica Democratica del Congo, il paese più grande dell’Africa sub-sahariana, si sono intensificati gli scontri tra i ribelli del “Movimento per il 23 marzo” (M23) e l’esercito congolese. I ribelli hanno attaccato diverse città nel Congo orientale, al confine con il Ruanda, compiendo violenze sistematiche contro i civili (il Ruanda è accusato dal governo congolese di appoggiare i ribelli e per questo da tempo si parla di “guerra per procura”, cioè del fatto che il Ruanda starebbe di fatto facendo la guerra al Congo senza combatterla direttamente con i suoi soldati). Le violenze hanno aggravato la crisi umanitaria già in corso e hanno indebolito il sistema sanitario favorendo la diffusione dell’mpox, la malattia in precedenza nota come “vaiolo delle scimmie”.
Negli attacchi contro i civili, inoltre, ci sono stati stupri sistematici contro le donne che abitano in quelle zone del Congo: in un lungo reportage il Wall Street Journal racconta che l’80 per cento delle donne che si trovano nei campi profughi intorno a Goma, la città più grande della provincia orientale del Nord Kivu, quella maggiormente coinvolta negli scontri, ha subito una violenza sessuale. Nel distretto di Nyiragongo, a 20 chilometri da Goma, il numero di stupri tra novembre e dicembre del 2022 e la seconda metà del 2023 è passato da circa 100 al mese a più di 100 al giorno, secondo un rapporto delle Nazioni Unite pubblicato a luglio.
Cinque donne congolesi che hanno subito violenza hanno raccontato la loro storia al Wall Street Journal. Vivono in un posto isolato nella parte nord orientale della Repubblica Democratica del Congo in un campo vicino al Parco nazionale dei Virunga, famoso in tutto il mondo per i gorilla di montagna a rischio di estinzione e che ora è diventato un rifugio per centinaia di ribelli che combattono in quella zona.
Poiché le razioni di farina e fagioli che ricevono una volta al mese dal Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite non sono sufficienti, queste donne e le loro famiglie sono costrette a percorrere molti chilometri per raccogliere piante commestibili o legna da ardere. La loro unica possibilità è raggiungere la periferia di Goma attraverso una camminata di cinque ore lungo un sentiero dove loro, come molte altre, sono state stuprate, anche più di una volta.
«Una donna è stata violentata mentre il suo bambino era a terra accanto a lei, che piangeva. Un’altra è stata tenuta a terra per ore da due uomini armati di coltelli e machete. Ognuna di loro ha sentito le urla soffocate delle sue compagne che venivano aggredite lì accanto», ha scritto il Wall Street Journal.
Nel reportage ci sono i dettagli di alcune violenze subite, ci sono le testimonianze di medici e ginecologi che dicono come molte donne abbiano lesioni interne complesse perché sono state stuprate con fucili e bastoni, e ci sono i racconti di come la maggior parte di loro venga poi abbandonata dai mariti o dalla famiglia perché lo stupro è considerato uno stigma, una vergogna per chi l’ha subìto. Marie José Vumiliya, 45 anni, ha detto: «Quando mio marito l’ha scoperto, mi ha sputato addosso e se n’è andato». Judith Serubungo, 35 anni, ha detto che il marito ha «tollerato» il primo e il secondo stupro, «ma dopo la terza volta se n’è andato». Pascazi Basabose, 35 anni, ha invece detto che quando tornava a casa e preparava da mangiare con il cibo che si era procurata, il marito lo mangiava, «ma non riusciva a capire che quel cibo era il motivo per cui ero stata stuprata».
La regione orientale della Repubblica Democratica del Congo è un posto complicato e instabile. In quest’area sono attivi più di cento diversi gruppi armati, compresi i ribelli dell’M23. Oggi a combattere contro l’M23 – che controlla tutte le principali strade che portano a Goma e che è avanzato anche all’interno della città – c’è innanzitutto l’esercito regolare del Congo: è scarsamente equipaggiato ed è sostenuto dai peacekeeper delle Nazioni Unite e da quelli della Comunità di sviluppo dell’Africa meridionale (Sadc), che ha inviato circa 3mila soldati dal Sudafrica, dalla Tanzania e dal Malawi. Ma ci sono anche dei gruppi armati riuniti sotto il nome di Wazalendo, che significa “patrioti” in lingua swahili.
Human Rights Watch, Amnesty International e le Nazioni Unite hanno documentato aggressioni sessuali da parte di combattenti appartenenti a tutte le parti in conflitto: l’M23, l’esercito congolese e i Wazalendo. E ci sono diverse prove di stupri commessi anche dai soldati che appartengono alle missioni internazionali e delle Nazioni Unite.
Nella storia, la violenza sessuale è stata molto spesso utilizzata come strategia di guerra pianificata e coordinata, dai tempi dell’antica Grecia fino a oggi. Lo stupro sistematico ha conseguenze durature, di cui molto spesso ci si occupa poco, e che vanno ben oltre la fine del conflitto stesso. In guerra affrontare gli stupri – prevenirli da una parte, garantire assistenza alle vittime dall’altra – è ancora più difficile di quanto lo sia in tempo di pace. Kanyamanza, la donna intervistata dal Wall Street Journal, pensa che le soluzioni a tutto questo siano solamente due: «Se la guerra finirà, non dovrò più essere stuprata. Oppure se avremo del cibo sufficiente».
Oltre dieci anni fa, molti leader politici e celebrità di tutto il mondo si erano impegnati per porre fine all’uso dello stupro come arma di guerra in Congo. Nel 2009 Hillary Clinton, in qualità di segretaria di Stato americana, incontrò le donne sopravvissute nel Congo orientale e di Goma, che dopo anni di violenze e conflitti era diventata nota come la «capitale mondiale dello stupro». L’allora ministro degli esteri del Regno Unito, William Hague, che nel 2013 visitò Goma con l’attrice Angelina Jolie, paragonò la violenza sessuale nelle zone di conflitto alla «tratta degli schiavi della nostra epoca».
Questo interesse portò a una mobilitazione generale, con finanziamenti degli Stati Uniti da milioni di dollari, da altri governi di paesi occidentali e dalle istituzioni internazionali: l’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID) mise ad esempio a disposizione 20 milioni nel 2009 e 15,3 milioni nel 2017, e la Banca Mondiale 174 milioni in totale.
Quei soldi sono stati usati per affrontare sia le cause profonde che le conseguenze delle violenze sessuali: per sostenere ospedali, per formare gli operatori sanitari e legali che aiutassero le donne a denunciare, per fornire appoggio medico e psicologico alle vittime, per aprire gruppi di discussione tra uomini ed esaminare le norme sociali che spingono molti mariti a lasciare le mogli dopo le aggressioni, per distribuire in modo sistematico farmaci d’emergenza contro il rischio di contrarre l’HIV, per creare dei tribunali itineranti che avrebbero potuto accelerare i casi di stupro anche nelle zone più remote del paese. E diversi importanti leader militari e miliziani sono stati condannati per aver ordinato ai loro uomini di stuprare le donne.
Tutto questo si è però interrotto con il recente intensificarsi del conflitto: «È come se tutto il lavoro che abbiamo fatto si fosse azzerato», ha raccontato Justine Masika Bihamba, che vent’anni fa fondò un’organizzazione per dare sostegno alle donne vittime di violenze sessuali, la Synergie des Femmes pour les Victimes des Violences Sexuelles (SFVS).
I finanziamenti dell’USAID per il progetto di prevenzione e risposta alla violenza sessuale nel Congo orientale sono terminati l’anno scorso. Quelli della Banca Mondiale sono scaduti nel settembre del 2023. Altri finanziamenti ancora sono stati dirottati ad altri paesi in guerra, come l’Ucraina, e quelli per il Congo sono stati in generale ridotti a causa del virus dell’mpox, che si è diffuso nei campi profughi.
Nei centri sanitari mancano gli antibiotici necessari per prevenire le infezioni dopo un’aggressione, la maggior parte delle cliniche per l’assistenza legale sono state chiuse, sebbene alcune persone continuino a lavorarci come volontarie, ma senza i finanziamenti della Banca Mondiale per i tribunali mobili e le udienze speciali molti casi restano bloccati, così come l’attività delle tante associazioni locali.