Il rapporto complicato tra Apple e la Commissione Europea
Il procedimento sulle tasse in Irlanda era solo uno dei vari in corso: hanno tutti a che vedere con la posizione dominante sul mercato che l'azienda si è creata negli anni
La più nota e rilevante controversia tra la Commissione Europea e Apple si è conclusa la scorsa settimana con la sentenza di ultimo grado della Corte di giustizia dell’Unione Europea: ha imposto ad Apple il pagamento di 13 miliardi di euro di tasse non versate all’Irlanda dal 2003 al 2013, periodo in cui aveva beneficiato di un regime fiscale molto agevolato che le aveva dato un grande vantaggio sulle aziende concorrenti.
La decisione della Corte ha messo fine a un caso iniziato quasi dieci anni fa, e che è solo uno dei vari e costosi procedimenti europei in cui è coinvolta l’azienda per violazioni delle regole sulla concorrenza: a marzo era stata multata per 1,8 miliardi di euro per abuso di posizione dominante nel campo dello streaming musicale, e sono in corso altre cinque indagini simili che a loro volta potrebbero concludersi con delle multe. Negli anni il rapporto tra Apple e la Commissione Europea è diventato dunque molto complicato e oneroso per l’azienda, anche per la volontà della commissaria europea per la Concorrenza Margrethe Vestager, che con determinazione ha voluto smontare i privilegi fiscali di cui hanno goduto le aziende tecnologiche con sede in Unione Europea grazie a regole obsolete e vuoti normativi.
L’approccio molto duro degli ultimi anni contro le società tecnologiche è stato spesso oggetto di discussione in ambito economico: da una parte c’è chi ritiene che politiche del genere scoraggino gli ingenti investimenti di queste aziende, spesso statunitensi, in Europa, e le spingano ad aprire le loro sedi altrove; dall’altra c’è invece chi pensa che il settore vada regolato meglio, tenendo conto delle sue particolarità, e che queste società debbano avere le stesse condizioni di partenza garantite a tutte le altre. Seguendo questa seconda linea di pensiero, l’Unione Europea nel 2022 ha introdotto una regolamentazione molto vincolante per il settore, volta proprio a impedire che in Europa le aziende tecnologiche – prima su tutte Apple – formassero monopoli. E negli anni precedenti la Commissione si era già mossa con gli strumenti legislativi a sua disposizione, col risultato che nei confronti di Apple si è stratificata una serie di procedimenti che hanno reso molto complicate le interazioni con l’azienda, anche ora che ci sono regole più chiare da rispettare.
La causa contro gli incentivi fiscali di Apple in Irlanda è stata l’inizio delle diatribe, nel 2016, ed è anche stata una delle prime grandi iniziative di Vestager contro le società tecnologiche nel suo ruolo di commissaria: a causa del procedimento contro Apple l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump la soprannominò la «signora delle tasse». Vestager è commissaria dal 2014, ma non farà parte della nuova Commissione Europea che si insedierà entro la fine dell’anno. Prenderà il suo posto Teresa Ribera, ex ministra spagnola, di sinistra, ideologicamente molto vicina a Vestager: è dunque probabile che le cose non cambieranno molto.
Nel 2016 la Commissione Europea giudicò illegale l’accordo fiscale per cui Apple aveva stabilito la sua sede europea in Irlanda, dando lavoro a più di 5mila persone, ottenendo in cambio dal governo irlandese la possibilità di pagare meno dell’1 per cento di tasse: secondo la Commissione, Apple stava beneficiando di un aiuto di Stato che le garantiva un grosso vantaggio rispetto alle altre aziende concorrenti e che non faceva altro che consolidare la sua posizione di quasi monopolio in campo tecnologico. La Commissione aveva quantificato in 13 miliardi di euro questo vantaggio, e l’azienda avrebbe dovuto pagarli allo stato irlandese.
Apple aveva fatto ricorso, appoggiata anche dall’Irlanda, che non voleva i soldi delle tasse arretrate ma preferiva mantenere il rapporto con l’azienda e tutelare i posti di lavoro. Entrambe avevano portato il caso al Tribunale dell’Unione Europea, il primo grado di giudizio della Corte di giustizia dell’Unione Europea. Nel 2020 il Tribunale aveva dato loro ragione, annullando la decisione del 2016; la Commissione aveva fatto nuovamente ricorso alla Corte, e ha infine vinto la scorsa settimana nell’ultimo grado di giudizio, che ha imposto il pagamento dei 13 miliardi: Apple ha esaurito la possibilità di fare ricorsi, e la sentenza è dunque definitiva.
Ci si aspetta che nei prossimi mesi il governo irlandese trasferisca in un proprio conto corrente i soldi che Apple già da tempo aveva lasciato in un conto di garanzia in attesa della sentenza definitiva. Con gli interessi saranno circa 14 miliardi di euro, più di 15 miliardi di dollari.
Sebbene sia una delle più grandi compensazioni chieste a un’azienda dall’Unione Europea, per Apple è comunque una cifra abbordabile, considerato sia quanto guadagna ogni anno sia il fatto che va a coprire dieci anni di mancate imposte. Nell’anno fiscale 2023 il suo profitto operativo globale è stato di 114 miliardi di dollari, di cui 36 guadagnati nel solo mercato europeo. La compensazione, se ripartita in dieci anni, rappresenta dunque solo il 4 per cento degli utili europei di oggi (1,5 miliardi su 36). In ogni caso Vestager ha definito la sentenza della Corte «una grande vittoria per i cittadini europei e la giustizia fiscale», e ha aggiunto che neanche una società così potente può essere al di sopra della legge. Al contrario Apple ha fatto sapere di essere delusa dalla decisione: un portavoce ha detto che «questo caso non è mai stato su come paghiamo le tasse, ma a quale Stato dobbiamo pagarle».
La questione fiscale è stata sollevata da Vestager e dal suo dipartimento con un escamotage piuttosto creativo: erodere il vantaggio competitivo di Apple attraverso l’unico appiglio legale con cui poteva farlo, cioè il divieto per i paesi membri di dare alle aziende aiuti di Stato, che però solitamente hanno la forma di sussidi diretti, e non sconti sulle tasse.
La Commissione non aveva del resto altri strumenti, perché nel 2016 le regole per la concorrenza digitale erano di fatto inesistenti, e le società tecnologiche godevano di un doppio standard: da una parte avrebbero dovuto rispettare in linea di principio le stesse leggi delle altre, e quindi gli aiuti di Stato erano proibiti anche per loro; dall’altra però i governi e i legislatori erano assai tolleranti se non lo facevano, sia perché non avevano ancora capito come governare il settore, sia perché riconoscevano loro un ruolo importante nell’innovazione tecnologica, da preservare e incentivare.
Oggi le cose sono molto diverse e la Commissione Europea ha promosso una nuova e apposita regolamentazione per correggere le storture del mercato tecnologico e digitale, dominato ancora da enormi società tecnologiche con cui quelle più piccole fanno molta fatica a competere (spesso neanche ci provano). Le nuove regole sono contenute nel Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA), entrambi in vigore dal 2022. Il DSA aggiorna una direttiva sull’e-commerce di circa vent’anni fa e regola l’attività delle piattaforme che fanno da intermediarie tra aziende che offrono prodotti, servizi o contenuti e gli utenti che ne fanno uso. Per le questioni di concorrenza, però, è dirimente soprattutto il DMA, che è anche la normativa che più sta causando problemi a Apple.
Il regolamento è nato proprio dall’esigenza di provare a regolamentare meglio la posizione dominante di alcune delle più grandi aziende tecnologiche al mondo, introducendo una serie di criteri per limitare i cosiddetti gatekeeper (letteralmente “custodi del cancello”): sono quelle aziende che godono di una posizione dominante sul mercato e che possono impedire o contrastare l’ingresso di nuove aziende in un settore, come può essere quello dei social network, del cloud computing, della ricerca online, della messaggistica, dello streaming video e musicale. Sono imprese che hanno dunque maggiori responsabilità rispetto ad altre nel garantire un accesso paritario alla concorrenza nei settori in cui è attiva: secondo i canoni del DMA Apple è un gatekeeper.
L’obiettivo del DMA è evitare comportamenti anticompetitivi: per esempio nella pratica i gatekeeper non possono favorire in nessun modo i propri servizi a scapito di quelli della concorrenza. Quelli che gestiscono sistemi operativi dovranno per esempio consentire agli utenti di cancellare le app preinstallate. Nel concreto questo significa che, per esempio, Apple e Google devono consentire ai loro utenti di disinstallare app predefinite sui loro dispositivi, come Maps di Apple e Gmail di Google, per promuovere così la concorrenza di altri sviluppatori di applicazioni.
Questo è un grosso problema per Apple, le cui pratiche sono già risultate in contrasto con la normativa: per esempio, secondo la Commissione il funzionamento dell’App Store, cioè la piattaforma con cui si possono scaricare le app sui dispositivi Apple, impedisce agli sviluppatori di applicazioni di indirizzare i consumatori verso canali alternativi per offerte e contenuti. Apple rende tutti questi passaggi molto difficili con l’obiettivo di tenere gli utenti all’interno del sistema Apple, danneggiando la concorrenza.
Il vantaggio dei nuovi regolamenti è che ora le grandi aziende tecnologiche hanno regole chiare da seguire, il che dovrebbe evitare lunghe battaglie legali basate sull’inventiva dei funzionari, come quella contro Apple in Irlanda. Apple stessa sta tentando di adattarsi alle nuove norme, come le altre società del settore: ci vorrà tempo e servirà un dialogo costante con la Commissione stessa, che entrambe le parti dicono di avere impostato ma che si sta rivelando non facile.
La Commissione sta infatti continuando a portare avanti alcune procedure già intraprese, che non fanno altro che irrigidire i rapporti con Apple. Ne ha aperte cinque distinte contro presunte violazioni del DMA: tre sono state avviate a giugno e hanno già riscontrato violazioni delle nuove regole per la concorrenza da parte dell’App Store; le ultime due sono state annunciate giovedì e sono ancora in una fase preliminare, che consiste nella verifica della cosiddetta interoperabilità dei dispositivi Apple, cioè la compatibilità tra di loro (tipo un iPad con un Mac) e con altri sistemi operativi (tipo le AirPods con un telefono Android).
Le cinque procedure potrebbero portare a delle multe, nel caso in cui le violazioni non vengano eliminate.
Secondo il regolamento, la Commissione può imporre multe fino al 10 per cento del fatturato complessivo dell’azienda in questione, che possono salire al 20 per cento in caso di violazioni ripetute. A marzo ha multato Apple per 1,8 miliardi di euro per violazione delle regole europee sulla concorrenza: secondo la Commissione Apple avrebbe abusato della propria posizione di controllo sulla distribuzione delle app per lo streaming musicale – attraverso il proprio store digitale, l’App Store – per favorire il proprio servizio di streaming musicale, Apple Music. Vestager disse che l’entità della multa è particolarmente punitiva in modo da essere un «deterrente» per simili pratiche di concorrenza sleale da parte di altre aziende.
In questo senso il rapporto con la Commissione continua a essere complicato: servirà tempo prima che Apple smaltisca tutte le procedure relative alle pratiche scorrette del passato, attuate quando non c’erano normative certe, e ne servirà ancora per adeguarsi alle nuove leggi.
Essendo regolamenti per certi versi drastici, il DMA e il DSA hanno creato molta discussione tra chi ritiene che finiranno per essere un disincentivo allo sviluppo di un settore tecnologico europeo che possa fare davvero concorrenza a quello statunitense e cinese. Tra l’altro, per via della preoccupazione generata dai regolamenti europei, Apple ha rinunciato a introdurre in Europa le sue nuove funzionalità basate sui sistemi di intelligenza artificiale (Apple Intelligence).
Al momento dell’annuncio la commissaria Vestager fece sapere di essere «alquanto sollevata» di non avere sul proprio iPhone l’aggiornamento con le funzionalità di intelligenza artificiale.
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