(foto Axel Þórhallsson)

“Il più memorabile concerto di ogni tempo in Islanda”

«Da qui in genere si fugge, ma io negli ultimi tempi ci sono andato, e più d’una volta: l’ultima qualche giorno fa, per prendere parte all’evento più importante dell’anno, di molti anni, dell’intera storia di questo derelitto angolo d’Islanda. Un mega concerto viking-folk metal al tramonto, un sabato di settembre, con tanto di drago sputafuoco, un numero di biglietti venduti pari a otto volte la popolazione del comune ospitante e una produzione para-hollywoodiana»

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La prima volta che avvertii il desiderio di andare a Raufarhöfn dovetti prenotare il bus due giorni prima. Telefonai all’azienda dei trasporti, chiesi cortesemente di passare dall’islandese all’inglese e garantii che mi sarei fatto trovare alla fermata di Húsavík all’orario pattuito. La prenotazione era obbligatoria non perché in caso contrario avrei rischiato di non trovare posto su un torpedone a due piani tracimante di pendolari, ma perché senza di me la corsa non sarebbe stata effettuata. Quel giorno l’autista si svegliò all’alba e si mise alla guida del suo sette posti bianco neve esclusivamente a motivo del mio discutibile capriccio.

Ero il solo sfaccendato diretto in quel posto balordo, e uno degli ultimi utilizzatori del servizio: poche settimane dopo la mia gita, la tratta Húsavík-Raufarhöfn sarebbe stata soppressa, verosimilmente per sempre. Nessun mezzo pubblico conduce in quel paesello sperduto, da allora. E intendiamoci: per quale motivo un individuo sano di mente dovrebbe avvertire il desiderio di recarsi in uno dei luoghi più freddi e periferici di un’isola già di per sé fredda e periferica, in un posto che non è di strada, che non porta da nessuna parte, che più lontano di così da Reykjavík non potrebbe essere; un centro abitato respingente al punto da essere diventato pressoché disabitato, la prima località inserita nella lista degli «insediamenti a rischio» redatta dal governo islandese?

Da Raufarhöfn in genere si fugge, ma io negli ultimi tempi ci sono andato, e più d’una volta: l’ultima qualche giorno fa, per prendere parte all’evento più importante dell’anno, di molti anni, dell’intera storia di questo derelitto angolo d’Islanda. Un mega concerto viking-folk metal al tramonto, un sabato di settembre, con tanto di drago sputafuoco, un numero di biglietti venduti pari a otto volte la popolazione del comune ospitante e una produzione para-hollywoodiana. L’attesissima data unica degli Skálmöld aveva l’aria di essere il tentativo estremo – certamente parecchio rumoroso – di strappare Raufarhöfn a un futuro da villaggio fantasma.

*

Sono giunto in paese alcune ore prima dell’apertura dei cancelli, alle quindici e trenta. Ho preso nota dell’ora, come l’agente Cooper al suo arrivo a Twin Peaks. Un sole settembrino meno titubante del solito faceva vibrare d’argento la superficie dell’oceano, che più ci si avvicina a Raufarhöfn più invade l’orizzonte, appropriandosene. Non ci sono rilievi montuosi nella Melrakkaslétta, la “piana della volpe artica”: l’unico elemento di demarcazione è l’acqua. Dal momento che manca anche una stazione di polizia, si può affermare che il mare sia anche la sola autorità riconosciuta in paese.

Il mare e il vento, l’incontrastato tandem fautore della peculiare frescura estiva di Raufarhöfn, la località islandese che sperimenta la più contenuta escursione termica tra stagione fredda e stagione calda – che calda qui non è mai per davvero. In aggiunta, non c’è un abitato più settentrionale di questo in tutta l’Islanda continentale. Il faro di Rifstangi, a un quarto d’ora in auto dal centro del paese, si erge ad appena tre chilometri dal Circolo Polare Artico. Non ci si può spingere oltre, e una parte del fascino che esercita su di me questo posto si deve a questo: al suo essere frontiera, dunque meta privilegiata nella ricerca di ciò che nell’Idea di Nord Peter Davidson definisce «il nord in purezza, che esiste da qualche parte per ciascuno di noi».

Come la quasi totalità dei villaggi islandesi, Raufarhöfn non ha una piazza centrale: gli edifici di interesse sono disposti ai due lati della strada principale, che è anche l’unica. Sul lato sinistro hanno sede il minimarket, l’ufficio postale, la banca e la sala comunitaria; sul destro la piscina pubblica, una guesthouse, un alberghetto, un pub e le strutture portuali – o quel che ne resta. Nel secondo dopoguerra, Raufarhöfn era un fiorente centro per la pesca e la lavorazione dell’aringa. Contava circa cinquecento residenti, che stagionalmente crescevano fino a oltre duemila. Poi però di punto in bianco le aringhe se ne andarono, indifferenti alle umane brame migrarono verso altri lidi, condannando il villaggio al declino economico e demografico.

Oggi vi risiedono meno di duecento persone, quasi tutte legate alle residue quote di pesca al merluzzo in possesso degli autoctoni. Abbastanza per tirare avanti, non per rimettere in uso i due giganteschi serbatoi in cemento che nell’epoca d’oro traboccavano di olio di fegato e che da quarant’anni sono un centralissimo quanto fetido monumento alla Raufarhöfn che fu. Il sogno dei locali sarebbe un giorno trasformare questi tremendi cilindroni in auditorium per cori lirici, sfruttandone la portentosa benché involontaria acustica.

(foto Leonardo Piccione)

Quando ho messo piede nel silo numero uno, di recente aperto al pubblico, prima della persistenza del suono mi ha tuttavia colpito quella dell’odore, un pungente miasma salmastro che si staccava dalle pareti come uno spirito, l’inquietante reliquia di un passato restio allo sfratto. Questa diffusa spettralità è un altro punto di attrazione ai miei occhi, e se già ritenete ci siano tutti gli ingredienti necessari all’ambientazione di un nordic noir avete colto nel segno. Sappiate però che qualcuno vi ha preceduto: nel 2020, il giallista svizzero Joachim Schmidt scelse Raufarhöfn e dintorni come sfondo delle peripezie investigative del suo Kalmann, l’autoproclamato sceriffo del villaggio insospettito dal ritrovamento nello stomaco di un pescecane di una mano umana. Va tutto bene, la prima indagine di Kalmann, è stata da poco tradotta in italiano.

Attraversata la strada, mi sono lasciato la fragranza di merluzzo alle spalle per accedere alla sala comunitaria, una specie di casa del popolo trasformata per l’occasione in mensa e mercatino. Una cospicua porzione di abitanti di Raufarhöfn era intenta a proporre il meglio che la comunità avesse da offrire. Certe attempate filatrici esponevano maglioni e berretti in lana di loro fattura, una signora di mezza età i suoi acquerelli, gli alunni delle elementari (undici in tutto) t-shirt celebrative con su la mappa dell’Islanda e un cuoricino al posto della Melrakkaslétta. Sui banner celebrativi tutt’intorno era stampato RAUFARHÖFN ROKKAR, «Raufarhöfn spacca». In un angolo un ragazzotto sulla trentina aveva allestito una specie di mini ferramenta e promuoveva zitto zitto un’offerta speciale su un determinato stock di chiodi, una trovata che ho creduto fosse un sarcastico riferimento al genere musicale protagonista dell’imminente show finché non ho scorto un avventore allontanarsi dalla sala con una scatola di puntine tra le mani.

In tutto ciò, nell’area bar allegata alla sala (aperta d’inverno un weekend sì e uno no) l’uomo solitamente addetto alla pesatura del pesce era alle prese con le fasi finali della preparazione di cinquecento litri di kjötsúpa, la tradizionale zuppa islandese a base di ortaggi di stagione e bocconcini d’agnello. Occorre infatti dire che Raufarhöfn esiste e resiste grazie al pesce, ma è più famosa per la carne. Il giorno più importante dell’anno negli anni in cui non hanno luogo concerti di richiamo internazionale (cioè tutti tranne il corrente) qui è il hrútadaginn, «il giorno degli arieti», ed è opinione comune che gli allevatori della zona siano i più bravi della nazione. Quando ho chiesto alla mia vicina di mensa da cosa dipenda questa bravura, lei mi ha risposto: «Dalle pecore».

(foto Leonardo Piccione)

Opinioni schiette e voce squillante, Helga Lára Þorsteinsdóttir è la responsabile nazionale dell’archivio della RÚV, la tv di Stato. È stata lei a rivelarmi che, per quanto inizialmente difficile da credere, la desolazione di Raufarhörn ha la capacità di fare il giro e diventare magnetica. O almeno nel suo caso è andata così: nata e cresciuta nella capitale, da un decennio passa tutte le estati quassù. Insieme a suo marito Pétur ha rilevato la bettola di un ubriacone destinata a essere smaltita a mezzo fiamme (cioè bruciata) e la sta rimettendo pazientemente a nuovo, dimostrando agli indigeni che non è sempre vero, come sostengono, che la gente di Reykjavík non sa nulla della vita. «Dieci anni fa trovavo Raufarhörn il posto più deprimente del mondo», mi ha detto. «Poi le cose sono migliorate. Qualsiasi cosa tu faccia, qui ha un impatto. Vedi i risultati delle tue azioni, puoi sistemare le cose che non vanno. In una città non hai il potere di cambiare granché. Se sei un cittadino modello a Reykjavík o a New York, a chi importa?». Negli anni, Helga Lára ha ricalibrato anche la propria opinione sui locali, che oggi definisce «rilassati e amichevoli», in buona misura perché la mancanza di forze dell’ordine e la distanza da tutto e tutti hanno un mucchio di difetti ma anche un grande pregio: «Chiunque in questo paese può essere matto in santa pace».

Secondo la ministra dell’agricoltura e della pesca che ho incrociato subito dopo essermi congedato da Helga Lára, l’aspetto più qualificante di Raufarhörn è invece l’assenza di montagne. Gli islandesi hanno un’idea di “paesaggio mozzafiato” non sempre coincidente con quella dei visitatori stranieri, e non disdegnano le viste aperte come quelle offerte da Raufarhörn, dove la parca luce dell’inverno non incontra il minimo ostacolo. Bjarkey Olsen Gunnarsdóttir, eletta nel partito dei Verdi, ha colto l’occasione dello storico concerto per far visita alle comunità rurali che l’hanno portata in parlamento: Raufarhörn continua a far parte della lista di insediamenti a rischio, sebbene non sia la comunità a più immediato pericolo di estinzione. «Il numero di abitanti non cresce, ma al momento nemmeno diminuisce», mi ha detto. Il suo auspicio è che il flusso turistico nell’area, oggi limitato essenzialmente a poco più di due decine di migliaia di birdwatcher all’anno, si moltiplichi grazie alle riprese del concerto e all’unicità della sua location. Al momento della nostra conversazione era in corso il soundcheck ed echi di poderose schitarrate giungevano dall’Arctic Henge, un monumento di ispirazione neopagana realizzato su una piccola altura alla periferia nord di Raufarhörn. Un progetto incredibilmente ambizioso, ma ancora poco conosciuto e soprattutto incompleto.

* *

Quando – alla fine degli anni Novanta – cominciarono a elaborare l’idea di una Stonehenge moderna impastata di mitologia nordica e folklore islandese, l’albergatore Erlingur Thoroddsen e l’artista Haukur Halldórsson avevano come obiettivo lo sfruttamento più creativo possibile degli incessanti giochi di luce e ombra che contraddistinguono le latitudini estreme. Quello che le loro menti partorirono fu un’imponente meridiana concepita e orientata secondo i dettami della mitologia nordica.

Il punto di partenza è un’area circolare di cinquantadue metri di diametro; a marcarne il perimetro quattro portali, ciascuno alto sei metri, composto da grossi blocchi di basalto disposti ad arco e ispirato a uno dei quattro nani che secondo l’antica Edda in prosa, uno dei due testi fondamentali della mitologia norrena, reggono il cielo: Norðri, Suðri, Austri e Vestri, rispettivamente Nord, Sud, Est e Ovest. Al centro, una colonna di dieci metri di altezza. L’Arctic Henge è tutto qui al momento, cinque elementi architettonici che incuriosiscono, accanto ai quali ci si fotografa (soprattutto in occasione del solstizio d’estate), ma che sono parte di un’opera grandemente incompiuta rispetto al piano iniziale.

(foto Rafnar Orri)

Mancano i muri che colleghino i quattro portali, manca il grande prisma centrale che scomponga la luce in colori primari, manca il trono del sole. Mancano, soprattutto, i sessantotto nani aggiuntivi citati dalla Profezia della veggente, il più celebre poema dell’Edda poetica. Soltanto quando sarà stato ultimato secondo i dettami dei suoi intanto defunti progettisti, Raufarhöfn avrà la sua attrazione turistica di respiro mondiale, riuscirà a risollevare la propria immagine e le proprie finanze, tornerà destinazione appetibile e potrà, in sintesi, sopravvivere allo spopolamento. Ma, secondo le stime, occorrono trecento milioni di corone islandesi (circa due milioni di euro) per ridare slancio ai lavori, fermi da oltre un decennio. Il concerto degli Skálmöld è stato organizzato per questo, innanzitutto: per raccogliere fondi e incoraggiare investimenti che favoriscano l’ultimazione dell’Arctic Henge.

Il palco è stato piazzato tra Suðri e Vestri, il portale sud e quello ovest. Uno degli addetti all’allestimento, impegnato a rassettare la copertura superiore depredata la notte precedente dal vento, mi ha detto che una volta innalzato completamente il tetto, il palco sarebbe stato il secondo edificio più alto di Raufarhöfn, battuto soltanto dall’Hótel Norðurljós. Gran parte delle speranze di riuscita dell’evento era riposta a quel punto nella clemenza degli elementi e nella resa mediatica del concerto, quest’ultima affidata a Castor Media, un’agenzia fondata a Húsavík da Örlygur Hnefill Örlygsson, già ideatore del Museo dell’Eurovision, e Ingimar Davidsson, manager tecnico di caratura internazionale, vincitore di un Emmy per la produzione televisiva degli US Open 2018 di tennis. Ingimar era incaricato di coordinare le riprese delle quattordici telecamere distribuite nell’Arctic Henge, per quello che sarebbe stato il primo concerto della storia d’Islanda registrato interamente in Ultra HD. Verrà trasmesso dalla tv islandese sotto Natale, ma l’obiettivo è vendere il prodotto finito a una serie di broadcaster e piattaforme di streaming straniere.

Ho chiacchierato con Ingimar sul retropalco, mentre era intento a riascoltare ancora una volta i brani in scaletta, per non farsi sorprendere da questo o quell’assolo. Nonostante nel suo curriculum professionale figurino concerti dei Foo Fighters, di Elton John e Ed Sheeran, la sua voce tradiva un’eccitazione per certi versi inedita: «Tra una settimana sarò a New York per un evento del presidente indiano Narendra Modi. Tra le altre cose, dovrò collaborare coi cecchini appostati nel luogo», ha esordito. «Ma adesso sono a Raufarhöfn, e la cosa che sta per succedere qui è unica!».

Ingimar mi ha raccontato che quel che rende speciale lavorare a uno show del genere in un posto del genere è la percezione che, qualsiasi cosa ti occorra, hai una comunità intera a disposizione: «Negli Stati Uniti se devi girare un video e blocchi una strada per cinque minuti rischi che qualcuno ti spari, letteralmente. Qui ieri pomeriggio l’impiegata della banca ci ha detto che se avessimo avuto bisogno di scaldarci o usare una stampante oltre l’orario di chiusura dello sportello avrebbe lasciato la porta posteriore della filiale aperta per noi». Pur non essendo un appassionato del genere, Ingimar nutre un enorme rispetto per gli Skálmöld, e mi ha spiegato che per gli islandesi un loro concerto ha una valenza diversa da qualsiasi altro spettacolo ascrivibile al mondo metal: «Ti basti sapere che mia madre, non certo una metallara, è avvilita per non essere riuscita a venire. Un funerale l’ha bloccata altrove».

Ma allora, è a questo punto il caso di chiedersi, chi diavolo sono gli Skálmöld?

Costituitisi nel 2009 a Reykjavík ma radicati nel nord-est dell’isola, gli Skálmöld si sono in breve tempo affermati tra i più autorevoli esponenti della scena viking-folk metal internazionale. Combinano le melodie della musica tradizionale islandese con le sonorità proprie dell’heavy metal, annoverando tra i propri riferimenti tanto gli Iron Maiden quanto Jón Leifs, il musicista classico che compose rumorosissime opere per orchestra ispirate ai vulcani e alle cascate dell’Islanda.

Le fonti di ispirazione dei testi degli Skálmöld, scritti rispettando il metro allitterativo della poesia dell’antico norreno, sono le saghe islandesi e in generale la mitologia nordica, pertanto le storie che mettono in musica traboccano di draghi, aquile e norne ma non disdegnano soggetti persino più inusuali per il metal. Ratatoskur, una traccia del loro ultimo album, è dedicata allo scoiattolo che vive sull’albero cosmico e opera da messaggero tra il bene e il male.

Gli Skálmöld si esibiscono con successo all’estero, e nel corso del solo 2024 hanno tenuto concerti in Germania, Danimarca, Norvegia, Polonia, Slovacchia e finanche Australia. La stima che godono in patria si deve soprattutto alle collaborazioni con l’Orchestra sinfonica islandese, che hanno contribuito a sdoganare la loro musica assegnandole un marchio di qualità che li qualifica agli occhi degli islandesi più insospettabili (l’ex presidente della repubblica Guðni Th. Jóhannesson ha firmato la prefazione della loro prima biografia) e anche di quelli che non condividono il loro credo. Tutti i componenti degli Skálmöld appartengono infatti alla “Fratellanza islandese della fede negli dei Asi”, un movimento religioso riconosciuto dallo Stato che promuove il recupero del paganesimo norreno precedente la cristianizzazione dell’Islanda. Il batterista Jón Geir Jóhannsson ci ha tuttavia tenuto a specificare in un’intervista che la band non crede in divinità personali: «Gli dei norreni rappresentano i tratti della natura umana, non sono persone».

Per tutti questi motivi, quando si è trattato di selezionare la band da contattare, la residente di Raufarhöfn incaricatasi dell’organizzazione del concerto non ha avuto dubbi. È durata un anno e mezzo la preparazione del gran giorno, compito che Nanna Steina Höskuldsdóttir ha alternato alle consuete mansioni nella fattoria di famiglia, un appezzamento al limitare del centro che comprende al suo interno anche una pista d’atterraggio. In totale, Nanna possiede 350 pecore, 60 cavalli, 3 cani, 2 galline e 1 aeroporto. Quarant’anni e frangia argentata, si è presentata all’Artic Henge a bordo di un quad agricolo, giusto in tempo per concedere un’intervista in diretta al tg nazionale della sera e una a me.

Nanna mi ha fatto capire che considera salvare Raufarhöfn dal declino la sua grande missione. È questo il motivo per cui dieci anni fa è tornata nel villaggio in cui è nata e cresciuta, guadagnandosi nel volgere di poco il titolo di jarðýta, una parola che indica un bulldozer ma che alla lettera significa “spostare la terra”. Nanna è una delle persone che nei posti come Raufarhöfn smuovono le cose, insomma, immaginandosi un futuro che sembrerebbe altrimenti precluso. Per la scelta della data del concerto, mi ha rivelato di non essersi affidata a riti divinatori, ma alla scienza: ha consultato la serie storica delle condizioni meteorologiche dell’area, accorgendosi che negli ultimi vent’anni il 7 settembre era quasi sempre stato bello. E non teme affatto che un evento del genere possa preludere all’evoluzione di Raufarhöfn in avamposto del neopaganesimo ideologico o di estremismi politici di sorta, «perché l’Arctic Henge è un posto in cui chiunque può trovare qualcosa e rigenerarsi, a prescindere da quello in cui crede».

Leonardo Piccione con il bassista degli Skálmöld Snæbjörn Ragnarsson (foto Örlygur Hnefill Örlygsson)

Un concetto affine di inclusività mi è stato ribadito poco dopo da Snæbjörn Ragnarsson, bassista degli Skálmöld e autore dei testi della band. Mancava poco più di un’ora all’inizio del concerto, la sua folta barba ramata riluceva e la parola che è tornata più spesso nel nostro scambio di battute è stata “divertimento”. «Alla fine dei conti a noi interessa solo divertirci. Ci piace quello che facciamo, non crediamo sia sciocco, ma nemmeno ci prendiamo troppo sul serio. E vorremmo sfatare il mito che l’heavy metal sia solo per alcuni», mi ha detto, annunciando che il momento clou della serata sarebbe stata l’esecuzione del brano Niðavellir: «È una ninnananna metal, la ninnananna con cui i genitori dei nani mettono a dormire i nani. Niðavellir è un bel posto dove trascorrere le giornate, giocare, lavorare e riposare, e i nani sono felici. Potrebbe essere localizzato esattamente qui. L’idea alla base del luogo in cui ci troviamo si basa sulle stesse fonti che io uso per i testi degli Skálmöld, d’altra parte. Non sono solo storie quelle che raccontiamo, sono il fondamento della nostra nazione».

Mentre cercavo di capire quale dei settantadue fosse il mio nano di riferimento (ognuno di noi ha il suo, dipende dalla data di nascita), una possente melodia elfica aveva preso a fuoriuscire dalle enormi casse, informando che qualcosa stava per accadere.

* * *

Il concerto è cominciato poco dopo le ventuno, con il sole tramontato e quasi tutte le stelle al loro posto in un cielo insolitamente sgombro. I poliziotti, arrivati nel numero di dieci dai comuni vicini, non avevano granché da fare a parte godersi lo spettacolo. Tutt’intorno c’erano famiglie, gruppi di amici e colleghi, e un sorprendente numero di ragazzini e ragazzine. Accomodati su sedie pieghevoli trasportate a mano nel mezzo chilometro che separa il parcheggio dal portale d’ingresso dell’Arctic Henge, cinque ultrasettantacinquenni non tradivano alcun segno di insofferenza ai decibel sprigionati dal vocione di Björgvin Sigurðsson. Erano arrivati da Grundarfjörður, sette ore e mezza più a sud-ovest, per applaudire gli Skálmöld ma anche per impostare una sorta di gemellaggio con l’associazione degli anziani di Raufarhöfn, nota per la sua vivacità ben al di fuori dei confini del nord-est. Se davvero tutti loro credessero, come urlano gli Skálmöld nella loro canzone più famosa, che «ci attende il Valhalla», questo non so dirlo. L’Islanda è, da che mondo è mondo, il regno delle questioni lasciate in sospeso.

Quel che è certo è che verso la metà del concerto ho avuto la chiara sensazione che quella via di mezzo tra Woodstock e la Notte della Taranta, celebrata nel punto geograficamente, musicalmente e spiritualmente più distante da tutto ciò da cui provengo fosse il luogo dove dovevo essere quella notte. Un braccio meccanico stazionato alle spalle del palco d’un tratto si è attivato, e una bocca di drago fiammeggiante ha fatto capolino sullo sfondo. Gli Skálmöld allora hanno alzato un altro po’ i giri delle loro chitarre, e io al movimento ritmato della testa ho associato quello di un braccio, poi delle gambe, un po’ per riscaldarmi un po’ per partecipare anche fisicamente a quell’irripetibile condensato di islandesità.

Poche ore dopo la fine dello show, Ingimar Davidsson ha dichiarato che si è trattato del più memorabile concerto di ogni tempo in Islanda. Più modestamente, gli organizzatori hanno annunciato che, avendo venduto tutti i millecinquecento biglietti consentiti per ragioni di sicurezza dalle autorità, è stato battuto il record di presenze per un singolo evento tenutosi a Raufarhöfn, risalente al 1995 e al cinquantesimo anniversario della fondazione ufficiale della città. Tornando a casa, impelagato nell’inusuale serpentone di auto incolonnate sulla provinciale 874, ho concluso che esistono modi decisamente più noiosi di provare a salvare un paese.

Basterà? L’Arctic Henge verrà completato? Quante nuove famiglie decideranno di venire a vivere nella piana della volpe artica?

Un paio di residenti mi hanno confessato di temere che dopo una sbornia del genere non sarà semplice generare nuovamente questo tipo di energia e tutta quest’attenzione, e che per Raufarhöfn la notte degli Skálmöld sia stata qualcosa di simile a un all-in. Quando ho chiesto a Nanna Höskuldsdóttir quali siano le prossime fasi della missione, con la concretezza tipica della sua gente mi ha risposto: «Tra due settimane dobbiamo radunare le pecore, il resto si vedrà».

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