Giorgia Meloni e suo cognato Francesco Lollobrigida, durante l'esecutivo di Fratelli d'Italia, il 5 ottobre 2022 (ETTORE FERRARI/ANSA()

“Amichettismo” è un termine nuovo per esprimere un vecchio concetto

Storia di come in politica giri da sempre l'accusa di favorire «conventicole», persone di fiducia e familiari

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Nel dibattito politico italiano di queste settimane ricorre con una certa insistenza il termine “amichettismo”, una parola con cui ci si riferisce alla pratica di promuovere in posti di prestigio persone che hanno rapporti di consuetudine con esponenti politici, o che magari sono affiliati a certi partiti, e che proprio in virtù di questo loro essere amichetti ottengono favori più o meno leciti. La parola venne sdoganata da Giorgia Meloni durante un’intervista a Quarta Repubblica, il programma di Rete 4 condotto da Nicola Porro, il 22 gennaio scorso. In quell’occasione la presidente del Consiglio disse che l’Italia è una nazione in cui «vige l’amichettismo», e riferì questa pratica soprattutto alla sinistra che usa scegliere «tra circoli di amichettisti» le persone da indicare per cariche importanti. «Avviso ai naviganti: il mondo nel quale per le nomine pubbliche la tessera del PD fa punteggio è finito», disse Meloni.

Da allora la parola si è affermata nell’uso quotidiano, con i partiti che la utilizzano per accusarsi a vicenda. Se infatti Meloni aveva parlato di “amichettismo” riferendosi alla sinistra, ben presto lo stesso termine è stato adoperato dagli esponenti dell’opposizione per attaccare la maggioranza di destra. E del resto “amichettismo” non è altro che una parola nuova per descrivere un concetto vecchio, che a seconda delle stagioni è stato raccontato come “familismo”, “nepotismo”, “favoritismo”, “clientelismo”, “parentopoli”, e in vari altri modi. È insomma una tendenza abbastanza consolidata nella politica italiana, che si fa più o meno evidente a seconda dei casi, e che ciclicamente viene indicata con questa o quell’espressione.

A Meloni, a quanto pare, la parola “amichettismo” è stata suggerita da Pupi Avati, il noto regista emiliano che ultimamente ha partecipato ad alcuni eventi di Fratelli d’Italia come ospite indipendente, anche per la stima che ha di lui l’ex ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano. Ma a coniare il termine che ha poi ispirato Avati è stato invece Fulvio Abbate, giornalista e scrittore palermitano che nel maggio del 2023 ha pubblicato un breve libro, consultabile integralmente anche online, intitolato proprio così: L’amichettismo. Nell’apertura del saggio ne dà questa definizione: «L’amichettismo racconta un insieme chiuso di relazioni. Per lo più interessate. Un progetto d’ambizione decisamente professionale, l’affetto appare secondario. Così aderisce alle ragioni e alla prassi del liberismo, sebbene dichiari di collocare il proprio umano presidio esclusivo “a sinistra”». Questo è forse l’elemento interessante per capire come mai Meloni abbia fatto proprio questo termine, nel senso che per Abbate, come lui stesso ha poi spiegato, “amichettismo” è una parola che connota tipicamente la pratica clientelare della sinistra.

Fulvio Abbate durante una puntata del Grande Fratello Vip, il 9 ottobre 2010 (Ufficio stampa Endemol Shine Italy/LaPresse)

Ma al di là delle convinzioni di Abbate, il concetto non sembra poi così diverso da pratiche analoghe di partiti e governi di orientamento diverso, recenti e passate. Favoritismi d’ogni genere hanno caratterizzato la politica italiana fin dall’Unità, e le degenerazioni clientelari sono state denunciate a più riprese durante la storia repubblicana, dal 1946 in poi, a volte alimentando polemiche più o meno estemporanee, altre volte dando consistenza a scandali clamorosi.

Un segnale di come queste pratiche siano sedimentate nell’immaginario e nella cultura popolare è la ricorrenza con cui il cinema italiano, e in particolare la commedia, abbia trattato l’argomento, spesso esasperandolo o distorcendolo.

Per esempio il film del 1960 Il vigile, di Luigi Zampa, prese ispirazione da fatti di cronaca per raccontare la vicenda di Otellio Celletti, un vigile viterbese interpretato da Alberto Sordi che, con zelo inflessibile, multava per eccesso di velocità il sindaco della città, finendo per questo nei guai: la storia era lo spunto per far emergere un groviglio di relazioni inopportune tra il sindaco, vari politici locali, e funzionari pubblici che godevano appunto di protezioni politiche. Oppure In nome del popolo italiano di Dino Risi, del 1971, raccontò delle tribolazioni di un magistrato fin troppo irreprensibile (Ugo Tognazzi), per dimostrare la colpevolezza di un imprenditore senza scrupoli (Vittorio Gassman) che si fa scudo delle sue importanti protezioni con ministri o onorevoli, amicizie così influenti che gli consentivano di far spostare di qualche metro i confini della Cassa del Mezzogiorno per includere anche la sua azienda tra quelle beneficiate dai fondi statali per le aree depresse del sud Italia.

Sono solo due esempi tra tanti, ma la cosa interessante è che ciclicamente l’accusa di nepotismo, clientelarismo o familismo, in vario modo formulata, è stata rivolta quasi sempre ai partiti che detenevano maggiore potere. E così, se per decenni l’oggetto di queste critiche e di queste satire è stata perlopiù la Democrazia Cristiana, il partito moderato cattolico che dal 1945 all’inizio degli anni Ottanta è stato ininterrottamente alla guida del governo, con l’affermarsi del Partito Socialista guidato da Bettino Craxi le accuse si spostarono proprio ai socialisti.

Giulio Andreotti, a sinistra, con Bettino Craxi, in una foto d’archivio di LaPresse degli anni Ottanta

Addirittura fu Giulio Andreotti, cioè uno dei principali dirigenti democristiani e spesso accusato di rappresentare i peggiori vizi del suo partito, a sdoganare questa accusa nei confronti di Craxi. Successe nel novembre del 1986, in occasione di una missione diplomatica del governo italiano in Cina, alla quale Craxi, che era presidente del Consiglio, fece partecipare un numero stranamente alto di funzionari pubblici, imprenditori, insieme a vari familiari e conoscenti. Appena atterrato a Pechino, Andreotti, che faceva parte della delegazione come ministro degli Esteri, disse con studiata perfidia a un cronista dell’agenzia Ansa: «Siamo qui con Craxi e i suoi cari». Tanto bastò per generare una grossa polemica su quel viaggio, e sulla composizione allargata della delegazione.

Si racconta che Andreotti fosse stato infastidito per buona parte del viaggio in aereo da Marina Ripa di Meana, che aveva fatto esercizi di ginnastica posturale proprio davanti a lui. Ripa di Meana era moglie di Carlo, allora commissario europeo indicato proprio da Craxi, che era stato anche loro testimone di nozze.

Anche di questa stagione socialista restano significative testimonianze nella cultura di massa, riferite perlopiù alla disinvoltura con cui Craxi e i suoi collaboratori gestivano il potere e le nomine pubbliche favorendo le persone a lui più vicine. Poi, con la fine della cosiddetta Prima Repubblica all’inizio degli anni Novanta, le accuse di favoritismi inopportuni furono rivolte a Silvio Berlusconi, che univa in maniera non proprio trasparente interessi pubblici e privati, e promuoveva in posti di rilievo istituzionale persone scelte spesso sulla base di discutibili simpatie personali. Ma a sua volta Berlusconi denunciò in più occasioni come la sinistra, proprio grazie alla sua rete di amicizie e di affiliazioni all’interno delle istituzioni, avesse creato e controllasse addirittura uno «Stato parallelo» fatto da scuole superiori, università, procure della Repubblica, Consiglio di Stato, Corte Costituzionale, giornali, televisioni. Alle accuse di familismo e nepotismo non sfuggì neppure Umberto Bossi, che tra l’altro ottenne di far eleggere suo figlio Renzo al Consiglio regionale lombardo nel 2010.

Il segretario del PD Matteo Renzi insieme al suo fedele collaboratore dell’epoca, Luca Lotti, durante l’Assemblea nazionale del partito a Milano, il 15 dicembre 2013 (MOURAD BALTI TOUATI/ANSA)

Passando a stagioni politiche più recenti, nel novembre del 2013 Matteo Renzi era segretario del Partito Democratico e voleva mettere in difficoltà il governo di Enrico Letta, per prendere il suo posto. Perciò commentò un caso di presunto favoritismo dell’allora ministra della Giustizia Annamaria Cancellieri, dicendo che «la Repubblica degli amici degli amici è inaccettabile».

Poco dopo toccò a lui essere criticato mentre governava, per la sua tendenza ad assegnare incarichi di potere a persone a lui molto vicine. Tra le varie, rimase famosa l’allusione di Pier Luigi Bersani, avversario interno di Renzi nel Partito Democratico: parlando appunto di «familismo» e di «sistemi di relazioni che si sovrappongono ai rapporti istituzionali», Bersani disse che c’erano «troppe cose in pochi chilometri quadrati», riferendosi appunto alla rete di conoscenze e amicizie toscane che Renzi si portava dietro dai tempi in cui era sindaco di Firenze.

Del resto l’accusa di favorire le persone che si conoscono meglio è inevitabile per chi ha il potere. Tra le responsabilità di chi sta al governo c’è appunto quella di nominare i dirigenti di società pubbliche, istituzioni, enti e fondazioni statali, e molte di queste nomine sono di natura fiduciaria. Il presidente del Consiglio, o un ministro, scelgono cioè gente che sia in sintonia con le loro idee, con cui negli anni hanno costruito un rapporto di stima: ed è fisiologico che sia così. Poi ovviamente c’è chi queste pratiche le adotta con maggiore accortezza e continenza, e chi con maggiore disinvoltura e arroganza. Ma per le opposizioni c’è sempre motivo di alimentare la polemica.

Sugli eccessi di queste critiche, sulla tendenza cioè a fare della denuncia delle «conventicole» un’argomentazione retorica un po’ vuota non solo nel campo della politica, ironizzò tra gli altri anche Paolo Virzì nel suo film Caterina va in città, del 2003.

E così, anche il partito che più di tutti ha fatto della lotta al malcostume e al clientelismo politico un suo principio fondante, alimentando una propaganda spesso violenta contro la famigerata “casta”, ha finito per incappare in quegli stessi errori una volta andato al potere. Dopo la formazione del primo governo di Giuseppe Conte, nel quale Luigi Di Maio era vicepresidente del Consiglio e ministro del Lavoro e dello Sviluppo economico, ci furono grosse polemiche quando si seppe che proprio Di Maio aveva nominato in alcune società pubbliche alcuni suoi amici di Pomigliano d’Arco, la città campana dov’era nato e cresciuto, e alcuni suoi vecchi compagni di classe delle superiori.

Insomma, le accuse di “amichettismo” rivolte da Meloni alla sinistra non sono altro che la riproposizione, con un termine nuovo, di una critica antica e consolidata nel dibattito pubblico: e infatti per i partiti di opposizione è stato facile rigirare l’accusa alla stessa Meloni, che in questi suoi due anni di governo ha dimostrato di non farsi troppi problemi a favorire persone di sua stretta fiducia, spesso suoi familiari, in posizioni molto importanti: suo cognato Francesco Lollobrigida è ministro dell’Agricoltura e capo delegazione di Fratelli d’Italia, mentre sua sorella Arianna Meloni è una delle principali responsabili del partito.

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