La cronica lentezza del parlamento nell’eleggere i giudici costituzionali
Da oltre dieci mesi deputati e senatori si riuniscono inutilmente per scegliere il membro mancante della Consulta: negli ultimi trent'anni è successo spesso
Martedì in parlamento si è svolta per la sesta volta la votazione per eleggere un giudice della Corte Costituzionale, cioè l’organo che vigila sulla legittimità costituzionale delle leggi e sulle controversie tra diverse istituzioni dello Stato. Per la sesta volta l’elezione è stata infruttuosa. Giovedì il presidente della Camera ha disposto una nuova convocazione del parlamento per martedì 24 settembre: sarà il settimo scrutinio, ma anche quello con ogni probabilità non darà alcun esito, lasciando la Corte Costituzionale priva di uno dei suoi quindici membri.
La Costituzione prevede che cinque dei quindici giudici della Corte (spesso chiamata anche Consulta, dal nome del palazzo dove ha sede) vengano eletti dal parlamento in seduta comune, cioè in un’elezione a cui partecipano contemporaneamente sia i deputati sia i senatori e che, come sempre in questi casi, si svolge nell’aula della Camera. Per la delicatezza del ruolo dei giudici costituzionali, e per ribadire anche formalmente come il loro mandato debba essere quanto più possibile a tutela della Costituzione e dunque non subordinato a interessi di parte, per la loro elezione è richiesta una maggioranza molto alta: nei primi tre scrutini serve una maggioranza dei due terzi dei parlamentari, dal quarto scrutinio in poi serve una maggioranza dei tre quinti. E ovviamente l’esigenza di raggiungere un numero di voti così elevato impone ai partiti di trovare accordi trasversali, che vadano oltre la classica dialettica tra maggioranza e opposizione.
È proprio questo l’inghippo che riguarda l’elezione del giudice mancante: il fatto che si debba eleggere un solo giudice rende proibitivo trovare un accordo tra i partiti. Di solito i giudici costituzionali di competenza parlamentare vengono votati in blocco, o comunque in un numero abbastanza alto (almeno due) da consentire un’intesa tra maggioranza e opposizione che si spartiscono i giudici da eleggere (uno a me, uno a te, e così via) secondo una logica non prevista dalla legge né dalla Costituzione, ma che è ormai diventata convenzionale. In questo caso invece il posto vacante è uno solo, e ciò complica tutto.
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Nel novembre del 2023, infatti, la giudice Silvana Sciarra, presidente della Corte Costituzionale, ha terminato il suo mandato. A capo della Corte è stato eletto Augusto Barbera, ma il sostituto di Sciarra non è stato mai individuato. Il parlamento, in realtà, dovrebbe provvedere entro un mese a eleggere i giudici mancanti, così da non pregiudicare l’efficienza dei lavori della Corte. Ma da ormai dieci mesi le convocazioni di deputati e senatori si susseguono invano.
Su questo ritardo è intervenuto in più occasioni anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. L’ultima volta, lo scorso 24 luglio, è stato piuttosto perentorio. Ha detto che la «lunga attesa della Corte Costituzionale per il suo quindicesimo giudice» è «un vulnus alla Costituzione compiuto dal parlamento», per poi proseguire: «Invito, con garbo ma con determinazione, a eleggere subito questo giudice». Già da prima, in maniera informale, Mattarella aveva sollecitato il parlamento.
Anche per questo il 25 luglio, dopo il quinto scrutinio andato a vuoto, il presidente della Camera Lorenzo Fontana, che è formalmente il responsabile delle procedure di voto, annunciò che a partire da settembre avrebbe provveduto a indire una votazione ogni settimana, così da spronare i partiti e rendere ancora più evidente la loro inconcludenza. Ma quella di Fontana è anche una mossa che serve a prendere le distanze dalle tattiche dilatorie di maggioranza e opposizione: come a dire che non è sua la responsabilità di questo ritardo.
Destra e sinistra si rimpallano le accuse: l’opposizione dice che siccome Sciarra era stata indicata dal centrosinistra, anche chi andrà a sostituirla dovrebbe avere lo stesso orientamento; Fratelli d’Italia e i suoi alleati ribattono che, per prassi, dei cinque membri della Consulta eletti dal parlamento tre sono scelti dalla maggioranza, e per rispettare questa consuetudine spetterebbe alla destra indicare il giudice da eleggere. In realtà sono pretesti, perché destra e sinistra sono d’accordo nell’attendere almeno fino a dicembre.
Per allora altri tre giudici di nomina parlamentare arriveranno alla fine del loro mandato: il presidente Augusto Barbera, Giulio Prosperetti e Franco Modugno. A quel punto, con quattro posti da assegnare, sarà più facile per i partiti trovare un’intesa e procedere. Ma non succederà prima di gennaio, visto che a dicembre il parlamento sarà impegnato prioritariamente sulla legge di bilancio, il provvedimento che stabilisce come variare la spesa pubblica per l’anno seguente. La trattativa sarà complessa, anche perché nei prossimi mesi la Corte Costituzionale dovrà esprimersi in maniera più o meno diretta su questioni molto delicate sul piano politico, come il referendum abrogativo sull’autonomia differenziata e, verosimilmente, alcuni aspetti – come la legge elettorale – che riguardano la riforma costituzionale per l’elezione diretta del presidente del Consiglio promossa da Giorgia Meloni (il “premierato” cosiddetto).
Questo anomalo prolungarsi dei tempi non è una novità, anzi, è ormai una costante degli ultimi 30 anni. Ci vollero undici mesi e dodici scrutini, tra il 25 febbraio 1995 e il 24 gennaio 1996, per eleggere Valerio Onida e Carlo Mezzanotte in sostituzione di Ugo Spagnoli e Francesco Paolo Casavola, dopo vari richiami dell’allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro; per eleggere Annibale Marini al posto di Vincenzo Caianiello, tra il 23 ottobre 1995 e il 18 giugno 1997, il parlamento impiegò quasi venti mesi e undici scrutini; passarono diciassette mesi tra il 21 novembre 2000 e il 24 aprile 2002 per rimpiazzare Francesco Guizzi e Cesare Mirabelli con Ugo De Siervo e Romano Vaccarella, eletti all’undicesima votazione. Il 21 ottobre 2008 Giuseppe Frigo fu eletto al ventunesimo scrutinio, dopo quasi diciotto mesi dalla fine del mandato dello stesso Vaccarella, che si era dimesso il 4 maggio 2007.
Nel 2015 ci fu il caso forse più problematico, perché lì i giudici da sostituire erano tre (Luigi Mazzella, Paolo Maria Napolitano e Sergio Mattarella), e per trenta volte le votazioni non portarono a niente. La Corte si avvicinava così al limite minimo di componenti previsto dalla legge, cioè 11. Anzi, sarebbero andati sotto il limite se nel frattempo il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, non avesse nominato tempestivamente due dei cinque giudici di sua competenza, Daria De Pretis e Nicolò Zanon. Alla fine, il 16 dicembre, al termine di una seduta parlamentare tumultuosa e dopo una trattativa estenuante tra la maggioranza che sosteneva il governo di Matteo Renzi e le opposizioni di Forza Italia e del Movimento 5 Stelle, si arrivò alla nomina di Augusto Barbera, Franco Modugno e Giulio Prosperetti: proprio i tre giudici il cui mandato di nove anni scadrà tra tre mesi.
Ma il record c’è stato qualche tempo dopo: per sostituire il dimissionario Frigo con Luca Antonini il parlamento impiegò più di venti mesi, tra il 7 novembre 2016 e il 19 luglio 2018.